I motivi per cui il Sandman della serie televisiva sarebbe migliore di quello a fumetti li hai già letti. Il mio amico e omonimo QuasiCollega è stato preciso e, a dirla tutta, convincente.
Non è per spirito di contraddizione che rispondo. E non è per qualche approfondita riflessione che lo faccio ora, con mesi di ritardo. Sul primo punto: no, nessuna voglia di generare chissà quale dibattito per stabilire su quale medium sia apparsa la migliore incarnazione della creatura di Neil Gaiman. Men che meno, allargare il dibattito a un generico «le serie TV sono meglio dei fumetti?» (o viceversa) che sarebbe stucchevole, da nerd stagionati, riedizione da nuovo millennio de «è più forte Hulk o La Cosa?». Sul secondo punto: nessuna riflessione cervellotica, semplicemente all’epoca del pezzo di Francesco Pelosi io avevo visto tre, forse quattro puntate del Sandman made in Netflix. Coi tempi biblici che segnano la mia fruizione di qualsiasi serie televisiva, ho dovuto aspettare. Infine, quale momento migliore potevo trovare, per rispondere, se non il mese in cui esclamando «Porco diavolo!» apriamo l’anno nuovo e gettiamo un’ultima occhiata a quello che è successo nel 2022?
Confesso, già in quel momento (quando ho letto l’articolo di Francesco, dico) un tarlo mi aveva mangiucchiato il cervello al verdetto «il Sandman televisivo è meglio di quello fumettistico». Rosicchiava, produceva un po’ di polvere nel cranio, ma non l’aveva ancora bucato del tutto.
È vero, mi dicevo, l’originale lavoro di Gaiman ha caratteristiche che l’hanno fatto invecchiare meno bene di altri grandi fumetti coevi. Una scrittura verbosa, lirica ed efficace, certo, ma che sembra voler scappare dalla pagina. Una struttura che risente di un’idea brillante quanto scritta “in divenire”. È infatti noto che Sandman originariamente doveva essere una miniserie di pochi episodi. L’editore avrebbe poi deciso, in base alle vendite, se continuare. Il successo arrivò, e Sandman proseguì nelle pubblicazioni fino al n. 75, nel 1996 (tralasciando spin off, speciali e prequel). Gaiman probabilmente fin dall’inizio ha buone idee in testa per la saga del Sovrano delle Terre Del Sogno, ma solo in corso d’opera può svilupparle, oltretutto sganciando il personaggio dalla continuity di DC Comics. Infatti, nei primi episodi compaiono alcuni personaggi del sottobosco DC che spariranno dai successivi, quando la serie viene immersa in un proprio e autonomo universo narrativo. Fantastico, certo, ma sganciato da ogni suggestione supereroistica. Già da Casa di bambola in poi, per intenderci. Insomma, certi episodi, per quanto ben realizzati e di ottimo livello, sembrano appiccicati alla serie, come se l’autore avesse dato sfogo ad altre proprie intuizioni brillanti, legandole solo a posteriori all’universo degli Eterni (Sogno, Morte, Disperazione, Desiderio eccetera). Infine, a connotare parzialmente in negativo la serie a fumetti, la qualità grafica. Alcuni disegnatori erano validissimi, altri meno. E in generale, fossero anche stati tutti eccellenti, l’eterogeneità grafica dà un’impronta di scarsa compattezza all’intera serie, la cui identità visiva torna solida solo grazie alle bellissime cover di Dave McKean. Però, confesso, non credo sia un caso se all’eterogeneità dei disegnatori (si parla di sogni, dopotutto: sfuggenti e mutevoli, così come diversa e mutevole è l’incarnazione antropomorfa del signore dei sogni) risponde l’unitarietà delle cover.
Lo so, ti aspetti il mio «però…». Prima, sopporta una digressione.
