Si racconta che il primo tema monografico di quest’anno (che suona come un numero primo, ma non lo è, visto che lo si può fattorizzare come 7 x 172) sia nato dall’ascolto, presumibilmente involontario, di una conversazione durante la quale una ragazza ha esclamato «porco diavolo!», in uno slancio lessicale degno di una storia salgariana di pirati. Il porco diavolo è rimasto nell’orecchio dei due ras di Quasi e quindi eccoci qui, con quella esclamazione che ci regala un punto nave di coordinate che ci mettono abbastanza precisi precisi in una posizione baricentrica rispetto a tutta una serie di temi che occupano, da che la parola registrata e tramandata viene, appunto, conservata, l’intero spettro dei discorsi di questa speciaccia umana alla quale apparteniamo.
È già tardi, pomeriggio inoltrato, e bisognava essere partiti a scrivere un po’ prima per fare per bene tutto il giro – avere atteso garantisce di vedersi recapitare una cialtroneria esercitata al galoppo, aspetto che consentirà, alla fine della fiera, a ciascuno di continuare a sentirsi comodo nella posizione in cui si trova, senza spostare una virgola né aggiungere, ci mancherebbe, un grammo di disagio. D’altro canto, oggi come oggi, la scrittura, o l’oratoria, per motivi affatto simili, non godono di un particolare credito, passibile di amplificarsi in base al contesto e all’occasione. Anche perché, là dove le occasioni sono in qualche modo «alte» intervengono distanze che contribuiscono a ghettizzare al contrario (del tipo «professoroni») la produzione intellettuale, con modalità che precorrono l’avvento di internet di parecchio. Dove le occasioni sono di altro tipo c’è l’agorà pseudodemocratica del tutti valgono in base a quanti «seguaci» hanno e quindi vige la legge di quel potere di plasmare verità in base alla massa complessiva del consenso (va ricordato, oltretutto, come l’aforisma attribuito a Goebbels sulla bugia ripetuta più volte che diventa una verità sia peggio che apocrifo e che l’unica volta che quel simpaticone di Joseph parla di menzogne in un modo comparabile lo fa per stigmatizzare la tendenza degli inglesi a rimanerci protervamente attaccati, anche a costo di rendersi ridicoli).
Ecco, se io fossi il diavolo seminerei esattamente questo tipo di zizzania, perché a quel punto non so più neppure se fidarmi della mia memoria (non ho letto e sbobinato tutto Goebbels, per fortuna) o del povero fact-checker che scrive il post per deplorare l’attribuzione totalmente inventata di una frase che veicola un concetto non sbagliato ma pure mal cucinato. Una vittoria totale della confusione.
La storia del diavolo parte proprio da qui, dall’etimologia dei primi nomi riferibili al diavolo: ovviamente il problema di avere dato in outsourcing l’esercizio delle influenze malefiche a un fornitore unico ce l’hanno le religioni monoteistiche – in quelle politeistiche gli aspetti che poi vengono consolidati nella job description demoniaca sono abbastanza polverizzati, distribuiti tra vari attori del pantheon, a varie altezze e su linee genealogiche anche molto diverse. Quindi, se l’enciclopedia popolare di questa epoca e la Britannica non raccontano fregnacce, vediamo emergere nei testi bibici ebraici – partiamo da quelli perché l’ebraismo è il più antico – il concetto di śāṭān (שָׂטָן), traducibile in qualcosa tipo «accusatore» o «avversario», un ruolo che può essere rivestito da umani come da entità soprannaturali. In quest’ultimo caso l’espressione diventa ha-śāṭān, un po’ come dire Il Satana, con un rimarcare l’articolo determinativo che mi fa venire in mente la gag di more cowbell del Saturday Night Live con Christopher Walken che ricorda a tutti di essere the Bruce Dickinson. In quell’ultimo caso, inoltre, l’avversario/accusatore è sempre un angelo o un emissario del divino ma, in molti casi, il mestiere che svolge è per conto dell’autorità divina, non contro di essa. Poi, nella noia e nel rodere della sabbia e della calura mediorientale accadono cose, un po’ qui, un po’ là, nei secoli e millenni e l’avversario diventa l’oppositore del dio unico, il tentatore, il seduttore, il nemico predestinato alla sconfitta nella fine dei giorni, e assume nomi diversi e molteplici, presi in prestito un po’ dove capitava, dando luogo a un bezoario caotico di onomastica quasi casuale ma consolidata come equivalente. Satana = Lucifero = diavolo = demonio = ecc. ecc.? Oggi più o meno assentiremmo tutti, un po’ perché non è che ce ne freghi un granché, un po’ perché i tempi del catechismo, grazie a Dio e a tutti i santi, sono lontani, un po’ perché pure quelli che dovrebbero detenere quel tot di sapere e chiarezza che uno si aspetta come costitutivamente associata al sapere sulla materia in questione.
