Finalmente ci siamo.
Una Biennale a Venezia che racconta a tutti cos’è oggi e cosa deve essere domani l’Architettura.
A tutti. Perché si guarda al futuro. Perché non è più una questione di stile, di calcolo, di normative e di procedure. E non basta neppure essere degli eccellenti creativi.
Il focus negli ultimi anni si è spostato e tu che leggi QUASI, anche se so che ti piacciono un sacco i fumetti, apri gli occhi anche per guardare meglio il posto dove vivi e che magari ami. In fondo, come ti prendi cura del tuo corpo, può interessarti sapere dove e come il tuo corpo può stare meglio e in migliori condizioni.
La18a Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia segue un cambiamento iniziato con la Biennale del 2015 curata da Alejandro Aravena, in cui si presentavano tematiche diverse, analizzate con chiavi di lettura alternative per cercare nuovi orizzonti, e spinge sull’acceleratore.
Puoi continuare a criticare l’Architettura contemporanea come un succedaneo dell’arte contemporanea e una fucina di archistar ma Laboratory of the Future, il tema di questa Biennale curata dall’architetta Lesley Lokko, usa il continente africano per cambiare prospettiva e guardare al futuro, ampliando e oltrepassando i tradizionali punti di riferimento della nostra cultura occidentale – Europa e Nord America – e dando rilievo ad altre culture a completamento di una storia dell’architettura “in-completa”.
Lo fa usando l’Africa come modello di una condizione ritenuta ai margini, conosciuta più per luoghi comuni: un paese di emigranti, un paese da soccorrere. Evidenzia come i paesi africani siano l’epicentro dove interrogarsi su come il continente più antico – ma anagraficamente più giovane del mondo – sia, proprio forzato dalle sue contraddizioni, il luogo dove esplodono le grandi sfide del presente: il cambio climatico e la necessità di una distribuzione sociale ed economica equa per un eco habitat funzionante.
Si amplia e si dipana l’interrogativo sul ruolo e sulla capacità dell’Architettura di poter affrontare sfide che travalicano le sue competenze e le sue conoscenze perché, benché i fabbricati contribuiscano per un terzo alle emissioni globali e siano tra i principali consumatori di suolo e di risorse, le problematiche ambientali e sociali da affrontare necessitano di reti transdisciplinari, competenze sempre più fluide e multidisciplinari e un nuovo modo di tessere relazioni.
Il senso della forma è un tema centrale in architettura, perché è dalla forma edificata che nasce il luogo che sarà abitato per generazioni e che ne definirà pesantemente la qualità di vita, diventa imprescindibile dall’uso e dalla qualità dell’esistente (suolo, ambiente, risorse) e dalla rigenerazione dell’enorme patrimonio architettonico ereditato dai secoli precedenti.
Ricordiamoci che è capacità di una buona architettura sopravvivere alla sua funzione originaria.
Dichiara Lokko: «Abbiamo espressamente scelto di qualificare i partecipanti come “practitioner” e non come “architetti”, “urbanisti”, “designer”, “architetti del paesaggio”, “ingegneri” o “accademici”, perché riteniamo che le condizioni dense e complesse dell’Africa e di un mondo in rapida ibridazione richiedano una comprensione diversa e più ampia del termine “architetto”».
I practitioner sono 89, per metà africani, hanno in media 40 anni, gestiscono studi per lo più individuali e si confrontano direttamente con i due temi della Mostra: la decolonizzazione e la decarbonizzazione, sperimentando per la prima volta, in loco, un percorso per il raggiungimento della neutralità carbonica.
Qui non la vedi l’architettura, quella che i tuoi occhi guardano oggi; non ci sono grandi studi di richiamo, né grandi progetti realizzati, né vincitori di grandi concorsi.
Salvo i grandi presenti in mostra: Adjaye Associates, atelier masōmī di Mariam Issoufou Kamara, Kéré Architecture e Theaster Gates Studio, questi architetti sono giovani e tecnologici, lontani dalla ricerca disciplinare, esprimono il loro pensiero con un linguaggio sensoriale e veloce, promuovono valori e si interrogano, sconfinando.
Il loro lavoro è frutto di immaginazione, sperimentazione e di questo tempo turbato e angosciato.
Questa mostra centralizza il progetto in primo luogo come pratica sociale e come motore di una rinascita necessaria, ridiscute la figura dell’architetto in profonda trasformazione, incita una necessaria bonifica dei terreni inquinati pesantemente nel secolo scorso per restituire alle nuove generazioni un suolo fertile, si allontana dalle attuali logiche di mercato schiaccianti, da pratiche autoriali e performanti e dalla fragilità concettuale del debole pensiero attuale.
Cerca risposte.
Non sa cosa ci fa qua. Dei fumetti era appassionata in passato. Curiosa e iperattiva vorrebbe vedere e vivere tutto: è una perenne dilettante di nuove passioni. Da sempre respira il mondo dell’interior design che è diventato parte della sua vita e del suo lavoro: ristruttura spazi collettivi e privati, progetta interni, disegna mobili e complementi d’arredo unici, ogni tanto anche in giro per il mondo. Vive di quello che le piace fare. Progetti futuri? Non fare progetti.