Leggo tantissimi fumetti. Un tempo – prima del “graphic novel”, prima delle minacce di Premio Strega, prima della loro presenza nella classifiche dei libri più venduti, prima della schiacciante predominanza del manga in libreria – quando facevo questa affermazione, scatenavo duri giudizi e sarcasmo. A quei tempi, i fumetti li compravo in edicola e le edicole erano ovunque. Adesso, quando dico di leggere tantissimi fumetti (e, sibilando, tengo per un sacco di tempo in bocca quel superlativo), scateno gli sguardi ammirati che un tempo sarebbero stati riservati ai lettori di Deleuze o Foucault. Non sanno gli sciagurati ammiratori delle mie letture quanta sofferenza mi produca dover comprare i miei fumetti in libreria.
Qualche tempo fa, un amico ha scritto su Facebook una frase breve, perentoria, provocatoria e fraintendibile. Ha fatto benissimo: se hai una frase con tutte quelle caratteristiche, la bacheca del tuo social network preferito è il posto perfetto per scolpircela. Riceverai qualche pollice, qualche cuoricino e un po’ di dileggio. Quella frase mi tocca citarla a memoria, perché la timeline scorre e la vita è breve:
«E dire che c’è ancora chi considera i fumetti disegnetti per perditempo».
Questo mio amico, allinea sulla sua bacheca illustrazioni e vignette di disegnatori bravissimi. Ha un gran gusto, sviluppato sfogliando le riviste più belle. Ha letto “Frigidaire”, inseguito “Valvoline”, è sopravvissuto agli anni Novanta. Ora è attento alle pubblicazioni delle case editrici che mostrano di avere un progetto. Pur capendo le sue intenzioni, mi sono sentito chiamato in causa. Avevo voglia di gridare: «IO! IO! IO! IO!» Disegnetti per perditempo è diventata immediatamente la mia definizione preferita di fumetto.
Contiene tutto quello che voglio da un fumetto. Ci sono i disegnetti. E c’è il tempo da perdere: quello dentro le pagine e quello di chi, quelle pagine, le guarda.
Assisto con gioia allo schianto della definizione “graphic novel”. Quel tentativo di nobilitare il fumetto con una locuzione altisonante – odorosa di romanzo e arti grafiche – si è rivelato quantomeno infruttuoso. Le collane che tutti gli editori, grandi e piccini, ricchi e poveri, capaci o meno, dedicano a quella classe merceologica sono tutte – TUTTE – stipate di schifezze inguardabili. La presenza nel catalogo di un fumetto che valga il suo prezzo di copertina pare dipendere unicamente dal caso. Tanto è vero che quelle perle rarissime possono comparire ovunque, tanto sotto l’egida di chi fa – almeno in apparenza – editoria di progetto quanto sotto quella di chi è evidentemente privo di gusto e sguardo. Mentre i metri di scaffalatura che fino a qualche tempo fa erano dedicati al “graphic novel” vengono progressivamente divorati dal manga (ma fino a quando?), leggiamo settimanalmente il rapporto di vendita dei fumetti più venduti (come da rilevazioni GfK) nelle classifiche di “Robinson” della “Repubblica” e di “TTL” della “Stampa”.
Si sa, le classifiche registrano asetticamente la quantità e mai la qualità. Per quella ci dovrebbe essere la critica (tu sei viziato e leggi QUASI: c’è il rischio che non ti sia accorto che, sotto questo aspetto, là fuori la situazione non è felicissima). Certo Pera Toons e Lyon offrono concentrati di bruttezza inutile ma, con ogni evidenza, assai vendibile. Il bello non sempre vende.
Spiegandomi perché non pubblicherà un fumetto nuovo, bello e che rischia di rimanere inedito in Italia, l’editor di una grande casa editrice mi dice che la colpa non è solo dell’editore: il sistema del commercio dei libri ha tre vertici, l’editore, il pubblico, la critica. E certo! È colpa mia. Eppure quando un’azienda che produce automobili chiude un anno in perdita, mica dà la colpa ai clienti che hanno comprato i modelli di un altro produttore; caccia i direttori e progetta nuovi modelli e nuovi modi di comunicare. L’editoria è la più immatura tra le industrie. Popolata di parvenu con un grave complesso di superiorità.
