C’è stato tempo per pensare a come caricare questo HIMARS ubriaco di idee raccapezzate alla rinfusa ma sparate con un certo ordine e una accalorata intenzione. Dove possano atterrare non è dato sapere, al momento continua a valere la presunzione di non lettura (per non presenza, ché potreste anche esserci ma decidere di non leggere. Ma poiché non ci siete, non mi dovrò fare troppo il problema di non impressionarvi o scandalizzarvi o irritarvi). Poi però, improvvisamente, non c’è stato più tempo e il pod di idee-missile me lo sono ritrovato vuoto, silenzioso. E dire che mi pareva di essermi preparato, perché il calendario mi fa uscire proprio dopo il tristissimo varietà elettorale e il debito editoriale del lunedì. Un’occasione piuttosto ghiotta. Ma poi succedono le cose e la tua attenzione viene distolta, la tua pazienza strinata e fiammeggiata come un pollo decapitato da fare lestamente alla diavola e l’agenda viene occupata dalla prenotazione di ricoveri, sale operatorie (ancorché per manutenzioni abbastanza poco eclatanti), dalla burocrazia gestionale del fine vita di un familiare, oltre che dal solito tricchetracche lavorativo pieno di scatole a sorpresa che scattano sempre nei momenti meno opportuni, fulminandoti con precisi getti escrementizi. Oltre al fatto che, molto spesso, sei tu che non hai voglia. Insomma, doveva essere una circostanza, un ricevimento appropriatamente allestito ma la tavola è vuota, le sale sono silenziose e la dispensa è stanca.
Si potrebbe partire da varie angolazioni. Una è stata quella di chi va a votare, chi no, chi ci andava e ora non più, o viceversa, chi non c’è mai andato, chi sempre. Non so, non è colpa di nessuno ma il giochino, mi viene da riflettere, è sempre stato questo: tra i moral hazard delle democrazie c’è esattamente quello di ridurre i cittadini a un mero serbatoio di consenso, da esercitarsi puntualmente ogni qualche anno, anche se poi conta solo il rumore che risuona su quei pezzi di arena mediatica che sono stati consegnati al giudizio degli ultimi degli iloti. Credo che lo abbia detto Rousseau dell’Inghilterra del XVIII secolo – la considerazione è ancora valida. Ognuno di noi porta la sua triste fiche in una eucaristia al contrario, dove si va a ricomporre il corpo del Leviatano con questa transustanziazione insultante, piena di grida e scoregge. [Ve l’avevo detto che c’era da irritarsi, siete ancora in tempo a mollare]
Io capisco chi non c’è mai voluto andare o gli è passata quella poca voglia che aveva. Il pezzettino che porti, o che ti pare di portare, se ci pensi (ché se pensi ad altro allora il problema non lo senti proprio – nel senso, se eri il classico elettore di Achille Lauro o uno dei suoi troppi epigoni contemporanei, il tuo obiettivo era ricomporre il paio di scarpe, non altro), ti pare che sia una frazione di te che viene violentata consegnandola a questo sistema di rappresentanza non solo fallimentare, ma proprio offensivo. È così che hanno tenuto lontani dal suk del voto molti di voi. Facendo leva sull’illusione che quei pezzettini fossero speciali, che quello che portavate fosse una espressione determinante del vostro essere ed esistere, che la vostra scelta, pure se annegata nel buio dell’urna, avesse una relazione nobile con chi siete e cosa valete (o credete di valere). In questo modo, mi viene da pensare, hanno alienato una buona parte delle persone dotate di una quota anche solo minima di pensiero critico – ingrediente che sarebbe un ottimo antidoto per quelle volte in cui un sottoinsieme del gregge si mette a ballare una taranta fuori luogo. Questo rifiuto indotto è una delle tradizioni di maggior successo nella storia di questa pietosa repubblica. Ma, ahimè, non ho grandi energie o fervorini pepati per farvi cambiare idea.
Perché poi, anche quando vai, non è che, semplicemente, devi turarti il naso. Ti prende lo sconforto. La certezza matematica di essere l’equivalente politico di una scrofa immobilizzata in una gabbia di contenimento di un allevamento tedesco che poi ti venderà, squartata, al Lidl, a uno e ventinove al chilo all’ingrosso. A te e ai tuoi figlioletti porcellini.
