Queste considerazioni su Cocco Bill e sulle soluzioni del movimento nei fumetti più maturi di Jacovitti, di cui mi assumo la totale responsabilità, mi sono state stimolate da una conversazione condotta, nel nostro solito bar e come al solito, fino al termine della notte, con Pietro Geranzani e Tito Faraci. Oltre alla mia amicizia, va a loro tutta la mia riconoscenza.
L’uomo è di spalle, in pigiama. Scarmigliato e stazzonato (beh, ovvio: si è appena alzato dal letto), sta spalancando la finestra su una luminosa mattina. Quella che entra dai vetri aperti è la chiarezza della prima pagina di un quotidiano. La testata, evocativa e metaforica, dichiara che la notte e il sonno sono passati. È il tempo di essere vigili: il giorno è arrivato.
Realizzato, con il suo segno fanciullesco, da un gigante del design pubblicitario come Raymond Savignac (costruttore di pezzi fondamentali del mio – e anche del tuo – immaginario: per anni, quando fumavo, ho avuto appeso in casa il suo poster per le Gitanes), quello che ti ho appena descritto è il manifesto che per tutto il mese di aprile del 1956 i milanesi vedevano ovunque, in giro per la loro città. La campagna pubblicitaria per il lancio di un nuovo quotidiano.
Il 21 aprile 1956 infatti, nelle edicole esce il primo numero di una nuova testata effemeride, “Il Giorno”. Nuova davvero. Nel senso che si allontanava in modo radicale, grazie alla grafica di Giuseppe Trevisani (l’uomo che nel 1946 Albe Steiner aveva voluto a sostituirlo al “Politecnico” e che nel 1969 Luigi Pintor chiamerà a creare l’immagine del “Manifesto”), dall’ormai imbolsita formula dei quotidiani italiani, su tutti quella del “Corriere”.
Nato dall’incontro di tre volontà molto particolari (ognuna con desideri e intenzioni diverse), quella di Enrico Mattei (non c’è certo bisogno che ti racconti chi era), quella di Cino Del Duca (editore ecclettico, con un piede in Francia, uno negli USA e la testa in Italia, dove aveva dato vita a testate pilastro della cultura popolare, come “Il Monello”, “L’intrepido”, “Stop” e “Grand Hotel”) e quella di Gaetano Baldacci (originalissimo giornalista cui andava stretto il suo posto da inviato al “Corriere” e che guardava con interesse alla stampa anglosassone) che ne sarà il primo direttore, “Il Giorno” fu una vera e propria rivoluzione.
Purtroppo, nel 1959 la volontà che avrà il sopravvento, sarà quella di Mattei che riuscirà, estromettendo prima Del Duca dalla proprietà (l’impresa dopo il primo anno di gestione era già in netto disavanzo e grazie alla delibera di appianare il debito da parte dei soci, Mattei assorbì le quote di Del Duca che non aveva, o non voleva metterci, la liquidità necessaria) e obbligando Baldacci (con pressioni politiche) alle dimissioni, ad assumerne il totale controllo. Ma questi, per quanto importanti, non sono fatti fondamentali per ciò di cui stiamo parlando. Torniamo, allora, a quel 21 aprile 1956.
Il quotidiano che i milanesi che lo comprano quella mattina, si trovano tra le mani è diversissimo da ciò cui sono abituati. Una via di mezzo tra due quotidiani britannici: il “Daily Express” (per la grafica) e il “Daily Mirror” (per i contenuti). Impaginazione su otto colonne invece di nove. Nessun articolo di fondo, titolo su sette colonne e una grande fotografia in prima pagina con la lettura di tutti gli articoli rimandata alle pagine interne. Niente terza pagina, ma una sezione cultura nella seconda parte del quotidiano, prima degli spettacoli e della pagina dei fumetti. Ecco. La pagina dei fumetti è la vera grande novità seminale. Niente di trascendentale, intendiamoci: strisce di Tarzan, Superman, Agente X9 e Jane. Ma quell’idea, presa di peso dalla stampa quotidiana americana (e in parte anche dal “Daily Mirror” sulle cui pagine era nata proprio la Jane di Norman Pett) che Del Duca conosceva molto bene, sarà un germe che avrà uno sviluppo, per alcuni versi, eclatante.
Giovedì 28 marzo 1957, aprendo la sua finestra sulla testata dell’inserto, è lo stesso omino in pigiama di Savignac ad annunciare ai lettori più giovani del “Giorno” che gli verrà regalato, insieme al quotidiano, un giornalino a fumetti di 16 pagine. Il successo sarà tale che, dal quinto numero, “Il Giorno dei ragazzi” da semplice inserto, diventerà una testata con una propria numerazione.
A guardarli oggi, con quelle storie stucchevoli e verbose (a cominciare da Dan Dare) prese di peso dalla rivista inglese “Eagle”, i primi numeri di questo giornalino appaiono noiosissimi. Solo una cosa spicca per originalità, ed è quella che segnerà il successo della testata: il Cocco Bill di Benito Jacovitti.
