Gambadilegno e altri gatti

Paolo Interdonato | Pantomime del Calisota |

Gambadilegno è un gatto. Adesso lo so. Ora, questo fatto indubitabile mi è assolutamente evidente. Non è sempre stato così.
Per tutta la mia infanzia il mondo disneyano è stato popolato da topi come Topolino e Minnie, paperi come Paperino e Paperoga, cani come Pluto e Pippo, e altri animali non troppo definiti. Della collocazione linneiana di Orazio, Archimede e Clarabella mi importava veramente poco. Erano soprattutto attori in grado di svolgere funzioni narrative. Per esempio, neanche ora sono troppo sicuro di sapere cosa sia Macchianera: sotto quel cappuccio inquietante nasconde un naso a pallino, baffetti da Zorro e orecchie pendenti.
Ho saputo che Gambadilegno è un gatto solo nell’estate del 1988 quando, a poche settimane dalla morte di Andrea Pazienza, la casa editrice Primo Carnera ha pubblicato due raccolte di storie sparse, disegni, fumetti incompiuti e bozzetti vari: The Great e Cose d’Apaz.
In uno dei due volumi c’erano dei disegni di Gambadilegno. Guardandoli, la natura felina del personaggio mi è stata assolutamente evidente. Cazzo, lo vedi anche tu! È un gatto!

Ecco. Gambadilegno avrebbe potuto essere il primo micino carino del mio immaginario di lettore di fumetti. Il fatto che io non lo abbia riconosciuto come gatto, però, gli preclude il podio.
Sono certo che, un po’ prima di lui, ci sia stato un gattino bianco e nero in un periodico di giochi prescolari. Su quell’albetto orizzontale, però, non c’erano fumetti (o, almeno, non li ricordo). Sono sicuro, poi, di aver visto anche dei fumetti con Silvestro e Tom. Ma quelli erano, soprattutto, personaggi dell’animazione.
Niente. Mi piacerebbe retrodatare il mio primo micino carino, ma dalle nebbie del passato non emerge alcun felino cartaceo. Non ci sono la gatta pazza e innamorata e il topo mattonatore, non c’è Felix, non c’è neppure Birba al fianco di Gargamella.
Mi tocca abbandonare le spiagge dell’infanzia e avanzare verso l’adolescenza.

Novembre 1984. C’è un caldo anomalo nell’inverno dei miei sedici anni. A Roma si registrano 22 gradi; nell’area nordmilanese, dove vivo, qualcuno meno, ma la giacca a vento è ancora nell’armadio. Mi servirà un paio di mesi dopo, quando il freddo si farà sentire sul serio e la neve renderà difficile muoversi in tutto il paese.
Come tutte le mattine, scendo dall’autobus che mi scarica davanti alla stazione dii Saronno. Prima di puntare quell’obbrobrio architettonico che chiamo scuola, mi infilo nell’atrio della stazione per guardare a lungo l’edicola. Un’intera ala dello spazio espositivo è dedicata ai fumetti. Un’immagine incongrua mi paralizza. Un gatto e un topo, disegnati benissimo, si confrontano con la violenza cui mi hanno abituato i cartoni animati di persone che, più tardi, scoprirò chiamarsi Tex Avery e Chuck Jones. Quella violenza inaudita, che nell’animazione schiaccia e deforma corpi gommosi e pronti a riassumere la compostezza iniziale, è letale: la calotta cranica, guarnita di orecchie, del gatto vola via, seguendo una traiettoria sanguinolenta, quando recisa dalla motosega impugnata dal topo; la testa del topo esplode in un geyser di materia cerebrale ed ematica quando il gatto, per vendetta, la strizza tra le mani.

L’albo si chiama Squeak the mouse, lo firma Massimo Mattioli, e contiene quaranta pagine che grondano – proprio come dice uno strillo in copertina – “THRILLS! LAUGHS! SEX! GORE!”.
Conosco l’autore perché, durante la mia infanzia cattolica, ho letto “Il Giornalino” e ho amato Pinky. Qualche mese prima, su una delle incarnazioni de “L’Urlo” (probabilmente quella pubblicata tra le pagine dell’edizione italiana di “Metal Hurlant”) avevo letto un fumetto di Luca Boschi che rimarcava la distanza siderale tra il coniglietto rosa pubblicato sulla rivista da comprarsi unicamente sui banchetti della parrocchia e i personaggi cattivi, violenti e sessuati che lo stesso autore disegnava per “Frigidaire”. Ora so che quella distanza era un effetto di superficie percepibile solo dai lettori un po’ ingenui, ma in quel momento mi aveva stupito. Ho investito le mie cinquemila lire e ho infilato nello zaino quell’albo coloratissimo.

