«Cappuccetto Rosso fu il mio primo amore. Sentivo che se avessi potuto sposare Cappuccetto Rosso avrei conosciuto la perfetta felicità»
Charles Dickens
Nell’introduzione a I racconti delle fate, volume del 1876 in cui l’editore Paggi di Firenze aveva voluto raccogliere i Contes de ma mère l’Oye di Charles Perrault, più quattro racconti di Catherine d’Aulnoy e due di Jeanne-Marie Leprince de Beaumont, Carlo Collodi ammette di essersi preso, nel «voltarle in italiano», alcune libertà «di vocaboli, di andatura di periodo e di modi di dire». Non è il caso di Cappuccetto Rosso, che traduce in modo pressoché letterale.
Quando la bambina che sta sciorinando davanti al lupo travestito da nonna l’elenco di tutte le stranezze fisiche che nota, arriva agli occhi, la versione di Perrault recita:
-Ma mere-grand, que vous avez de grands yeux!
-C’est pour mieux voir, mon enfant.
E Collodi traduce fedelmente:
-O nonna mia, che occhi grandi che avete!
-Gli è per vederci meglio, bambina mia.
Perché allora, nel nostro ricordo di tutte le volte che ce l’hanno raccontata da bambini, la frase di risposta del lupo suona così, nel modo che abbiamo usato per il tema di questo mese: «Ma per guardarti meglio, bambina mia»?
Mi sono dato una risposta – mica è detto che sia vera – l’altra sera, solo dopo aver riletto… anzi, solo dopo aver riguardato Cappuccetto Rosso. Una fiaba moderna, di Roberto Innocenti.
Ha ragione Innocenti. Cappuccetto Rosso è una fiaba moderna, anzi addirittura postmoderna, non tanto perché lui la ambienta in una città, ma perché fin dalle prime versioni orali quello che viene raccontato è il desiderio (nello specifico, la fame di cibo e di sesso), e nel caso delle complesse (e violente, quei disegni sono di una violenza che non lascia scampo) tavole di Innocenti, il desiderio si trasforma in sguardo soggettivo, di cui siamo colpevoli noi lettori, perché il lupo siamo noi che vogliamo guardare. In quella versione che ci veniva raccontata da bambini, c’era quindi una – inconscia e inconsapevole – riappropriazione della forma e della motivazione originale della fiaba, rispetto all’edulcorazione della versione di Perrault o quella addirittura con il lieto fine dei fratelli Grimm. Il lupo, prima di mangiarti, ti vuole guardare.
Non quindi un vederci generico, ma un guardare la preda con desiderio e speranza.
Tra il 1314 e il 1316 l’Europa fu colpita da quello che il paleoclimatologo Jason Smerdon ha definito come un vero e proprio diluvio universale. Piogge inarrestabili e devastanti, protrattesi per tutte le estati di quegli anni, con le conseguenti inondazioni, causarono la totale distruzione dei raccolti e la morte per fame di milioni di persone. Oltre all’ovvio incremento della criminalità e delle malattie, non furono rari, stando alle cronache dell’epoca, i casi di cannibalismo, soprattutto nelle zone montane più isolate. È più o meno a questo periodo di violenza e carestia, che risalgono le prime versioni di quella “fiaba” che conosciamo come Cappuccetto Rosso. Queste versioni orali sono tutte piuttosto efferate. L’inizio è rimasto invariato, con la ragazzina che deve andare dalla nonna dall’altra parte del bosco. Quando la ragazza incontra il lupo, questi le chiede se per andare dalla nonna prenderà il sentiero delle spille o quello degli aghi. Quando parliamo di spilla, non pensare a quella di sicurezza, o da balia, brevettata da Walter Hunt nel 1849. Le spille allora erano dei lunghi fermagli acuminati che si richiudevano su un anello o su una fibbia più o meno lavorata, e venivano regalate alle ragazze una volta che, compiuti i 15 anni e terminato l’apprendistato cui erano state destinate, entravano nell’età adulta. L’ago invece era una simbologia sessuale, usata spesso per la deflorazione matrimoniale.
