Il 17 ottobre del 1961, un martedì, a Parigi pioveva a dirotto. Erano più o meno le sette di sera e da tutte le bidonville intorno alla capitale, in particolare da quella di Nanterre, migliaia di algerini cominciavano a muoversi verso gli arrondissement centrali, dove l’FLN aveva indetto un’imponente manifestazione pacifica.
Nel 1961 la guerra d’indipendenza algerina durava ormai da sette anni. Fino al 1958 era stata condotta solo entro i confini del dominio coloniale, senza particolari ripercussioni sul territorio metropolitano; ma a partire dall’agosto di quell’anno una novità determinante diede un corso del tutto nuovo alla guerra. L’FLN, che dal 1956 aveva cominciato a coagulare attorno a se tutte le forze indipendentiste algerine, diventando di lì a due anni, con il suo braccio armato l’ALN, l’unico riferimento della resistenza antifrancese, decise di aprire un fronte di guerriglia direttamente sul territorio francese, con una serie di attentati mirati contro depositi di carburante e contro le FPA (forze di polizia ausiliaria che il prefetto Maurice Papon aveva voluto per controllare i 350.000 algerini residenti nell’Exagone).
Nei primi giorni dell’ottobre del 1961, uno di questi attentati causa la morte di 11 poliziotti, ferendone altri 17. In risposta Papon scatena una repressione senza eguali, lasciando mano libera alla violenza della polizia, che ricorre, nella totale impunità, agli omicidi sistematici, e istituendo un coprifuoco, solo per gli algerini di religione mussulmana, dalle 20.30 alle 5.30. Inoltre, tutti i locali algerini di Parigi devono chiudere entro le 19.00.
La manifestazione del 17 è organizzata per protestare contro l’incostituzionalità di quel coprifuoco razzista. Gli algerini sono assolutamente disarmati. Le disposizioni del FLN sono rigidissime: niente armi. Un servizio d’ordine capillare perquisisce tutti, sequestrando persino i temperini. La manifestazione non è spontanea, l’FLN che controlla le bidonville dove vivono, ha obbligato le famiglie di operai a partecipare unite. Sono tutti vestiti a festa, con gli impermeabili. Sono quasi 30.000. Prefettura e questura sanno benissimo che la manifestazione è pacifica. Ma la polizia attacca i manifestanti con inaudita ferocia. Dalle 20.00 a mezzanotte si scatena una caccia all’uomo cui non si era assistito nemmeno durante l’occupazione nazista (non va dimenticato che Papon aveva un bel trascorso come collaborazionista). Gli uomini vengono massacrati a colpi di manganello, le donne e i bambini gettati nella Senna. Pochissimi di loro sanno nuotare. Secondo quanto scrive Jean-Luc Einaudi, nel suo La Bataille de Paris (1991), si ripescheranno cadaveri fino alla fine di ottobre.
Nei giorni seguenti ci furono centinaia di arresti e deportazioni. Le stime ufficiali furono di due morti e qualche ferito. La realtà, come trent’anni dopo, dimostreranno le ricerche storiche di Jim House, Neil Macmaster, Jean-Paul Brunet e Jean-Luc Einaudi, è tragicamente diversa: la stima degli algerini uccisi quella notte dalla polizia oscilla tra i trenta e i cinquanta, arrivando a duecento verso la fine del mese a causa della persecuzione e repressione cui fu sottoposta la comunità algerina nelle settimane seguenti.
Elise e i nuovi partigiani, autobiografia di Dominique Grange disegnata da Jacques Tardi, comincia brutalmente, immergendoci nel massacro di quella notte. La lunga sequenza iniziale (13 tavole), costruita da Tardi con un ritmo assolutamente funzionale, che dal campo lungo della bidonville di Nanterre ci porta – attraverso una serie di campi sempre più ristretti – ai dettagli della violenza poliziesca, è una chiara dichiarazione di poetica nella quale ogni vignetta assume una radicale posizione etica e ideologica. Posizione non lontana da quella espressa da Jacques Rivette, proprio nel 1961, a proposito del film Kapò di Gillo Pontecorvo, e ribadita – trent’anni dopo – da Serge Daney in uno splendido saggio (Il carrello di Kapò). L’immagine è il comporsi di uno sguardo, ma nel momento che si compone diventa il luogo costitutivo dell’altro. Il costruttore di immagini deve ricercarne la “giustezza”, e deve preoccuparsi della loro collocazione etica, non della loro bellezza (che segue di necessità, se i primi due requisiti sono soddisfatti). Questo libro bellissimo, con il pretesto dell’autobiografia e del ricordo storico, si colloca con forze etica nella contemporaneità del nostro immaginario, muovendone una critica spietata.
Sono due, nella prima parte della sua esistenza, gli incontri determinanti che portarono Dominique Grange a fare scelte di vita radicali. Il primo è sicuramente quello con Jeannette Colombel, sua professoressa di filosofia al liceo femminile Edgar-Quinet di Lione. Partigiana, membro della direzione – almeno fino all’invasione dell’Ungheria – del Partito comunista francese, autrice – tra gli altri – di due libri di estrema bellezza (Brumes de mémoire e La nostalgie de l’espérance) ma molto successivi al periodo in cui era insegnante (li cito solo per incuriosirti alla loro lettura), Colombel esercitò un indiscutibile fascino su Dominique, in virtù del suo passato di combattente antinazista e al suo presente di militante comunista e femminista. Militanza che destava un certo scandalo nel provinciale e cattolico mondo della borghesia lionese.