Invece sono i primi a non curarsene molto. Scientemente, ma anche, almeno nell’accezione che loro stessi userebbero, diabolicamente. Con un disegno oppositivo, in omaggio anche alla semantica del verbo legato al sostantivo satan: ostruire, opporsi, impedire, sabotare. No, perché a dare uno sguardo alla genealogia del termine non è che viene fuori l’evoluzione di una conoscenza riguardo a questo presunto e presupposto «diavolo», tale da poter poi chiedere a quei maledetti sottanoni ladri e mistificatori dettagli un po’ più precisi su chi cazzo sia questo soggetto, visto che hanno detto in più occasioni, dal Concilio Vaticano II a uscite di Ratzinger e, in morte di quest’ultimo, di suoi minions, che esiste proprio fisicamente.
La presunta esistenza del diavolo (promosso a questo punto a Diavolo) non pare essere sancita da nessun momento scritturale, e anche le possibilità ricavabili dall’esegesi del Vecchio Testamento non sembrano poi dare chissà quali appigli: per esempio «Lucifero» e tutta la menata sull’angelo rivoltoso non compaiono mai e lo stesso Lucifero non ha un’identità da angelo di Dio ma è il re di Babilonia (Isaia, 14) al quale ci si riferisce come Hêlêl ben Šāḥar (הילל בן שחר), qualcosa che ha a che fare con l’astro del mattino, Venere. Punto. Tutta la storiella dell’angelo caduto che poi diventa il sovrano degli inferi è frutto di elaborazioni popolari e di consolidamenti poetici a opera di Dante come di Milton che vanno a stratificare ulteriormente il pastiche pregresso a base di storie mesopotamiche e attribuzioni di divinità ctonie greco-latine.
Il pasticcio dura praticamente da sempre, anche solo tra Antico e Nuovo Testamento il ruolo del Satana passa da quello di braccio armato del dio, inviato a mettere alla prova la lealtà degli adoratori di Yahweh, a quello di capo di una banda di punitori angelici che seducono e castigano gli umani che cedono, a quello di antagonista malevolo (ventata zoroastriana e poi manichea), a quello di tentatore (cazzo, vuoi che non sia il serpente della Genesi?) e, da ultimo, di nemico massimo e finale, un gigante drago rosso che l’arcangelo Michele sconfiggerà in modo definitivo (quest’ultima versione la dobbiamo a quel fanatico furioso di Paolo di Tarso).
Insomma, avete presente quando «Verbal» Kint ne I Soliti Sospetti ci dice che il trucco più riuscito del diavolo è stato farci credere che non esiste? Il detto ha varie attribuzioni, tra le quali una baudeleriana, ma va detto che è difficile non essere d’accordo sul fatto che il suo curriculum è veramente molto poco credibile. Ha fatto proprio un bel lavoro, come Keyser Söze.
In tutto questo il demone non si capisce bene cosa sia, anche qui l’influenza zoroastriana ha probabilmente regalato all’ebraismo d’antan un debole per le figure semidivine malefiche e con un remix con il concetto greco di dàimon si sono ottenute una serie di costrutti narrativi: i demoni come sgherri del diavolo signore degli inferi, contrapposti alle schiere angeliche del piano di sopra, la loro capacità di possessione, il mestiere a tempo indeterminato di tormentatori dei dannati, insomma, gli si è trovato un posto, una fisionomia e qualche ruolo. Alla fine, anche linguisticamente, «diavolo» e «demonio» sono diventati praticamente sinonimi e i demoni sono diventati i diavoli. Insomma, alla fine è come dirsi dude o bro o zio o tipo. Infatti, col tempo, siamo arrivati a povero diavolo ma anche a un diavolo di, per riconoscere a qualcuno una bravura fuori dal normale.
