Fallo, fallo, FALLO! Mark David Chapman lo sente nella testa, non appena vede John Lennon scendere dalla limousine per entrare nel Dakota Building di New York. Lo sente davvero, il tono è perentorio. Chapman lo afferma e io gli credo: immaginaria che sia, la voce è reale nel suo cervello e reali le conseguenze. Dunque è reale a tutti gli effetti. E da un’ossessione può essere davvero libero solo chi vi ha ceduto.
Mancano pochi minuti alle 23,00 dell’8 dicembre 1980. L’assassino riluttante (sarà la voce a far pendere la bilancia dell’indecisione) è lì dalle prime ore del mattino. Ha salutato il figlio di Lennon, Sean, uscito assieme alla baby sitter. Verso le 17,30 ha persino incrociato l’ex Beatle. Gli ha allungato timidamente una copia di Double Fantasy per un autografo. «Is this all you want?», chiede Lennon. Chapman non ha una risposta. Quella vera sarebbe tremenda e in quel momento neppure lui la conosce. L’attimo viene immortalato in uno scatto che la voce («Fallo, fallo, FALLO!») trasformerà da fotografia banale e malriuscita in testimonianza storica.
Double Fantasy era uscito da poche settimane. Cronologicamente non sarebbe rimasto l’ultimo disco del più celebre dei Beatles. Pochi anni dopo sarebbe arrivato, postumo, Milk and Honey, realizzato con canzoni scartate da Double Fantasy e decisamente meno riuscito.
Ecco altre pignolerie che magari già sai, ma utili per definire il contesto. Lennon ha vissuto un periodo di separazione dalla moglie, Yoko Ono, a partire dal settembre 1973. Ha prodotto ancora qualche disco, si è riappacificato con Yoko e nel 1975 è tornato a vivere con lei a New York, pubblicando Rock ‘n’ Roll e prendendosi poi una pausa artistica di 5 anni, durante i quali ha composto musica senza pubblicare nulla, preferendo dedicarsi a Yoko e al piccolo Sean.
Dopo una lunga assenza dalle scene, nel 1980 John e Yoko hanno programmato alcune interviste per promuovere il disco del grande ritorno. Di queste interviste la principale, e più lunga, è quella concessa a David Sheff, uscita su “Playboy” a fine dicembre 1980. Inevitabilmente diventerà non tanto il suo testamento, l’ex Beatle non sa di avere i giorni contati, ma il traino per le vendite del disco.
Non è esattamente l’ultima intervista. Potrebbe sembrare una macabra gara, un po’ come quella attorno all’ultima telefonata di Marilyn, che muore sola anche se in molti millantano d’averla sentita, guarda un po’, proprio quella notte. In realtà, dopo cinque anni di silenzio, la coppia Lennon/Ono è parecchio attiva per il lancio del disco, e dunque prima della fatale sera fioccano gli incontri con i giornalisti.
Esistono interviste ancora più recenti di quella di Sheff. Una rilasciata a “Rolling Stone”. Poi la lunga chiacchierata con John Peebles per la BBC, su cui è imperniato il documentario L’ultimo weekend di John Lennon (lo trovi facilmente su youtube, pure coi sottotitoli). Peebles, sorvolato l’Atlantico e atterrato in Inghilterra con l’audio delle sei ore di intervista, resterà sconvolto nel venire a sapere dell’omicidio.
Comunque sia, se non l’ultima quella di Sheff è probabilmente l’intervista più articolata. Su “Playboy” esce la sintesi di lunghi colloqui, integralmente sbobinati, fra Lennon, l’inseparabile Yoko Ono e il giornalista. Colloqui diluiti in molti incontri – avvenuti al Dakota, dove abita la celebre coppia, in alcuni bar e negli studi di registrazione – conclusi a metà settembre. Il 6 dicembre una copia della rivista viene recapitata, in anticipo sull’uscita, a John e Yoko. Quest’ultima il giorno successivo telefona al giornalista per dirgli che ne sono entrambi molto contenti. Il nuovo disco sembra partire coi migliori auspici e le vendite confermano l’impressione.
Recentemente David Sheff ha pubblicato la versione integrale dello sbobinato: All we are saying, uscito da noi per Einaudi. Libro interessante. Magari un giorno ci torno su, perché è l’occasione migliore per mettere una parola definitiva su quasi ogni canzone dei Beatles. Meglio, il punto di vista definitivo di Lennon su ogni canzone dei Fab Four, sui loro rapporti e molto altro.
Riavvolgi il nastro del tempo, torna al primo pomeriggio dell’8 dicembre. Ti aiuto, è uno dei pochi privilegi concessi a chi scrive. Scioglierò anche il dubbio sull’ultima intervista, sebbene si tratti solo di un eccesso di zelo filologico.
John e Yoko hanno posato per la fotografa Annie Leibovitz. Una foto del servizio ha una forza straordinaria, non solo per ciò che accadrà dopo poche ore. Finirà sulla copertina di “Rolling Stone” nel gennaio 1981.