Dominique veniva da una famiglia borghese e benestante, originaria dell’Alta Savoia e trasferitasi a Lione durante la guerra. Suo padre era un affermato chirurgo oftalmologo e sua madre una delle personalità più in vista dell’associazionismo cattolico della città. Sarà l’influsso dell’intellettuale comunista a farle venir voglia di rompere con quel mondo borghese, bigotto e chiuso nella propria indifferenza ai fatti del mondo come la guerra d’Algeria, e a spingerla nel 1958, dopo il diploma, ad andare a Parigi a studiare alla scuola di teatro di Raymond Girard.
È brava Dominique, e nel 1962 esordisce in TV in uno sceneggiato diretto da Louis Malle. Presto arriva a teatro, dove recita Durrenmat, e la sera si esibisce nei locali della Rive Gauche (suona il piano e la chitarra fin da bambina). Tra il 1962 e il 1964 pubblica tre singoli di discreto successo. In quello stesso 1964 Guy Béart (sì, il papà della splendida Emmanuelle Béart, era un famoso cantante e presentatore televisivo) la vuole con sé nella sua trasmissione Bienvenue chez Guy Beart, e duetta con lei in una canzone che arriverà in classifica. Le sfarfalla davanti il luccichio di una carriera di cantante yé-yé, che avrebbe potuto farla assurgere agli stessi allori di Françoise Hardy, di Sylvie Vartan, di France Gall. Ma, a questo punto, Dominique si ferma.
Anche Claire Etcherelli a un certo punto aveva deciso di fermarsi. A nove anni aveva perso il padre, ucciso dai nazisti nel 1943, e in qualità di “pupille de la nation”, aveva avuto diritto a una borsa di studio e aveva potuto studiare nella migliore scuola cattolica di Bordeaux. Se si fosse diplomata le si sarebbe aperta davanti un’interessante carriera accademica, ma Claire non si trova a suo agio nell’ambiente borghese che frequenta quella scuola, così decide di fermarsi. Non si diploma e, a diciotto anni, abbandona gli studi. Se ne va a Parigi, dove per vivere fa l’operaia alla Citroën. Nel tempo libero si dedica alla sua passione: scrivere. Tra il 1963 e il 1967 si sposa e divorzia due volte. Cerca un editore per il romanzo che sta scrivendo, nel quale racconta la sua infanzia, la vita da operaia, i matrimoni e la difficoltà dei rapporti umani, ma soprattutto il profondo razzismo della società francese (il suo secondo marito era algerino) per la quale quelli originari delle colonie sono cittadini di serie B.
Maurice Nadeau, che dal 1965 dirige le Éditions Denoël, legge il romanzo e nel 1967 decide di pubblicarlo. Una recensione positiva di Simone de Beauvoir su “Le Nouvel Observateur”, ne farà il romanzo che tutte le giovani di sinistra (sta per scoppiare il Sessantotto, sono tantissime) devono aver letto.
Quando arriva lo tsunami della rivolta studentesca, tra le letture di Dominique, che ha abbandonato la carriera yè-yè per la musica impegnata e la lotta politica, c’è il romanzo di Claire: Elise ou la vrai vie. Questo è l’altro incontro fondamentale.
Le difficili scelte di Claire, trasposte in quelle di Elise, la rafforzano nelle sue decisioni. Se Dominique segue la strada dell’impegno politico e sociale, fino a dover scegliere la clandestinità e a sperimentare il carcere, è anche grazie a questo libro. Lei stessa ha dichiarato che è stata una delle letture più importanti e fondamentali della sua vita. È per questo che la protagonista della sua autobiografia si chiama Elise. Ma, se questo spiega la scelta del nome non spiega perché Grange e Tardi hanno deciso di trasformare il soggetto dell’autobiografia in un personaggio diverso da quel soggetto (Grange stessa).
La ragione è da ricondurre al carico veritativo (quella verità che nella sequenza iniziale ci fa toccare con lo sguardo a quale distanza da noi comincia l’altro) dei disegni di Tardi.
In un’autobiografia voce narrante e soggetto della narrazione corrispondono. La soggettività si rivela e si avvera attraverso il racconto delle proprie azioni. Te la dico semplice: se nella vita io sono quello che faccio, nel racconto che io faccio della mia vita sono quello che racconto di aver fatto. Nel momento però che uso il fumetto per raccontare la mia soggettività mi trovo davanti a un paradosso. Il valore veritativo del segno di Tardi (ma, in fondo, del segno fumetto in generale) attribuisce al personaggio che dovrebbe rappresentare la mia soggettività uno statuto di realtà altro dal mio. Non mi può rappresentare perché nel momento che viene disegnato, esiste a prescindere da me. Se Grange e Tardì avessero sostenuto che la protagonista della loro storia era la stessa Grange, avrebbero mentito. Mentire quando si racconta è lecito, ma ovviamente cambia il valore etico e politico del tuo lavoro; per Tardi ogni inquadratura è una questione morale, per non cadere in questa trappola (in virtù di quella moralità gli autori preferiscono non mettersi dove non sono), e lasciano che la protagonista, ribattezzata con un nome che la distingua anche agli occhi del lettore più inconsapevole da Dominique nella sua soggettività, abbia una propria esistenza che combacia con quella di Grange ma non è la sua. Elise non è Dominique, così come Dominique non è Elise, anche se hanno vissuto “la stessa” intensissima vita. Una strategia narrativa, quella specie di metalessi che Tardi aveva già utilizzato in Io, René Tardi, che qui assurge al suo vertice estetico, e che fa di questo libro una delle opere più politiche e teoricamente rilevanti non solo del corpus di Tardi, ma di ogni produzione a fumetti.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.