Salman Rushdie, che ha pagato a prezzo carissimo la sua dipintura satirica delle radici violente e opportunistiche, oltre che discretamente caotiche e casuali, della religione, ha assegnato il ruolo di generatore di interrogativi, di oppositore dialettico e antagonista irriducibile a Baal il poeta, prelevando, più o meno, il personaggio, dall’omonima piéce di Bertolt Brecht. Baal è stato il nome di varie divinità legate al culo (NdA: è un refuso troppo divertente per rimuoverlo…) del Sole tra Mesopotamia, Fenicia e dintorni, cosa non sorprendente visto che Baal vuole dire «signore», ma ognuna di queste divinità ha perso la battaglia della preminenza storica nello scontro con le religioni monoteistiche visto che ognuna di esse ha utilizzato il nome di Baal come paradigma del falso dio per poi passare a incorporarlo nella definizione stessa di entità maligna per antonomasia (Beelzebub). In pratica, l’etichetta del diavolo l’hanno appioppata a povere divinità la cui causa nessuno più poteva perorare. E Baal il poeta, nella narrazione de I Versi Satanici, finisce, ineluttabilmente, schiacciato e annientato dall’esperienza egemonica del profeta (e capo supremo) in fieri Mahound. Il potere non perdona chi si è dato la missione di sfrucugliare nelle coscienze e nel linguaggio per tentare di capire, comprendere, ma anche confondere, irridere, per «impedire al mondo di andarsene a dormire».
I secoli della emergente modernità ci sono andati a nozze con un’idea di diavolo irromantichita o riutilizzata in base a istanze anti-sistema, ma questo grande nemico, questo grande seduttore/tentatore, non ha neppure questa mitografia così robusta. La tradizione orale, l’incomprensione della liturgia in latino (ma anche in italiano), l’incompetenza (o la malafede) teologica del clero, il recupero di miti e leggende pagane, tutta una serie di fattori hanno probabilmente contribuito ad alimentare la relativa fortuna del povero diavolo come figurina titillante, un comprimario che non è quasi mai il protagonista ma solo una spalla utile a mettere in evidenza le traversie, talvolta disperate, degli eroi delle storie. Il povero diavolo diventa protagonista quando, in fin dei conti, viene in qualche misura riavvicinato all’umanità, riabilitando quest’ultima prima che il satanasso, ma alla fine tutti e due – accade ne Le Diable Amoreux come in Lucifer.
Facciamo un penultimo passo, prendiamo in esame l’epiteto attribuito in quella conversazione origliata: il diavolo è porco. La porcofobia è un altro caposaldo delle religioni monoteistiche, anche se alla fine il cristianesimo sceglie la via del va bene mangiare un po’ tutto (ma il Vecchio Testamento direbbe di no, quindi la violazione del precetto scritturale è patente) e probabilmente per ragioni simili a quelle per le quali il diavolo finisce, in fin dei conti, per essere un reietto sconosciuto buono da additarsi quando serve dare la colpa a qualcuno. Anche al maiale se ne dicono di tutti i colori ma non si è scelto il porcile, ce lo hanno costretto dentro – vedi un po’ se, alla fine, l’interiezione della ragazza non finisce per essere più discriminatoria e settaria di una bella bestemmia o di uno dei suoi classici surrogati eufemistici. Certo, in ogni caso c’è il maiale a giocare la parte di stella polare del deteriore. Proprio quello di cui si dice che non si butta via nulla…
E per ultimo, veniamo all’ingrediente fondamentale di tutto il discorso millenario sul diavolesco e sul demoniaco: il male. Ci girano tutti intorno, e per tutti intendo gli stessi teorizzatori zoppi del diavolo che non hanno saputo bene che ruolo dargli, ma alla fine il tema è la personificazione e la progressiva estraniazione del concetto di male dall’individuo. Anche quando glielo ricacciano dentro a forza, con l’idea di peccato originale, è un male che ha fatto qualcun altro, qualcuno che può essere odiato e disprezzato proprio per questo e proprio perché esterno. Tra Adamo/Eva e il serpente appaiono un po’ tutti diavoli, un po’ tutti agenti del male, un po’ tutti colpevoli del perché il misero individuo deve sobbarcarsi tanta di quella colpa e di quella penitenza per sperare di non finire tra i dannati una volta morto. Spostare l’attenzione dal centro alle marionette è sempre stata una strategia efficace – non lo abbiamo visto accadere solo nel XX e nel XXI secolo.