Eppure, ancora adesso, anche se è molto difficile trovarli in edicola, anche se è quasi impossibile trovare bellezza, leggo tantissimi fumetti.
In edicola per esempio trovo “I grandi maestri”, la collana di albi in bianco e nero, in formato quasi bonelliano, di Cosmo. Gli ultimi numeri che ho comprato e letto sono i fascicoli dedicati a “Creepy” e “Eerie”, le testate horror della casa editrice newyorchese Warren, e Storie Nere, raccolta di fumetti brevi scritti da Sanchez Abulí e disegnati da Jordi Bernet. Gli albi che raccolgono le storie da “Creepy” e “Eerie” hanno tutte le caratteristiche per essere fonte di grande gioia: storie ingenue, pagine meravigliose, disegnatori straordinari. Peccato che le retinature originarie, in riproduzione, siano esplose in rose e pattern inguardabili, dando vita alla fiera dell’effetto moiré. A meno che tu non sia un appassionato di opt art, illusioni ottiche e gestalt, evita quella roba: fa male al cuore. Storie nere, invece, è un gioiello. Racconti fulminanti che durano il tempo di un caffè, spesso prevedibili, ma disegnati da Bernet con velocità famelica. Neri densi, stesi a pennellate che sentono di rabbia e urgenza, per raccontare un mondo di sesso e violenza, amore e morte. L’ormai bolso formato “graphic novel” ha costretto i fumettisti a confrontarsi con storie lunghe: abbiamo subito centinaia di narrazioni esili e annacquate. Sono troppi i libri di cui, negli ultimi anni, abbiamo pensato «Carino… se solo avesse avuto il coraggio di tagliare 80 pagine, sarebbe stato addirittura interessante». Abulí e Bernet non hanno tempo da perdere. Realizzano storie brevi per le riviste. Devono rispettare scadenze di pubblicazione e devono raccontare mettendo in pagina la massima efficacia narrativa. Il disincanto del segno di Bernet si sposa perfettamente con il suo piglio di autore che deve realizzare, senza esitare, il numero di pagine capace di garantirgli la sopravvivenza alimentare. Così facendo, come tutti i migliori fumettisti, costruisce pagine meravigliose molto in fretta, senza perdersi nell’esitazione. Difficilmente dimenticherò lo sguardo della vedova che ha fatto conoscere (e rimpiangere) l’amore all’assassino del marito, poco prima che lo fucilassero.
È ancora Cosmo a portare in libreria un volume che cerco da tempo: Faust vol. 1 di David Quinn e Tim Vigil. Non sono riuscito a trovarne edizioni in nessuna lingua. Ho letto i primi sei numeri di quella serie tra aprile e ottobre 1991. Li compravo in edicola: erano albi spillati, pubblicati da Edizioni Eden, una casa editrice che credo fosse nata per sfruttare l’appeal commerciale dello splatter, e curati da Daniele Brolli. Costavano 2000 lire ed erano stampati su carta pesante e porosa. L’horror cinematografico si era ormai tinto di gore. Avevo visto i film di Wes Craven, Tobe Hooper, Sam Raimi, Brian Yuzna e David Cronenberg. Da ottobre 1986 leggevo “Dylan Dog” e tre anni dopo avevo iniziato a seguire la parabola della rivista “Splatter”. Nel 1990 c’era stata un’interrogazione parlamentare per verificare quanto quella manciata di disegnetti per perditempo stesse traviando la moralità dei giovani lettori. Se da un lato quell’indagine aveva condotto all’obbligo di specificare un divieto ai minori in copertina di “Splatter”, la più radicale di quelle pubblicazioni, portandola inesorabilmente alla chiusura, dall’altro aveva prodotto un’ottima copertura stampa. Non stupisce quindi che, in un momento in cui le edicole brulicavano sull’intero territorio nazionale, gli editori cercassero di proporre prodotti potenzialmente commerciabili. Il “Faust” che trovavo in edicola era un figlio degli anni Ottanta, carico di sesso e violenza come poche altre cose che avevo visto su carta. Un Wolverine demoniaco che osava fare quello che negli albi Marvel non si poteva rappresentare. La resa su quella carta porosa dava a quel fumetto un aspetto a metà tra l’albo popolare e il Tijuana Bible, l’albo apocrifo che raccontava le vicende pornografiche dei personaggi dei fumetti più letti. L’ho amato. Ho gioito leggendo che Cosmo avrebbe pubblicato l’intero ciclo in tre costosi volumi. Ora ho in mano il primo. Lo sfoglio e lo confronto con i vecchi albi. È tradotto meglio, il lettering tipografico è disposto meglio nel balloon, ci sono meno ingenuità… Eppure, mi sembra che quella carta patinata e bianchissima spenga l’impatto: sesso e violenza, riprodotti con quella cura, sono decisamente smussati.