Ho iniziato a sfogliarlo seduto sull’autobus, ritornando a casa, e subito mi sono accorto che non era proprio il caso. Nonostante l’aspetto cartoonesco dei personaggi, quel fumetto non era affatto innocuo e – maledetta adolescenza! – temevo il giudizio degli altri studenti-pendolari che avessero sbirciato quelle pagine. Una comicità esilarante immersa in un bagno di sangue e condita di violenza estrema e pornografia. Soprattutto la pornografia: io e i miei sedici anni mica volevamo essere indicati quali potenziali latori della maledizione dell’onanismo.

Il topo si chiama Squeak; il gatto non ha nome. Si inseguono per pagine fitte di onomatopee e vuote di parole. All’inizio la violenza è quella cui mi hanno abituato i cartoni animati: il gatto afferra il topo; il topo apre la mano del gatto, come fosse un vestito, usando una cerniera, e scappa; il gatto lo insegue e si perde in un vicolo cieco; il topo emerge da un buco nel muro e colpisce il gatto con un martello deformandone il corpo… e così via. E la storia fila liscia in una sequenza di vignette quadrate disposte regolarmente su pagine con una gabbia 3X4. Alla fine della seconda pagina c’è una sorpresa: il topo infila un candelotto di dinamite nel culo del gatto e lo polverizza; resta solo lo scheletro, pulitissimo. Niente paura: all’inizio della pagina successiva, il gatto è ancora vivo ed è tutto intero. Lo splatter vero, completamento inatteso, arriva nella sesta pagina: dopo inseguimenti e cadute, il gatto afferra il topo; gli strappa la testa; la lancia con violenza contro un muro, facendola esplodere in una macchia di sangue e cervella; e ne sbrana il corpicino, sputando le ossa.
Nel capitolo successivo, c’è una festa tra amici. Divertimento, musica e sesso interrotti brutalmente da asce, coltelli, punteruoli, acidi, motoseghe, banali incidenti, rasoi, cavi elettrici scoperti… fino a quando, la furia distruttrice delle fiamme non mette fine alla splendida festa di morte.

Il primo dei miei micini carini mi stava regalando una gioia inattesa. Mi faceva capire che non è vero che la paura fa spavento. Mi spiegava che, esasperando gli effetti di una violenza già di per sé esasperata, come quella delle grandi animazioni statunitensi, si otteneva un effetto horror che riusciva a essere al contempo spaventoso e comicissimo. Di lì a poco avrei conosciuto i film di George Romero, Wes Craven, Tobe Hooper, Sam Raimi e Brian Yuzna e mi sarebbe stato impossibile guardarli senza pensare alle pagine di Mattioli.
Ma la componente realmente perturbante doveva ancora arrivare. Procedevo spedito nella lettura divertita di questo fumetto enorme ed ero pronto a farmi sorprendere, ma forse non così tanto. Il capitolo che s’intitola Magma contiene una sequenza pornografica. Fino a quel momento non ho mai visto un film porno (e nemmeno dopo sono riuscito a sviluppare un reale interesse per il genere). Essere investito dagli stereotipi del porno in un fumetto colmo di animali antropomorfi è sconvolgente. Il gatto senza nome e tre micine carine mi regalano tre pagine piene di sesso divertito e cartoonesco. Io e i miei sedici anni, chiusi nel segreto della nostra cameretta, non saremo certo additati quali potenziali latori della maledizione dell’onanismo.

Dopo Squeak, altri micini carini hanno affollato i miei pensieri. Alcuni realistici, come Michael di Makoto Kobayashi, altri divertenti, come il gatto di Philippe Geluck o Garfield di Jim Davis, altri ancora spaventosi, come Rasputin, l’avversario dell’ispettore Anatroni di Benoît Sokal, altri addirittura sessuati, come Fritz di Robert Crumb e Omaha di Kate Worley e Reed Waller. Quel gatto senza nome disegnato senza ritegno da Massimo Mattioli, è una bussola. Godendo del suo ruolo di capostipite, ha definito il posto che ognuno di loro avrebbe potuto occupare nel mio immaginario.

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