Una delle ultime volte ho tirato in ballo H.L. Mencken e il suo avvertimento: «The job before democracy is to get rid of such canaille. If it fails, they will devour it». E infatti, la canaglia ha vinto e l’ha spolpata per benino, la democrazia. Uno dei risultati più avvilenti è stato quindi il ribassamento necessario e ampiamente celebrato, nel compiacimento delle audience, della qualità del dibattito pubblico e la discesa agli inferi fecali dei discorsi e degli argomenti, in un palinsesto sempre più appetitoso per la personalità autoritaria. E, a prima vista, ma anche seconda, nessuno che riesca a dire niente. Le voci che ci sono restano soffocate, o limitate a profili social da quarantatré contatti. In ultima analisi, la canaglia siete voi, questa maggioranza che si concretizza sia negli andanti che nei non-andanti. Si è rimasti bloccati a un livello di sviluppo para-infantile, la mente civica non si è sviluppata, non dico che sia bello che lo faccia, certi giorni preferirei non far parte di nessuna comunità, figuriamoci di questa, ma non ce lo possiamo evitare e norme e diritto avrebbero dignità nel servire il proposito di un basso livello di interferenza tra noi, tra te e me, tra le nostre libertà. Una volta Valerio Pocar lo disse benissimo, ma non riesco a ricordare le parole esatte. Il concetto sì. La mia libertà finisce dove inizia la tua. In qualche modo dobbiamo misurarci con questo nodo. Io, certi giorni, lo risolverei trasferendomi nello Yukon, o in un posto qualsiasi con una densità abitativa di sei lavori in pelle a chilometro quadrato. Ma non sarebbe una soluzione, l’approccio sarebbe meramente palliativo, con la distanza al posto della morfina.
Perché parliamo comunque di dolore. È un dolore di quelli particolarmente acuti e cocenti, realizzare di aver consegnato (ma chi è stato? e quando?) la guida, l’indirizzo e la gestione della res publica ai peggiori, a quelli che quando si andava al liceo non riuscivano a fare bene il compito manco se glielo passavi (e stupido tu che lo facevi) o che pure riuscivano a farlo bene ma erano già marci dentro, corrotti ab ovo. La coprocrazia è la riva su cui si infrange l’onda lunga rivoluzionaria e repubblicana che aveva schiantato, in apparenza, l’Ancien Régime. Che poi, cosa c’è da sorprenderci? a furia di non sapere, di non conoscere, di non voler studiare, restano solo le opinioni a cazzo di cane, il pensiero critico muore nel sostrato malevolo in cui non può attecchire, le persone assurgono comunque a livelli socio-economici ragguardevoli ma sono utili al progredire comune come metastasi di carcinoma uroteliale. Se vanno in giro nel corpo lo ammazzano, è solo questione di tempo. Se qualcuno avesse resecato via il tumore primario per tempo forse oggi girerebbe ancora tra i vivi, quel corpo.
E quindi, immagino che sarebbe del tutto inutile, vista anche la morte o sopraggiunta irrilevanza delle ideologie nella loro capacità di trazione (hai voglia a Stalingrado d’Italia, da rosse diventano verdi e poi nere…), ragionare insieme su come diamine è stato possibile che le scienze sociali e altre discipline abbiano abbastanza chiaramente delineato la tendenza degli umani a trovare un disagevole rifugio nella personalità autoritaria e nelle sue troppe varianti, senza che un briciolo di questa conoscenza arrivasse al pueblo desunido, a voi, massa di indesiderati fratelli e sorelle miei. Per alcuni di voi è chiaro – come ho detto chiaramente prima, la consegna della fiche elettorale non è necessariamente espressione di chi siete e di cosa pensate, ci mancherebbe – ma i più, la gran parte di questi citoyens, tutti insieme appassionatamente, concretizzano il più grande vetrino di Petri per la coltura dell’antrace del fascismo mentale. Quello che ti può prendere anche quando voti comunista da una vita. O non voti niente da sempre. O da ieri.
La squallida, deprimente partita elettorale che si è giocata domenica non rappresenta una svolta, comunque sia andata. Si colloca su una traiettoria pluridecennale di smottamento continuo. Avete contribuito a prepararla. Chiunque si metta al timone è il sostituto immaginario di Schettino quando ormai non c’è più niente da fare. Ma che ci si mettano i ragazzi e le ragazze di bottega dei disastranti d’antan appare pure più logico, faranno «macchine avanti!» sui bassifondi in attesa nel mare notturno, mentre le lucette dell’isola sfavillano in lontananza. L’entusiasmo è tutto.
