«Un anarchico è come un agente segreto che giochi la partita della Ragione allo scopo di minare l’autorità della Ragione (della Verità, dell’Onestà, della Giustizia ecc.). […] L’anarchismo epistemologico differisce sia dallo scetticismo sia dall’anarchismo politico (religioso). Mentre lo scettico considera ogni opinione ugualmente buona, o ugualmente cattiva, o desiste completamente dal dare tali giudizi, l’anarchico epistemologico non ha alcuno scrupolo a difendere anche l’asserzione più trita o più mostruosa. Mentre l’anarchico politico o religioso vuole abolire una certa forma di vita, l’anarchico epistemologico può desiderare di difenderla, poiché egli non ha alcun sentimento eterno di fedeltà, o di avversione, nei confronti di alcuna istituzione o ideologia. Come il dadaista, al quale assomiglia assai di più che non somigli all’anarchico politico, egli “non soltanto non ha un programma, ma è contro tutti i programmi”, anche se in qualche occasione sarà il più rumoroso fra i difensori dello status quo o fra i suoi oppositori: “per essere veri dadaisti, si dev’essere antidadaisti.»
(P.K.Feyerabend, Contro il metodo, Milano, Feltrinelli, 1979)
Faceva un freddo cane a Parigi quell’inverno…
Sì, va bene. È un incipit degno della peggior letteratura popolare. Hai ragione. È che il sogno della mia vita era fare lo scrittore di polar, alla Malet, alla Manchette, al limite alla Scerbanenco, ecco!, mica il quadro impiegatizio. Scusami e ricominciamo.
Effettivamente la temperatura che faceva quel 7 febbraio del 1848 a Parigi è assolutamente irrilevante. Quel giorno viene diffuso per le strade della capitale francese il primo numero di “Le rapresentant du people”. Lo dirige un signore di trentanove anni. È nato nel 1809. A trent’anni pubblica un libro destinato a lunga fortuna, che gli costerà processi vari per oltraggio alla religione e incitamento all’odio contro il governo.
Come non hai letto Qu’est-ce que la proprieté?! Rimedia subito: l’edizione Laterza del 1978 non la trovi più di certo, quindi prenditi quella di Zeroincondotta (mi sembra del 2000). Nel 1843 polemizza a lungo con Karl Marx. Inutile che ti dica che a mio avviso aveva ragione lui. Comunque, leggiti, che sono bellissimi, i due pamphlet della polemica: Filosofia della miseria, il suo; Miseria della filosofia quello di Karl.
Scusami di nuovo. Continuo a fare letteratura dozzinale e non ti ho detto ancora che questo signore si chiamava Pierre-Joseph Proudhon.
Ti sto raccontando di lui perché tra qualche giorno, il 25 settembre se non ricordo male, andrai a votare. Se giri da queste parti probabile che il tuo voto sia indirizzato verso qualche partito di sinistra o sedicente tale. Lo farai convintə di compiere, se non l’unico possibile certo il più utile e indispensabile atto politico per contenere la barbarie meloniana. Dopo resterai lì, davanti al televisore, ad aspettare i risultati.
Vedi. In quelle pagine, quelle di quel periodico che pubblicò a Parigi in quel fatidico 1848 (che arrivò a vendere 40.000 copie), Proudhon sosteneva che non può esserci un cambiamento soltanto politico, tale da interessare cioè solo il potere. Non una rivoluzione, ma anche un moderato cambiamento, non può esistere se non è prima di tutto sociale. La democrazia rappresentativa, con i suoi continui cambi di potere ma con il mantenimento imperterrito della dimensione sociale data, è la forma di dominio più mistificatoria: perché gli uomini, illusi di esercitarla, cedono volontariamente la propria autonomia al potere costituente.
