Una recensione (s)ragionata in tre atti di Top Gun: Maverick
(segue)
Atto III
Parte la missione. Gli aerei si alzano in volo, le navi sparano una sventagliata di Tomahawk che cancella l’intera difesa aerea buglianese della zona (tutta a terra, tranne due caccia che, infatti, si salvano e convergono verso il punto in cui si sta dirigendo anche la pattuglia guidata da Maverick) e partono i tre minuti entro i quali va colpito l’impianto di arricchimento dell’uranio. È una lunga sequenza, ottimamente coreografata in cui i velivoli americani volano a bassa quota tra gole e valli, facendo maestosamente lo slalom tra alberi e ponti, con i piloti che commentano le manovre ma stando ben attenti a non richiamare l’attenzione del minaccioso occhio elettronico della contraerea buglianese. E lì mi viene da pensare che, se nei cinema di Cavalese, nel 1986, un sacco di persone avranno visto con entusiasmo Top Gun come praticamente stava succedendo in tutta Italia (ho chiarissimo il ricordo degli applausi, a fine film, con le gente che nel cinema della mia città aveva riempito talmente la sala da occupare in alcuni casi in due lo stesso posto), oggi, dopo quello che è successo nel 1998 con la strage del Cermis, questa spavaldissima sequenza di volo con protagonista dei baldanzosi piloti a stelle e strisce a cui viene insegnato a volare senza pensare, be’, avrebbe un sapore decisamente diverso. E probabilmente riceverebbe pure qualche fischio, segno che se anche il cinema decide ostinatamente di restare lo stesso, il contesto cambia e può rendere un po’ imbarazzante – cringe, direbbe di sicuro uno dei giovani Top Gun – quello che un tempo ci divertiva tanto e ci sembrava la normalità.
Per dire, è abbastanza improbabile che oggi qualcuno produca un remake di una commedia di successo degli anni ’80 come Soul Man.
Ora, però, basta pensare: l’impianto buglianese va bombardato e allora lo si fa. E, se il puntatore laser che dovrebbe tracciare il bersaglio va in tilt, per fortuna c’è la Forza a cui Rooster, spronato da Maverick che gli parla nella testa come faceva il defunto Obi Wan Kenobi con Luke, decide di affidarsi. Poi le bombe fanno il resto e bye bye sogni atomici dei buglianesi.
È adesso però, che per Maverick e i suoi inizia la parte difficile: fuggire senza farsi intercettare dalla contraerea ed evitando lo scontro con i due caccia nemici superstiti.
Nel mezzo della battaglia, Rooster sta per essere colpito, ma Maverick si mette in mezzo tra lui e un missile, garantendo con il suo sacrificio la salvezza al ragazzo.
Rooster vorrebbe tornare indietro per salvare Maverick ma gli ordini sono chiari: il caposquadrone è stato abbattuto e gli altri aerei devono tornare immediatamente alla base che è quasi in tavola la cena e poi si raffredda.
Maverick però non è morto. È riuscito a eiettarsi in tempo dal suo velivolo e a salvarsi, finendo a faccia in giù nella campagna buglianese dove un elicottero armato di tutto punto ora lo insegue per fargli la pelle. E ci riuscirebbe pure se, un attimo prima della fatidica raffica, un razzo non facesse saltare l’elicottero per aria. È Rooster, tornato indietro a salvare Maverick. Ma pure lui viene abbattuto da un missile.
Ora Maverick e Rooster si trovano in territorio nemico e, dopo un breve e acceso dibattito da buddy comedy su chi ha salvato chi, decidono che la loro unica speranza di uscire da quella brutta situazione è raggiungere la base aerea buglianese rasa al suolo dai Tomhawk. Lì fortunatamente si è salvato solo un velivolo che, altrettanto fortunatamente, è un velivolo dell’aviazione USA arrivato chissà come in mano ai buglianesi e che, ancora più fortunatamente, è un F14 Tomcat, ovvero l’aereo ad assetto variabile che Maverick pilotava nel film del 1986. È il momento “back to the origins”, quello in cui gli anziani dimostrano perché restano loro quelli che tengono la corda della borsa e decidono la paghetta dei giovani.