Se volessimo parlare di male, a questo punto, avremmo un grande, grandissimo imbarazzo della scelta e nessuna traccia di diavoli o diavolerie, solo di persone. Ma non potrebbe essere altrimenti, sulla scena dei drammi e delle farse umani ci sono solo persone, nessun altro. Il curriculum del male (qualcuno dovrebbe – scevro però da facili manicheismi – scrivere una storia universale del male) è veramente il repertorio più ricco e variegato della storia umana ma, in questo momento, per congedarci senza perderci nella vertigine dell’elencazione delle infamie, quel che mi viene in mente, in particolare, è quello che ricordo di aver sentito dire a Primo Levi in una intervista del 1975:
«Io vado in Germania per lavoro, una volta o due all’anno. Io parlo tedesco, l’ho imparato ad Auschwitz. Pochi italiani parlano tedesco, soprattutto pochi lo parlano come me. Cioè, io ho imparato il tedesco della caserma, dal basso e non dall’alto, non sulla grammatica, non sul vocabolario e non a scuola. E i tedeschi lo percepiscono questo. Io parlo uno strano tedesco e mi chiedono: “come mai lei, dottor Levi, parla tedesco?”. Io rispondo subito, e sempre: “l’ho imparato ad Auschwitz.” Col che il discorso, quasi sempre, si tronca.»
A volte, invece, anche se più raramente, l’interlocutore prova a rimarcare come siano sì accadute quelle cose tristi ma oggi la Germania non sia più la stessa e Levi dice che non è che la cosa sia del tutto fuori luogo. Quello che però non gli è mai successo è:
«di trovare qualcuno, un tedesco, che mi dicesse: “sì io ero un nazista, e non lo sono più” oppure “ero un nazista e lo sono ancora.»
Sarà stato il diavolo. E a noi italiani, va detto, è sempre venuto facile dipingere il diavolo nazista, quello che però non si trovava manco a casa sua quando qualcuno che lo conosceva bene provava a cercarlo. Sono stati altri, non noi.
Levi ci dice che alla fine di ogni fascismo c’è il lager. Era il 25 gennaio 1975, quarantotto anni fa esatti e, ormai, settantotto anni meno due giorni dalla liberazione di Auschwitz, con quei circa settemila prigionieri ancora presenti (mentre altri cinquantaseimila venivano fatti marciare via, verso la Germania, in una delle cosiddette «marce della morte»). È pleonastico ricordare che tra quello che ci dice c’è anche l’avvertenza che non ci sono fascismi esenti da quella parabola e cita in modo esplicito il «verbo» dei fascisti italiani, un verbo che predica la non uguaglianza degli individui, in particolare nell’esclusione da quello che definirei il «diritto ad avere diritti» (Untermenschen ce ne devono sempre essere). Per quella roba lì non serve inventare il diavolo, è già la passione di una quota troppo grande degli individui di questa società e stiamo assistendo da decenni al suo progressivo trionfo, in un clima di deciso assenso e consenso e di normalizzazione di una linea «culturale» che non si è mai messa in discussione.
E perché dovrebbe farlo, poi? L’inconsistenza della codificazione del diavolo nelle fonti che dovrebbero essere autorevoli raffrontata alla forza della sua immagine, ancorché filologicamente incerta, nel vissuto comune è un ottimo esempio di come sia ben più proficuo scegliere mille volte l’incoerenza, la menzogna e l’opportunismo, la possibilità di dire allo stesso modo «serpente», «drago», «nemico», «tentatore», «maligno» (così come «negro» o «frocio» o «ebreo») per garantirti lunga vita e prosperità nelle teste e nei cuori di questi deficienti mancamentati che non si ricordano niente, non connettono niente con niente se non per dare la colpa delle loro sconfitte irreparabili a qualcosa e qualcun altro e augurargli morte – riuscendo, talvolta, pure a portargliela, spesso per interposta persona, con apposite modalità rappresentative, codificate e santificate dalle leggi.
[L’intervista a Levi la trovate qui]
È un percorritore di sentieri interrotti, un professionista dell’amatorialità spinta, un fan della bassa visibilità. Ha studiato amenità umanistiche ma anche il bric-à-brac aziendale. Con il secondo riesce a pagarci i conti. Lettore compulsivo di TS Eliot, Céline, Pynchon, Heller, Vonnegut, PK Dick. Ciclista da strada incidentato, ormai dismesso, curriculum da improbabile sopravvissuto. Quando formarono la band era rimasto solo il basso e quello prese. Nei decenni si è rivelata una non-scelta piena di senso.