E allora, facciamolo, un piccolo dishonor roll, non lo volevo fare ma sto smottando dentro pure io, non ne posso veramente più. Sono trent’anni o più, anche quaranta e qualcosa (non dimentichiamo il Cinghialone), che si impone in modo integrale il personalismo sulla scena politica italiana, come unica chiave di lettura. Facciamoci dunque questo esercizio da laboratorio a rischio biologico di livello Quattro. Mettiamoci lo scafandro e entriamo nella sala a pressione negativa. Resterà tutto lì.
Letta. Non so, non conosco l’uomo, non l’ho mai ascoltato per più di trenta secondi, al massimo. So che è il nipote di suo zio e il nipote di un grand commis reggipalle della parte «a loro avversa», come ebbe a dire un altro memorabile condottiero, non mi ha mai suonato benissimo. Né l’hanno fatto conti marchigiani in quota partito-fiore o ciccibomba del contado fiorentino in quota non si sa cosa. Non ho sentito arrivare NIENTE. Niente di presentabile, solo quel contegno floscio, ancorché intenzionato a essere dignitoso, ma del tutto fuori luogo in una arena competitiva dove gli altri sono l’equivalente di scimpanzé che tirano merda (absit iniuria verbis verso gli scimpanzé).
Calenda & Renzi. Sembra un duo comico. Solo che uno, quello più furbo e malevolo manda avanti l’altro a prendersi le eventuali impalate. In caso di «successo» (qualunque cosa significhi per loro) rivendicherà il merito. Simple as that. Complessivamente privi di contenuti, se non l’incommnensurabile ambizione personale di poter divenire aghi della bilancia. Mestiere che in passato abbiamo visto fare a splendidi esemplari di «responsabili»… In medium non stat virtus, piuttosto questa terra di nessuno, un tempo cuore della fu DC, ora punteggiata da tane di volpe, casematte e postazioni di mitragliatrici, con ridicoli figuri che si aggirano tra qui e il gruppo misto, pronti a mercanteggiare con il peso del loro voto o dei loro elettori. L’abboccamento di Calenda con il PD e la successiva ripulsa, a cose fatte, con lui che dice che con una banda simile non vuole avere niente a che fare, dopo averci stretto un accordo, ci racconta già tutto.
Conte. Non so, non ho più una nozione del posizionamento del M5S. Approcci tribali, sciamanici e feudali hanno minato in modo essenziale e dalle origini l’idea di una partecipazione egualitaria, popolare, anti-casta. Non ha funzionato, ve ne è la consapevolezza e difatti il reclutamento del leader è stato fatto sul mercato. Conte, come ha scritto qualcuno in questi giorni, ha imparato a fare cazzate per conto proprio, sulla pelle degli altri, da politico navigato. Direi che ormai è entrato a buon diritto nel demoralizzante gotha della nostra politica. Anche qui non ho idea di cosa ci sia nella proposta politica. Il messaggio non è riuscito a raggiungermi. Per fortuna.
Salvini. Lui è uno di quelli che non prendeva sei e mezzo se gli passavi una versione di latino da nove. E si vede. La sua ghigna campeggia sul culo di tutti gli autobus della città, accompagnata da dichiarazioni fideistiche o dubitatorie, ché «credo» a volte vuole anche dire «penso che, anche se non ne sono proprio sicuro». Sembra uno che ha mollato una loffa in ascensore e ci ride su, in faccia agli altri astanti. Qui la proposta è sempre stata più chiara – un capolavoro è stato il transito da secessionismo anti-terroni a quest’altra cosa qua, a questo trionfo di burp! zap! prot! da fare invidia a tanto fascismo macchiettistico dei tempi andati. Da terroni insultati a elettori entusiasti il passo è stato breve, devo riconoscerlo. Certo, procedendo per metafore flatulente, se quelli che un tempo sbandieravano gli attrezzi da officina e da campo hanno smesso di sapere che fare, alla pancia ci parlerà qualcun altro. [Mamma mia che elitismo! Eh, no, non è così: mica si tratta di pance solo operaie e contadine, no no…La pancia è trasversale]. I suoi vorrebbero fargli le scarpe però non è chiaro se, a parte Zaia, hanno un palinsesto altrettanto accattivante per i bisogni emotivi del pubblico. Zaia, come De Luca nel PD, se ne sta ben attento a non uscire dai confini regionali. Meglio primi in un villaggio che secondi a Roma, come diceva Cesare.