Penetrare nella base in mezzo al caos del dopo bombardamento è un gioco da ragazzi per i due piloti, così come è altrettanto facile impossessarsi del velivolo.
Ed è proprio la conoscenza da parte di Maverick delle strumentazioni del vecchio aereo (che invece Rooster, essendo un giovane nativo digitale, ignora totalmente) insieme all’assetto variabile del F14, che permette ai due di decollare usando una cortissima pista di rullaggio. Il decollo costa al velivolo il carrello, ma fare meglio di così era decisamente impossibile.
In volo, l’aereo di Maverick e Rooster viene affiancato dalla coppia ormai nota di caccia buglianesi. I piloti vogliono capire chi c’è a bordo del F14. Fanno degli strani segni dall’abitacolo a cui Maverick e Rooster, non capendo che vogliano dire, rispondono a caso, insospettendo così i piloti buglianesi che li attaccano.
Comunque sia, il piano di fuga è ormai rovinato. Maverick scatta così in avanti e fa fuoco su uno dei due caccia buglianesi, abbattendolo. L’altro pilota, però, non si fa cogliere di sorpresa e, forte della superiorità tecnologica del suo velivolo, sta per avere la meglio su Maverick e Rooster. Ma poi, anche lui, nonostante la tecnologia avanzatissima che in teoria permetterebbe al pilota di parcheggiare il suo caccia nel posto macchina di una Smart, deve capitolare di fronte alla competenza aerea dell’anziano a guida dell’aereo in disuso.
Maverick e Rooster ce l’hanno fatta, la portaerei è sempre più vicina ma… sorpresa: i caccia buglianesi rimasti in volo erano tre, non due.
Così riparte il duello aereo e stavolta l’F14 di Maverick e Rooster, rimasto senza armi e sistemi di difesa, sta per essere abbattuto. Ma dalla portaerei arriva in volo il sorridente Hangman che abbatte il caccia e salva la giornata alla Marina USA.
Dopo un atterraggio di fortuna, gran pacche sulle spalle di tutti: Hangman e Rooster ora sono amici, Maverick si è riconciliato con Rooster e probabilmente ha pure avviato le procedure per adottarlo. I comandanti, che salutano dall’alto del ponte di comando, ora finalmente concordano su Maverick: «è un figo… ma anche un coglione».
Qualche giorno dopo, troviamo Maverick e Rooster che, insieme, stanno riparando il vecchio P51 di Maverick. Li raggiunge Penny che, lasciata a terra la figlia, decolla con Maverick per un romantico volo al tramonto. Rooster sorride al ricordo del padre e poi partono i titoli di coda di questo film dedicato ovviamente alla memoria di Tony Scott, regista del film del 1986 e tragicamente scomparso nel 2012, portando con sé nella tomba l’idea che aveva di incentrare questo sequel sulla guerra odierna attraverso i droni.
Le cose sono andate diversamente da come le avevi immaginate, Tony…
Le necessarie conclusioni
Mentre scrivo, Top Gun: Maverick ha superato il miliardo di dollari di incasso in tutto il mondo (e non è ancora uscito in Cina, dove però l’attuale tensione con gli USA potrebbe non rendere il film graditissimo al governo locale) e, fateci caso, non c’è giorno che la nostra informazione non riporti una notizia riguardante Tom Cruise o i numeri che il film continua a macinare nonostante sia ormai uscito da più di un mese.
Certo, in un epoca in cui molti sequel o i capitoli successivi di serie cinematografiche storiche ondeggiano confusi tra l’omaggio al passato e l’imbarazzante fan service, un film che infila diritto i tre atti classici e porta a casa una storia esile ma che comunque non interferisce con il piacere di veder scorrere le immagini, risulta sicuramente encomiabile.
Ma ho pochi dubbi: fra qualche anno riguarderemo Top Gun: Maverick con lo stesso imbarazzo che oggi proviamo se, per caso, ci capita di rivedere in TV la prima parte di questa storia che aveva entusiasmato le platee di tutto il mondo nel 1986.
