Abbiamo una fortuna, un’enorme fortuna, possediamo un patrimonio artistico e architettonico immenso, una quantità infinita di città e borghi che sono musei a cielo aperto, e le nostre coste sono bagnate dal mare più caldo e calmo che si possa desiderare.
Se lo usassimo appropriatamente, con questo patrimonio potremmo pure mantenerci.
Invece dal dopoguerra si è fatto poco, e quel poco sbagliando.
La ricostruzione urbanistica è avvenuta a macchia d’olio; l’edilizia speculativa e i piani regolatori che potenziavano nuovi spazi per quartieri dormitorio hanno, di fatto, disegnato le nostre periferie.
Scelte miopi, pochi studi d’indagine, poca analisi, nessuna proiezione e lungimiranza zero.
Abbiamo preferito importare e scimmiottare modelli dall’estero.
E così sono arrivati anche i centri commerciali.
Il centro commerciale nasce da un’idea di Victor Gruen, architetto viennese che, con la moglie Elsie Krummeck, nel 1943 scrive un saggio per “Architectural Forum”, progettando uno spazio pubblico: un incubatore di molteplici attività, pedonale, isolato e protetto, destinato a fermare l’espansione incontrollata dei sobborghi e a creare un luogo di svago e di consumo per le famiglie mentre la forza lavorativa era impiegata in città.
Il risultato è stato molto diverso.
Dagli anni Settanta, i centri commerciali hanno preso forma in tutto il mondo, portando a una delle più grandi e distruttive standardizzazioni dello spazio urbano e denaturalizzando ogni luogo invaso.
I primi centri commerciali in Italia appaiono a metà degli anni Ottanta, in periferia, vicino alle tangenziali e alle autostrade , vistose e ingombranti cattedrali del consumo, isolate nella campagna e contornate da grandi parcheggi.
Ma è della fine degli anni Novanta la grande espansione e la massificazione su tutto il territorio nazionale.
Non-luoghi, depauperati il più delle volte dalla molteplicità delle funzioni per cui erano nati diventano contenitori costruiti in economia, non tecnologici, destinati a vita breve mentre negli Stati Uniti, negli stessi anni, siamo alla fine del secolo, già si studia come convertire i dead mall, cioè questi “centri commerciali morti” perché già obsoleti e difficilmente riutilizzabili.
Il problema della dismissione dei centri commerciali (Demalling) è sempre più attuale e urgente in ogni punto sviluppato del globo.
Sostenibilità e adeguamento ambientale richiedono veloci soluzioni.
La forte concorrenza territoriale, l’e-commerce, le abitudini modificate, conseguenza anche della pandemia globale provocata dalla diffusione del Covid-19 hanno accelerato i cambiamenti. Al punto che uno studio di Victor Calanog, analista immobiliare di Moody’s Analytics, notifica che all’inizio di settembre 2020 il tasso di locali vuoti nei centri commerciali era al massimo storico del 9,8%.
Dunque che ne facciamo di questi mostri dismessi?
La legge Bersani, decreto legislativo 114 del 1998, ha trasferito le responsabilità del settore commerciale alle Regioni, introducendo la generale liberalizzazione del settore e demandando ai comuni la gestione urbanistica delle strutture medie e piccole. Controlli poco efficaci e amministrazioni locali che non disdegnavano la costruzione di nuovi insediamenti commerciali con l’obiettivo di aumentare le entrate fiscali, senza valutare la saturazione del mercato e il depotenziamento del bacino di utenza, hanno reso velocemente questi edifici carcasse su aree private, acquistabili in gran parte solo da fondi specializzati nella gestione dei crediti deteriorati, a prezzi stracciati.
L’architetto Gabriele Cavoto, in Demalling: Una risposta alla dismissione commerciale spiega: «L’adeguamento architettonico di un centro commerciale è davvero complicato. Sono edifici costruiti per rendere il massimo in poco tempo. Il riuso è più semplice per la tipologia chiamata “big box”, dove possono insediarsi attività che hanno bisogno di molti metri quadri come uffici di grandi aziende. Per tutte le altre è difficile e molto costoso.»
Negli Stati Uniti dalla maggior parte delle amministrazioni comunali vengono richieste le contromisure in vista della possibile dismissione, prima di concedere i permessi di costruzione dei centri commerciali, e, dal 1995, vengono imposti i primi standard progettuali per il riuso degli edifici, a volte con la richiesta di cauzioni sostanziose da versare in anticipo, per finanziare la demolizione o la riconversione degli edifici in caso di fallimento.
Questi standard sono oggi regole: a Denton, Texas, un centro commerciale diventa una biblioteca pubblica, a Charlotte, North Carolina, un supermercato diventa una scuola, a Hastings, Nebraska, un altro centro commerciale diventa un centro socio-sanitario, nascono nuovi centri sportivi, parchi…
Basterebbe copiare.
Non sa cosa ci fa qua. Dei fumetti era appassionata in passato. Curiosa e iperattiva vorrebbe vedere e vivere tutto: è una perenne dilettante di nuove passioni. Da sempre respira il mondo dell’interior design che è diventato parte della sua vita e del suo lavoro: ristruttura spazi collettivi e privati, progetta interni, disegna mobili e complementi d’arredo unici, ogni tanto anche in giro per il mondo. Vive di quello che le piace fare. Progetti futuri? Non fare progetti.