Quell’anno, tra il 22 e il 24 febbraio, Parigi insorge. I francesi cacciano Luigi Filippo e instaurano la seconda repubblica. Proudhon è sulle barricate e imbraccia il suo Dreyse. Accetterà di essere eletto nell’Assemblea Nazionale. Ma tornerà sulle barricate, nel giugno di quello stesso anno, in mezzo agli operai parigini, dopo un infuocato discorso contro la borghesia, traditrice della causa sociale, che aveva scelto un altro Luigi, Bonaparte questo, quale presidente per la nuova repubblica.
Mentre Marx, suo antico avversario ideologico, seguiva concitatamente gli avvenimenti da Colonia, dove scriverà Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, bellissimo testo di fine analisi politica, Proudhon invece faceva a schioppettate con la Guardia Nazionale perché sapeva che non esiste determinismo storico, e che in quel preciso momento lì, la libertà andava difesa sul serio e non con gesti simbolici.
L’unico modo per difenderla era usare il fucile.
Proudhon finirà in carcere.
Ora.
Quello che mi balza agli occhi è che l’esercizio del voto come principale (e per tanti, unico) baluardo alla barbarie, è un comportamento più simile a quello di Marx – con i dovuti distinguo: che lui scrisse quel gioiellino là, l’elettore stende un’anonima crocetta su un qualche simbolo – che a quello di Proudhon. Ma perché la maggior parte della gente attiva (anche se la percentuale di chi non va a votare aumenta vertiginosamente, lo so benissimo che l’astensionista programmatico e ideologicamente motivato è una mosca bianca nel mare dell’astensionismo per rassegnazione e disinteresse) pratica l’uno piuttosto che l’altro?
C’è una cosa che mi lascia molto perplesso. Tutte le democrazie del mondo, quelle che ti sono tanto care e che il mondo – in buona misura – lo controllano, e che il loro modello raccontano di volerlo esportare, fosse necessario, anche con la forza (dagli USA, passando per l’Europa comunitaria e da Israele, fino alla Russia), sono, per quanto in modi diversi, delle democrazie parlamentari. Eppure, il mondo non mi sembra un luogo, non dico ameno, dico appena appena abitabile senza sofferenze e fatiche estreme.
Allora. Immagino, che anche se non lo hai letto, tu conosca (a differenza degli elettori della tua parte avversa) grazie al tuo percorso liceale, Montesquieu. Quindi saprai che nel 1748 Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède et de Montesquieu, pubblica (in forma anonima, che all’epoca era mica comodo come adesso, sai, essere progressisti; poteva anche costarti qualcosa, non dico rinunciare a un week-end, ma la testa magari e sicuro il carcere) il suo capolavoro: Lo spirito delle leggi. Sosteneva, nel capo secondo del libro secondo del volume primo, che il popolo che gode del potere supremo è tenuto ad assumersi la responsabilità di fare tutto da solo e affidare a qualche ministro solo ciò che proprio non riesce a fare da solo. Saprai anche che Jean-Jacques Rousseau, che con Secondat ci aveva commercio e lo aveva letto, respingeva quella che allora era l’unica forma di governo rappresentativo: quello inglese. Sostenendo che il popolo inglese credeva di essere libero, ma lo era solo quando andava a votare, poi, appena eletti i suoi rappresentanti tornava schiavo.
Questa pretesa, da parte di ogni essere umano, di decidere di tutto ciò che lo concerne, sarà la voce libertaria di Pëtr Alekseevič Kropotkin a sollevarla nell’Assemblea Costituente sul finire del 1917, quando chiederà che nella Russia rivoluzionaria venisse instaurata una repubblica federale a democrazia diretta. Lenin, sorridendo al grande vecchio anarchico con condiscendenza, gli risponderà, mentre le truppe dell’Armata Rossa scioglieranno, nel gennaio 1918, quella stessa assemblea, che qualunque persona di buon senso non può non rendersi conto di quale fesseria sia pensare che ogni individuo possa decidere di tutto ciò che lo riguarda.