Mi sento un po’ reazionario a rimpiangere i bei tempi che furono, di edicole piene di carta ed editori cialtroni con un’allegria tale da non sentire il dovere di nascondere le proprie pulsioni più becere. Allora prendo da una scatola qualcosa che so per certo che non rimpiangerò. Trovo dei vecchi numeri della rivista “Comic art” della fine degli anni Ottanta. So cosa aspettarmi: cose belle, talvolta bellissime, mescolate quasi a caso, senza nessuna visione d’insieme. Fumetti che non parlano tra loro, affiancati al solo scopo di riempire tutte le pagine che compongono la rivista. Gli articoli che si alternano ai fumetti, se escludo Luigi Bernardi e Antonio Faeti, sono di una volgarità disarmante. Una rivista costruita senza alcuna perizia, senza cultura. Una rivista senza. La sfoglio, pronto a ricevere carezze incongrue: Andrea Pazienza, Massimo Mattioli, i fratelli Hernandez in frantumi, Magnus, Will Eisner a caso, Schulteiss, Paolo Bacilieri, Anna Brandoli, Boucq, Attilio Micheluzzi, e in mezzo fumetti indecisi come Vincent Vega nel noto meme.
A un certo punto un fumetto di Carlos Nine ottiene tutta la mia attenzione. Sul numero 45 di “Comic Art”, datato luglio 1988, c’è il primo episodio di Keko el mago, pubblicato originariamente, un paio di anni prima, sul ventiseiesimo numero della rivista argentina “Fierro”.
Rileggo quella storia in bianco e nero, godendo tantissimo. È breve, appena otto pagine. Keko è innamorato di Magda. Lei è sospettosa: è convinta che lui finga di amarla solo per le sue ricchezze. Per convincerla della veridicità del suo sentire, il mago si lancia in mirabolanti giochi di prestigio. Estrae dal cappello un corsaro con barba, orecchini e bandana. È un bel fusto e Magda se ne innamora e fugge con lui. Inizia un inseguimento a colpi di magia che chiude la storia in uno strano anello.
Estraggo dalla mensola Keko le magicien, un volume edito da Rakham nel 2009 che raccoglie tutte le storie del mago. È a colori, di grande formato, carta uso mano pesante, così bianca da far risaltare tutti i segni di Nine. Mentre voglio scoprire cosa abbia aggiunto (o tolto) il colore a quel fumetto, mi accorgo che Carlos Nine ha ridisegnato tutte le pagine per cambiarne pesi e armonie per dare un colore che lo soddisfacesse. La versione in bianco e nero è materica, densa, piena di riferimenti espliciti all’immaginario. I segni pesanti omaggiano la tradizione argentina, spingendosi fino a José Muñoz. La versione a colori è più evocativa e lieve. I riferimenti ai cartoni animati (Bugs Bunny, Clarabella) sono più sfumati. Nella versione in bianco e nero, lo sguardo seducente di Keko, prima rivolto a Magda e poi a Clarabella, apre e chiude il fumetto, chiarendo il gioco di circolarità. Nella versione a colori quella piccola magia grafica si spegne: è bastato che quella vignetta fosse messa nella pagina precedente perché il gioco si infrangesse.
Carlos Nine è stato un fumettista gigantesco e un narratore infallibile. Ancora una volta, per capire e per godere, dovrò perdere un sacco di tempo tra i suoi disegnetti.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).