Congedata la Leibovitz, Lennon rilascia un’intervista a Dave Sholin per RKO Radio Network. Poi deve recarsi allo studio di registrazione ed esce dal Dakota. Firma alcuni autografi, fra cui quello al suo assassino.
Per sei ore le strade di Lennon e di Chapman si separano. Il primo è al Record Plant Studio per il missaggio di una canzone della moglie, Walking on Thin Ice, camminando sul ghiaccio sottile. Più che un titolo, un presagio. Ma è il secondo personaggio a interessarci maggiormente.
Chapman è prigioniero della propria ossessione da mesi. Già in ottobre si è recato a New York per ammazzare Lennon, ma ha rinunciato. L’ordine perentorio («Fallo, fallo, FALLO!») non è arrivato.
Probabilmente una maggiore ricerca assicurerebbe altri dettagli su quella rinuncia. Non la eseguo, non per semplice pigrizia. I dettagli che potrei trovare, per accurati che fossero, sarebbero comunque falsi e fuorvianti. Non aggiungerebbero nulla all’unica verità che già conosco e ti ho detto: può essere davvero libero da un’ossessione solo chi vi ha ceduto.
Un unico particolare mi sembra rilevante: Chapman afferma che se dopo le 17,30, quando ottiene l’autografo, avesse trovato la compagnia di qualcuno se ne sarebbe andato, non avrebbe sparato. È desolante pensarlo: forse l’assassino viene sedotto più dalla noia che dall’odio. Nondimeno, ogni boia risponde ad arcane ragioni che chiama giustizia.
Poco prima delle 23.00, dunque, John e Yoko tornano a casa. Vogliono dare la buonanotte a Sean, prima di recarsi a cena. Chapman spara 5 colpi. Lennon riesce a raggiungere i gradini della guardiola del Dakota. A Jay Hastings, il concierge che accorre spaventato, sussurra «Mi hanno sparato», prima di perdere conoscenza. Ecco l’ultima dichiarazione…
Ora, però, lascia perdere la tristezza. Leggi cosa ha risposto l’autore di Imagine a Sheff, che gli ha domandato com’è nata la sua canzone più celebre.
«Dick Gregory diede a Yoko e me una sorta di libriccino di preghiere. Il linguaggio è cristiano, ma lo puoi applicare a qualunque cosa. … Questo è quel che dice Imagine. Se riesci a immaginare un mondo in cui si viva in pace, senza denominazioni religiose – non “senza religioni”, ma senza questa cosa che “il mio dio è più grande del tuo” – allora è possibile che si realizzi. … Una volta mi chiamò la World Church per chiedermi “Possiamo usare il testo di Imagine cambiando solo in “Imagine ONE religion”? A dimostrazione che non avevano capito niente. Avrebbe minato tutto lo scopo della canzone.»
Lo riconosco, non ho idea di cosa sia la World Church. Ho cercato in rete, ma con scarsi risultati e un entusiasmo ancora minore. Suppongo fosse (o sia) una di quelle micro o macro sette che si rifanno al cristianesimo. Poco conta. Conta che, per rispettare consuetudine della rubrica, quando Lennon HA DETTO:
«Imagine there’s no countries
It isn’t hard to do
Nothing to kill or die for
And no religion, too»
Sicuramente NON INTENDEVA DIRE:
«Imagine ONE religion»
Seguimi ancora un poco. Ti dico un’ultima cosa.
Lennon lascia il suo sguardo finale sul mondo con questi occhiali, che la moglie toglie al suo corpo senza vita per immortalarli in un’immagine atroce.
Una lente è sporca di sangue, l’altra no. Come se l’ultima realtà che l’ex Beatle ha potuto cogliere fosse duplice. Adesso, grazie a Yoko Ono, quel mondo sporco e sfocato lo vedi anche tu.
Qualunque esistenza, per lunga che sia – e quella di Lennon gli consentì di arrivare a malapena ai quaranta – si scioglie in un solo, singolo momento, in un ultimo sguardo. Non c’è morte che non racchiuda dentro di sé ogni singola morte, non c’è ultimo sguardo che non racchiuda dentro di sé l’intero universo. Il tuo, almeno.
Ma se il suo sguardo, alla fine, poteva essere duplice e appannato, la sua visione – che ci arriva tramite le canzoni più riuscite – non lo era altrettanto. Qualcuno ha provato a riscriverla, deformarla, banalizzarla. Anche solo cambiando una parola, come nel caso della World Church. Capita a molti, purtroppo. Lennon ha potuto almeno rintuzzare quel tentativo. Tanto mi basta e ti sia sufficiente.
Vive una crisi di mezza età da quando era adolescente. Ora è giustificato. Ha letto un bel po’ di fumetti, meno di quanto sembra e meno di quanto vorrebbe. Ne ha pure scritti diversi, da Piazza Fontana a John Belushi passando per Carlo Giuliani (tutti per BeccoGiallo) e altri brevi, specie per il settimanale “La Lettura”. Dice sempre che scrive perché è l’unica cosa che sa fare decentemente. Gli altri pensano sia una battuta, ma lui è serio quando lo dice.