L’immagine è di Jack Kirby, tratta da “Captain America” n. 207 del 1977. Secondo molti, non il miglior Kirby e neppure un grande ciclo di Cap. Poi ci sarebbe da discutere sul fatto che quelle storie, dall’ingenuità incredibile e con criminali improbabili (il Suino! No, dico: IL SUINO!) a me tutto sommato piacciono ancora. Ora lascia perdere Capitan America, il punto che voglio sottolineare è un altro: se io immagino di volare, lo faccio come il Falcon di Kirby. Non come quello del Marvel Cinematic Universe. E in generale quando leggo un fumetto Marvel, anche nei numeri più improbabili, mi sento a posto. Quando vedo un film degli Avengers generalmente la reazione è: «ma davvero sto vedendo questa roba?!»
Problema mio, dico sul serio. Scusami. Torno a Sandman.
La trama della serie televisiva è più compatta, scorre meglio. Ma non è priva delle digressioni dell’omologa sorella fumettistica. Pure in Netflix c’è una macrotrama (la sconfitta del Corinzio, l’incubo ribelle che vuole sfuggire al controllo e al dominio di Morfeo) ma subito dopo vengono presentati episodi autoconclusivi che per ora – vedremo le eventuali stagioni successive – sembrano slegati l’uno dall’altro e in cui, in definitiva, il Sovrano del sogno sembra più un espediente che un protagonista.
Vedo un altro punto di contatto fra le due diverse interpretazioni, fumettistica e televisiva, di Morfeo. Dopo il primo ciclo (che, ricorda, doveva essere autoconclusivo) Neil Gaiman porta il suo personaggio verso una trasformazione “più terrena”. Dopo millenni trascorsi nel reame dei sogni (universo totalmente astratto) e dopo essere stato prigioniero per decenni di Roderick Burgess, Morfeo comincia a subire, se non il fascino, una certa attrazione verso l’esistenza umana. Nelle pagine di Gaiman così come nelle puntate targate Netflix. Analogamente molti racconti, cartacei quanto televisivi, resterebbero validi pure se fossero privi della presenza, anche solo accennata, del Sovrano dei sogni. Insomma, la bravura di Gaiman nel raccontare storie sta (anche) nella capacità di ricondurre al proprio personaggio qualsiasi storia voglia raccontare, senza che questo puzzi di espediente, senza scivolare nei cliché di combattimenti spettacolari o di personaggi femminili con forme da pin-up.
Dov’è, dunque, il frutto di quel tarlo che ha ben lavorato e mi ha convinto, arrivando ad allargare la mia riflessione dal caso singolo (Sandman) e portandomi a capire – posto che sia necessario – cosa ancora oggi mi affascina del fumetto?
È il sense of wonder, ecco. Lo provo ancora per i fumetti, raramente per la loro trasposizione televisiva o cinematografica.
Ripeto, se la meraviglia mi prende quando il mio sguardo si posa su un fumetto e non davanti a una serie Netflix è problema mio. Ma rimane il fatto che la rappresentazione antropomorfa del sogno, per me, è sganciata dalla realtà e ancor più dal realismo. Come il volo del Falcon di Kirby. Quel Sandman spiritato, coi balloons che sottolineano col segno grafico l’eterea materializzazione dei pensieri di Sogno in ampollosi discorsi distaccati dall’umanità, mi dà ancora i brividi. Il Morfeo televisivo, laccato leccato e fighetto, mi vien voglia di menarlo col mio bastone da passeggio.
E io resto questa cosa qui, l’invecchiato bambino sognante che riceve in regalo il cofanetto di Sandman per la festa del papà e si mostra privo di ogni dignità. «Tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali.»
Vive una crisi di mezza età da quando era adolescente. Ora è giustificato. Ha letto un bel po’ di fumetti, meno di quanto sembra e meno di quanto vorrebbe. Ne ha pure scritti diversi, da Piazza Fontana a John Belushi passando per Carlo Giuliani (tutti per BeccoGiallo) e altri brevi, specie per il settimanale “La Lettura”. Dice sempre che scrive perché è l’unica cosa che sa fare decentemente. Gli altri pensano sia una battuta, ma lui è serio quando lo dice.