Un’abusata leggenda, di quelle che i critici di fumetto (in particolare quelli nati nella seconda metà degli anni Cinquanta, i quali, vittime di quello stesso pregiudizio che dovrebbero combattere, cioè che il fumetto sia roba irrilevante dove tutto vale l’uguale: Carlo Chendi come Jacovitti, non hanno l’abitudine di verificare le fonti) assumono come verità, vuole che ad avere la geniale intuizione di chiamare Jacovitti dal “Vittorioso” a “Il Giorno”, sia stato lo stesso Mattei.
La cosa è assolutamente improbabile. Fino al maggio del 1959 (quando l’allora Ministro delle partecipazioni statali annuncerà che la Sofid – la società finanziaria dell’ENI – era diventata unica proprietaria della testata), l’ENI era stato (come racconta Baldacci) un editore assente e, addirittura, occulto. Mattei non voleva che si sapesse che l’ENI controllava il quotidiano più anticonformista d’Italia e aveva usato, per farlo, una società prestanome. Non ha senso uscisse allo scoperto già nel 1957 per una questione così irrilevante come i fumetti. È molto più vicino alla verità storica, quanto afferma Gianni Bunoro (classe 1936) nell’introduzione al primo volume di Stampa Alternativa dedicato a Cocco Bill, e cioè che il colpo di genio di portare sulle pagine del “Giorno dei Ragazzi” (inserto sicuramente voluto e ideato da Cino Del Duca che con i fumetti aveva commercio dagli anni Trenta) sia stato il suo curatore, per altri aspetti non proprio geniale, Andrea Lavezzolo.
“Il Giorno” pagava bene, e lasciava ai suoi autori una libertà creativa che altrove non avevano (non certo sulle pagine del “Vittorioso”), non credo ci sia voluto molto altro – certo non le fantomatiche pressioni di Mattei sull’Azione Cattolica – per convincere Jacovitti a pubblicare sulle pagine del quotidiano milanese.
Sarà un successo immediato e lungo quarant’anni.
Quella stessa critica così superficiale sulle fonti, lo è stata anche a proposito delle parole usate per definire l’opera di Jacovitti. Parlare di surrealismo a proposito dei suoi fumetti, significa due cose: non sapere nulla di cosa è stato il Surrealismo come movimento culturale, usando il termine come sinonimo di “bizzarra insensatezza”, e non avere capito la natura del lavoro di uno dei più grandi autori concretisti che il fumetto abbia avuto. Adesso come sempre mi tocca di spiegarmi. Vediamo di farcela cominciando a chiarire che sto usando il termine concretista nell’accezione datagli da Max Bill: l’arte concreta ha lo scopo di ideare oggetti per l’uso intellettuale. L’arte concreta non deforma oggetti esistenti, non è imitativa, crea piuttosto precisi schemi intellettuali per arricchire il reale. In Jacovitti non c’è nulla che rimandi all’inconscio e al sogno. La sua è una cultura cattolica, provinciale, il suo mondo è reale, fatto di salami e pistole e non ha metafore che rimandino a chissà quale significato. Quando gli indiani apaciones hanno la paura a fior di pelle, significa proprio che la loro paura sta nel primo strato del derma e sarà Cocco Bill a fargliela andare via con un’originale cura dermatologica. Oppure quando il cattivo di turno si strappa i baffi e duella con Cocco Bill usando i baffi come spade, quei baffi non rimandano a significati sottesi, sono puro significante, nient’altro che spade. O ancora, quando Cocco Bill sforacchia come colabrodo dei cattivi musi rossi, questi sono proprio dei colapasta. Tutto quello che Jacovitti racconta, non deforma e non interpreta, arricchisce il piano che, all’interno della narrazione, assumiamo come il reale.
Gli “oggetti impossibili” che Jacovitti disegna, come le uova piramidali o il piede superditato o il tabellone del gioco dell’oca che tanto affascinò il mio socio Spari, non sono frutto di incubi surreali, ma forme geometriche concrete che sembrano teorizzate da Theo Van Doesburg (se non sai di chi si tratta, fu il fondatore del concretismo).
Quando Marcel Duchamp lo presenta a Parigi, nel marzo del 1912 alla 28ª esposizione della Société des artistes indépendants, il suo dipinto Nudo che scende le scale n.2, riceve una pessima accoglienza. Accusato di essere un tradimento del cubismo in favore di una visione futurista (e il futurismo era mal visto in Francia, in quanto tutto di matrice italiana) dell’arte, viene presto rimosso dai saloni dell’esposizione. In realtà a Duchamp non importava nulla di uno o dell’altro movimento, in quel momento il suo principale interesse era trovare un modo originale per rappresentare il movimento. Lo dice lui stesso: «il mio scopo era raffigurare una rappresentazione statica del movimento».