Sai, non ti avrei mai detto leninista. Ora. Quando, in Matrix Reloaded, le macchine si avvicinano a minacciare Zion il Comandante Lock, responsabile della difesa, vorrebbe che tutte le navi restassero pronte a difendere la città. Ma il Consiglio gli intima di mandare due navi a cercare la Nabucodonosor sulla quale si trova l’Eletto, sguarnendo così le difese di Zion. Alle rimostranze di Lock che chiede delucidazioni per un comportamento tanto irrazionale, viene risposto dal Consigliere West: «comprehension is not requisite for cooperation». A interpretare il ruolo del Consigliere West Lana e Lilly Wachowski hanno chiamato uno dei più influenti intellettuali afroamericani viventi: Cornel West. In fondo è comprensibile. West, che si definisce socialista non marxiano, ha teorizzato, sostenendo di ispirarsi alla filosofia della prassi gramsciana, il pragmatismo profetico. Cioè l’idea dell’attività filosofica come lotta culturale e religiosa per la conquista delle masse. Un po’ assomiglia a quanto va teorizzando una certa sinistra più radicale, tipo quella che ha messo in piedi un Civati. L’idea di mischiare politica e storytelling, di riappropriarsi del mito (magari però senza aver letto Furio Jesi che sennò ci avresti anche qualche remora a giocarci con i miti) e di raccontarcelo da sinistra. Non è bravo Civati né come Wachowski, né come West, né tanto meno come Lenin che frequentava sì il pragmatismo, ma senza profezia alcuna. Però riesce a creare immedesimazione sentimentale in chi ascolta con chi racconta. C’ha costruito pure una casa editrice.
Non c’è bisogno che tu capisca. Non c’è bisogno che la prassi di chi racconta corrisponda poi a progetti comuni. L’importante è che chi ascolta la storia provi comunanza di sentimenti, si commuova e che poi collabori. Vota e non ti preoccupare. Che poi ci pensiamo noi.
Vedi, per me sono pochi i punti attorno ai quali potrei trovare comunanza con te, un programma minimo insomma, però si potrebbe (se metto da parte le mie posizioni estreme). Ma io, davanti a questi riformisti illuminati, non riesco mai a dimenticarmi che il loro difetto – come splendidamente insegna Claude Guillon – è che non riformano mai un cazzo.
L’alternativa non è tra il votare dei liberisti che han tra le loro fila qualche pallido paladino dell’equità sociale e dei diritti civili (che ovviamente resteranno, anche contro – ammettiamone la buonafede – la loro volontà, lettera morta) e il votare la barbarie salviniano-meloniana. L’alternativa è tra la rassegnazione del voto e la rivoluzione.
Ho cinquantaquattro anni e sono benestante. Non so farla la rivoluzione, perché a farla ci si fa male – inutile lamentarsi poi – e poi su quali cazzo di barricate dovrei salire se di barricate qui non ce n’è nemmeno l’ombra. Però il buon Proudhon quelle barricate del 1848 aveva dato una bella mano a erigerle, prima di salirci armato di schioppo. E allora in cosa mi sento più appartenete a lui che al divanismo marxiano? Beh, nella assoluta consapevolezza che sia tu che voti per il meno peggio, sia io che non voto, lo facciamo per rassegnazione e che, quando mai anche ci fosse, la rivoluzione non sarà mai trasmessa in TV. In TV trasmettono solo i risultati elettorali.
Oggi, rassegnato (che i miei cinquantaquattro anni me lo permettono), non voto perché non ci vedo nulla di utile e i contendenti mi fanno tutti schifo allo stesso modo. Il solo fatto che contendano, al di là delle loro singole ragioni, per potermi governare, mi fa schifare ognuno di essi. Chi esercita il potere, chi sceglie di esercitarlo non è uguale a me. E il fatto che mi chieda, attraverso il voto, il consenso non lo riesco a tollerare nemmeno per necessità. Se lo prenda il potere senza chiedermi il permesso. Chissà che, comunque vada questo 25 settembre, tra dieci anni chi oggi ne ha quindici non decida, stancə della nostra rassegnazione democratica, di fare l’inventario dei sogni e delle armi.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.