Perché l’errore di fondo è considerarli film invece che veicoli di propaganda strettamente funzionali al tempo in cui vengono prodotti. Filmati promozionali – oggi esattamente come nel 1986 – pensati per essere strumenti di reclutamento, se non direttamente fisico come nel 1986, sicuramente mentale. E non solo per i giovani americani. La macchina bellica USA si veste ancora una volta del sorriso smagliante di Tom Cruise e del suo incarnare oggi perfettamente un tempo passato in cui le cose erano ancora a misura d’uomo, in cui ancora l’industria del cinema – con cui è evidente una convergenza programmatica – decideva le politiche globali da Hollywood attraverso la leva dello star system e della distribuzione globale dei film in sala. E lo fa per chiedere nuovamente la nostra incondizionata fiducia in un sistema di valori e di equilibri che però la geopolitica contemporanea sta mettendo giorno dopo giorno in forte discussione. Se il presente è problematico, è rassicurante cullarsi nell’illusione che il passato non lo fosse. Fallo, credi in Maverick e nella sua capacità di pilotare velocissimo attraverso la problematicità del mondo e vedrai che ti sentirai meglio.
Top Gun: Maverick è un film che serve oggi soprattutto a riabilitare l’immagine dei militari americani sulla scia di numerose guerre fallite. Piloti umani che volano in una missione di combattimento? Be’, è qualcosa di molto raro in un’epoca come la nostra di attacchi aerei ad alta quota e guerra con i droni. Ma metterli al centro della scena è perfetto per distrarre l’attenzione pubblica da quei piloti di droni che hanno invece parlato della miseria e dell’orrore insiti nel loro lavoro e, soprattutto, dell’altissimo numero di vittime collaterali che le operazioni militari con i droni – oggi il fulcro dell’intervento armato USA nel mondo, altroché il dog-fighting aereo – hanno causato.
Top Gun: Maverick è un film che ha iniziato il suo percorso produttivo sotto l’amministrazione Trump ed è trionfalmente uscito nei cinema con Biden al governo, incarnando così in modo perfetto quella convergenza tra pensiero conservatore e pensiero progressista che è ormai all’ordine del giorno in tutta la politica occidentale.
Un film che finge di mettere in scena un conflitto tra vecchio e nuovo per un Occidente che fatica a trovare nuovi modelli: i personaggi di Maverick e Rooster non sono uno alternativo all’altro e narrativamente tesi a trovare una mediazione. Appartengono invece entrambi a un mondo che, nell’ambito della guerra reale, non esiste più da tempo e che è però rassicurante pensare che esista ancora e che sia ancora in grado di proteggerci da ogni minaccia.
Un sequel che, non tradendo mai il modello originario, ci mette a confronto con una realtà che a parole magari neghiamo, ma che oggi governa tutte le scelte produttive dell’industria dell’entertainment: come spettatori, siamo costantemente alla ricerca della novità e abbiamo in odio tutto quello che è vecchio – che ci ricorda ciò che ognuno di noi, giorno dopo giorno, diventa – ma poi, alla luce dei fatti, quello che desideriamo davvero è che il passato continui a germinare per il nostro esclusivo piacere. È questo oggi il sistema produttivo che stacca più biglietti e fa i numeri più alti nello streaming.
Il futuro oggi – e non solo al cinema – pare interessarci molto meno rispetto alla fantasia di un passato che diventa eterno presente e che, accarezzando la nostra nostalgia, continua a intrattenerci con prodotti nuovi ma sempre uguali, esperienze estetiche comodamente incasellabili nei nostri impigriti sistemi interpretativi.
Top Gun: Maverick in fondo è una favola. È la fantasia propagandistica e rassicurante di un mondo governato dalla capacità umana di valutazione e scelta, nel momento in cui però la stessa industria bellica che muove il mondo – e promuove il film – sta andando nella direzione esattamente opposta.
(fine)
Lettore lento e disordinato. Curioso discontinuo. Viaggiatore carsico.
Da sempre, legge parecchi fumetti e alcuni li pubblica anche. Collabora volentieri con QUASI perché gli pare il modo migliore di vagare senza rischiare di perdersi irrimediabilmente.