Per farlo aveva guardato con interesse al lavoro di Eadweard Muybridge. Il problema di Duchamp è che, frammentando il corpo del soggetto nelle varie superfici che occuperebbe in ogni avanzamento lungo la scala, non riesce ad andare oltre gli intenti. Questo è un limite evidente della pittura. Ben altri risultati otterrà, partendo proprio dal tentativo duchampiano, sessant’anni dopo, un fumettaro (poco più giovane di Jacovitti) come Gianni De Luca che nella sua trilogia shakespeariana proverà a piegare su una struttura narrativa quella moltiplicazione del soggetto.
Più o meno negli anni in cui De Luca sfrutta a fondo questa intuizione per la rappresentazione statica del movimento, un altro pittore modifica la rotta, con un’idea che – almeno in pittura – mi sembra funzionare meglio.
Gerhard Richter, usa la sfocatura fotografica dovuta al movimento, come fossero linee cinetiche e riesce a dare alla staticità del suo nudo sulla scala (Ema/Akt auf einer Treppe 1966) una migliore rappresentazione dello spostamento. Jacovitti ci era arrivato praticamente dieci anni prima.
Intendiamoci, Jacovitti non era un intellettuale. Nato in una provincia asfittica, trasferitosi poi in una città culturalmente addormentata sulle proprie glorie di cinque secoli prima, non aveva – anche se in tanti fanno a gara a cercarglieli – riferimenti e radici nell’universo iconografico. Era, va detto, un genio isolato, una specie di Gianbattista Vico del fumetto. Quando lo leggo non sento e non vedo riferimenti a cui si rifacesse. Quando si inventa Cocco Bill, lo fa in totale autonomia (e isolamento visuale). Non c’entra un cazzo, nemmeno ribaltato allo specchio, checché ne scriva Luca Raffaelli nell’introduzione al secondo volume di Stampa Alternativa dedicato a Cocco Bill, Tex Willer e soprattutto quello che potrebbe sembrarne un diretto riferimento: Lucky Luke. La prima pubblicazione italiana del personaggio di Morris (una noiosa storia del 1951 – Goscinny era ancora lontano quattro anni) su un’illeggibile (almeno oggi) rivista della Dardo, è del 1963 e di sicuro il provinciale Jacovitti negli anni Cinquanta non leggeva “Spirou”.
E comunque sia Tex Willer che Lucky Luke erano (e sono) fumetti che seguono regole precise. Nessuno dei due personaggi estrae, mira e spara nella stessa vignetta. Se deve farlo lo fa in due/tre vignette giustapposte.
Insomma. Jacovitti non era un intellettuale e non credo che avesse come priorità, nel 1957, quando crea Cocco Bill, di risolvere il problema duchampiano della rappresentazione statica del movimento. Fosse stato un surrealista, l’avrebbe risolta con qualche trucchetto alla René Magritte (cosa di cui, trent’anni dopo abuserà Tiziano Sclavi nelle sue sceneggiature). Ma proprio il suo non avere preoccupazioni intellettuali, paradossalmente il suo avere una limitata cultura provinciale, lo porta a risolverlo. Man mano che avanza nella realizzazione del Cocco Bill, cioè dalla seconda metà degli anni Sessanta e per tutti gli anni Settanta (penso a storie come Cocco Bill così e cosà, Coccobillevolissimevolmente, Cocco Bill fa sette più e poi a tutto lo Zorry Kid) cioè alle cose pubblicate sul “Corriere dei Piccoli” e poi sul “Corriere dei ragazzi”, Jacovitti porta a perfezione quanto cominciato nel 1957. Trasforma il movimento in un oggetto fisico, geometrico, e lo rende il tema fondamentale delle sue narrazioni di cui le trame sono solo un pretesto sempre più irrilevante.
Jacovitti non era un intellettuale, ma la parte più matura e meritevole di memoria della sua opera e quella in cui, attraverso un oggetto intellettuale come le linee cinetiche trasformate in struttura narrativa, il suo segno concreto dialoga con il lettore… Pardon, con l’osservatore, perché mai come nelle tavole di Jacovitti, in cui grazie a questo trucco, per cui il segno è concretamente ciò che mostra e non ha ambiguità di significato, riesce a far fare qualsiasi cosa a qualsiasi oggetto, è evidente il fatto che questi maledetti fumetti si guardano e non si leggono.
Bibliografia minima che non puoi evitarti:
- Ada Gigli Marchetti (a cura di), Il Giorno. Cinquant’anni di un quotidiano anticonformista, Franco Angeli, 2016
- Luca Boschi, Leonardo Gori e altri, Jacovitti. Sessant’anni di surrealismo a fumetti, NPE, 2010
- Benito Jacovitti, Cocco Bill. Mezzo secolo di risate western, Stampa Alternativa, 2003
- Benito Jacovitti, “Il Giorno” di Cocco Bill. Nuova antologia, Stampa Alternativa, 2009
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.