Meloni. C’è tanto da dire. Non tanto sulla genealogia politica, la puzza di fascismo non va via con qualche abiuretta di comodo. Qui si deve parlare di DioPatriaefFamiglia e di convenienza a sbandierarli in formato slogan da sciarpa da stadio. La donna in questione vede delle opportunità e le segue, da tanto. Pure lei, come i Salvini e i Renzi, mai lavorato un giorno in vita sua. Abitano in questo talent show col televoto, che cazzo gli vuoi dire? Non è rilevantissimo quali leve debbano usare per uscirne vincitori – le usano e basta. Ma siete voi che gliele fate usare. Qui, se avessi una passione scientifica per le storture mentali, e competenze adeguate, ci sarebbe tanto da fare. Dove punti l’attenzione, trovi la follia. Vi faccio subito un esempio. Brutale e cattivo, non sarà piacevole. Parliamo di aborto (e di razzismo). Immaginiamo di rivolgerci a fermi sostenitori della sua messa al bando proponendo loro un case:
«Ciao, coso, tua figlia è rimasta incinta dopo essere stata con quel negro clandestino simpatizzante dell’ISIS e di Barack Obama. Lei dice che ha subito violenza ma noi qui non ne troviamo i segni, né polizia e magistrato sembrano ritenerla una ipotesi realistica. Comunque puoi metterti l’anima in pace, se tutto va bene, tra nove mesi avrai un bel nipotino cioccolatino, ok? Per fortuna che nel ’24 abbiamo messo fuori legge l’aborto.»
Se vi sentite offesi da questo esperimento mentale, siete dei minus habentes. Avrei potuto caricarlo anche molto di più. Che vi aspettavate, un trolley problem con i tizi stesi sui binari con le faccette sorridenti?
È evidente che il piano personale e quello politico sono disgiunti, a volte in modo totale. Voto per chi mi fa capire che cannoneggerà i barconi dei migranti ma poi se trovo una persona dalla pelle scura ferita o in difficoltà la aiuto. Le altre donne non devono abortire ma quelle della tua famiglia (o che hai inavvertitamente fecondato, sai com’è, le distrazioni capitano) possono, a volte devono. Dio qui, dio là, ma in chiesa non ci vai mai e il più stordito degli atei conosce i testi biblici meglio di te. Il divorzio, non scherziamo, quello lo vuoi. Per l’omosessualità vi vanno bene le lesbiche su PornHub, ma solo lì perché secondo voi devono esistere solo in certi festini. Per i maschi… Vi faccio un solo nome, Jörg Haider. Ovviamente non sapete chi è, perché siete la candida del mondo.
Ma, nonostante tutto, la proposta politica non è chiara. Mi faccio fotografare con Orbàn non è detto che voglia dire che voglio fare come lui – o forse sì. A me quelli che fanno così mi fanno già venire voglia di mandarli a cagare più degli altri.
Insomma, domenica si è andati o non si è andati, i titoli dei media sono stati dominati da questa sempiterna festa dell’idiozia, questa asta al ribasso dalle conseguenze terribili – perché poi i manipoli di mezze calzette che ne saltano fuori si trasformano in lawmakers, in amministratori della cosa pubblica, in decisori di destini di esseri viventi. Qualcuno di capace ci sarà, ma viene tenuto qualche fila più indietro. A volte sacrificato alla logica della lista bloccata e quindi perso nel tritatutto, sai com’è, pazienza.
Vabbe’, basta, non credo che tornerò mai più su questi argomenti e su questi nomi. Viviamo una realtà infranta, rotta in mille pezzi e riparata con un kintsugi invertito e grottesco, dove la materia che tiene insieme il tutto, già di per sé abbastanza scadente, diventa via via più laida, più deprimente, più detestabile a ogni rottura.
Se Yeats, centotré anni fa, poteva scrivere che i «peggiori sono pieni di appassionata intensità» oggi io posso solo chiosare con la considerazione che gli stronzi sono belli ringalluzziti e gli altri sembrano orbitare con poco costrutto intorno a un sistema binario di sconforto e preziosismo.
Tra poco arriveranno gli exit poll.
Blah.
È un percorritore di sentieri interrotti, un professionista dell’amatorialità spinta, un fan della bassa visibilità. Ha studiato amenità umanistiche ma anche il bric-à-brac aziendale. Con il secondo riesce a pagarci i conti. Lettore compulsivo di TS Eliot, Céline, Pynchon, Heller, Vonnegut, PK Dick. Ciclista da strada incidentato, ormai dismesso, curriculum da improbabile sopravvissuto. Quando formarono la band era rimasto solo il basso e quello prese. Nei decenni si è rivelata una non-scelta piena di senso.