Ua volta conosciuto il sentiero che Cappuccetto percorrerà (e che cambia di versione in versione), il lupo si precipita a casa della nonna, la uccide, la squarta e ne fa bistecche, come un macellaio professionista, che ripone in dispensa. Con il sangue della vecchia ci riempie bottiglie come fosse vino. Poi si infila nel letto prendendone il posto.
Arriva la ragazza e il lupo la invita a prepararsi da mangiare una bella bistecca e a versarsi del vino rosso, poi, mentre lei mangia felice di alleviare una fame atavica, le rivela che si sta mangiando la nonna.
A questo punto le versioni orali divergono in quelli che potremmo definire due linee narrative principali. Una in cui il lupo obbliga la ragazza, disgustata dall’aver mangiato la nonna, a spogliarsi, a bruciare i vestiti, a entrare nel letto con lui e poi la divora. Un’altra in cui la ragazza, indifferente al proprio atto cannibalico, si spoglia di propria volontà ed entra nel letto del lupo da sola. Entrambe le linee hanno una variante iniziale in cui la ragazza si spoglia sotto lo sguardo del lupo (obbligata o meno, a seconda della versione) e si mette a magiare nuda.
Ne esiste una in cui varia il finale, e la ragazza dopo essere stata nel letto con il lupo, prima che questi la divori, adduce la scusa di dover cagare e fugge.
Cappuccetto Rosso, in tutte le sue declinazioni e varianti, è la fiaba più antica, archetipica, controversa e seminale di tutte le fiabe del mondo (almeno di quello compreso tra l’Atlantico settentrionale e il Dneper). Una fiaba dal cuore così nero (affonda nella fame e nella carestia peggiori che sconvolsero l’Europa), le cui implicazioni sessuali, le ambiguità morali, e i sottotesti filosofici sono stati ampiamente sviscerati e indagati. Un cuore così oscuro da legittimarne ogni lettura e rilettura. Da Perrault ai fumetti porno, passando per Gustave Dorè, da Tanith Lee a Angela Carter, da Cory Edwards a Vivien Lamarque.
Per capire quale ricettacolo di topoi è stata ed è, questa favola per il nostro immaginario, ti consiglio qualche lettura:
- Valentina Pisanty, Leggere la fiaba, Bompiani
- AA. VV., Cappuccetto Rosso. Una fiaba vera, Meltemi
- ma soprattutto il mio preferito (purtroppo non c’è edizione italiana) Catherine Orenstein, Little Red Riding Hood Uncloaked: Sex, Morality, And The Evolution Of A Fairy Tale, Basic Books.
Quello che mi preme qui è puntare l’attenzione, come suggestione e niente più, nessun intento teorico, su una cosa che tutti quei bei saggi hanno sempre trascurato, forse perché Perrault lo aveva annebbiato, togliendone il focus dal corpo di Cappuccetto: lo sguardo del lupo. In realtà solo Cory Edwards ha riflettuto sul funzionamento dello sguardo dei personaggi nel suo Cappuccetto Rosso e gli insoliti sospetti – ma a questo, un giorno, dedico un lungo saggio, adesso sorvoliamo.
Il grande rimosso e il vero colpevole… no, non è la parola giusta, il responsabile di tutto quanto accade (sia che Cappuccetto abbia o meno libera volontà di farlo accadere) sono gli occhi grandi del lupo.
Uno sguardo che non ha nulla della “naturalezza animale”, perché come racconta una bella leggenda degli indiani Dakota, un giorno, al Grande Spirito era venuto il desiderio di trasformare tutti gli animali in uomini, ma appena lo fece si rese conto di quale fallimento fosse un mondo umano. Quindi ritrasformò tutti gli animali in quello che erano, solo che si dimenticò un dettaglio che rimase umano: gli occhi del lupo.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.