Benché Boris insista sul fatto che quello sguardo sia l’elemento che rende evidente la sua colpevolezza, il lupo non è certo il solo ad avere gli occhi grandi. Né nella fiaba di Cappuccetto Rosso né nel mondo. In quella storia archetipica, ce ne sono altri, spalancati e famelici. In primo luogo quello, spesso inerme e a volte carico di intenzioni, della stessa Cappuccetto. Poi c’è quello spaventatissimo – e decisamente occasionale – della nonna. Quindi quello del cacciatore voyeur, pronto, in alcune versioni, a sbirciare dalla finestra, perché – dice – insospettito dai rumori.
Infine c’è lo sguardo più importante: quello del lettore.
La fiaba di Cappuccetto Rosso è decisamente seminale. Uno di quei punti nodali attorno ai quali, da alcuni secoli, noi occidentali – noi che, come dice Boris, viviamo «tra l’Atlantico settentrionale e il Dneper» – costruiamo il nostro immaginario. Ce l’hanno raccontata da bambini, in decine di versioni, derivazioni, propaggini, proseguimenti. E quella storia ci è entrata dentro. Ha cambiato il nostro modo di guardare il mondo.
Ma mica solo quello di noi occidentali: ha cambiato il modo in cui guardiamo il mondo noi umani.
L’immaginario, lo sai, è un fiume in piena. Una storia non fluisce ordinatamente dalla persona che, per prima, la racconta verso tutti quelli che la ascoltano. Esonda, straripa, travolge, si riversa, invade, abbatte gli argini, cambia la sua forma, addirittura il suo corso. Conosciamo storie antichissime che non abbiamo mai letto, perché ci sono arrivate per altre vie, da altre voci, sostando in altri luoghi, consumando altri tempi.
Cappuccetto Rosso è proprio così. Di quella storia, ognuno ha la sua versione.
Non so nulla di Chome. Solo le scarne informazioni infilate nella bandella del suo primo libro tradotto in italiano, La biblioteca sotterranea e altri racconti. Quattro fumetti brevi raccolti in uno dei primi volumi editi da Toshokan, l’etichetta dedicata al manga da Edizioni If. Ha meno di trent’anni, ha conquistato una solida posizione nel mercato del fumetto autoprodotto e ama i racconti di Howard Phillips Lovecraft e di un paio di scrittori giapponesi che non conosco. Poi ci sono quei quattro fumetti: 180 pagine realizzate tra il 2019 e il 2022. E tutto assume senso.
Chome è nata nel 1995. Quando, il 20 luglio 2001, è uscito La città incantata di Hayao Miyazaki, aveva sei anni. Sono convinto che abbia visto quel film, alla sua uscita, in un multiplex giapponese (e non so neanche se esistono), e credo che quello spettacolo le abbia cambiato la vita. Il film di Miyazaki racconta un Paese delle Meraviglie visitato da un’Alice nipponica accompagnata dai genitori: non vi si accede cadendo nel buco del coniglio o attraversando lo specchio, ma sbagliando strada e infilandosi in un tunnel. I turbamenti di Alice non sono mai realmente pericolosi e, quando la Regina Rossa minaccia la decapitazione, nessuno ha veramente paura. La città incantata, invece, è pervasa da una vena di inquietudine che monta in angoscia quando i genitori della decenne Chihiro vengono tramutati in porci e lei è costretta a trovarsi un impiego all’interno dell’impianto termale.
Chome racconta Paesi delle meraviglie e mondi sognati, e la morte è presente fin dalla prima pagina. I suoi personaggi hanno occhi grandi, giganteschi quasi, e gettano sul mondo sguardi aerei che mostrano una competenza architettonica e urbanistica rara. Quattro racconti che dicono quattro città diverse: quella che conduce al cimitero e alla quiete, quella bibliotecaria sotterranea e babelica, quella dei pesci che ti spingono verso il mare e quella dei ricordi.
Trovo inspiegabile che non ci sia, tra i referenti letterari attribuiti alla giovane autrice, Italo Calvino. Le città di Chome sembrano Città invisibili, con nomi di donne e misteri da accumulare, in progressioni reticolari, intorno alla memoria, al desiderio, ai segni, alle città sottili, agli scambi, agli occhi, al nome, ai morti, al cielo, alle città continue e alle città nascoste. Chome offre le sue città allo sguardo del lettore come Marco Polo le offre allo sguardo di Kublai Khan. E ognuna è un bosco in cui Cappuccetto Rosso può perdersi.
Forse la giovane autrice giapponese non ha mai letto Calvino; sicuramente i suoi occhi grandi si sono mossi sulle sue città invisibile. Città che. perché lei le guardasse meglio, hanno attraversato, impetuose come fiumi in piena, le architetture di Moebius e O’Bannon nel loro The Long Tomorrow, la Los Angeles di Blade Runner, la Neo Tokyo di Akira, la Mouseton di Floyd Gottfredson, il Villaggio Pinguino del Dr. Slump e, soprattutto, Le città oscure di François Schuiten e Benoît Peeters.
Come le città di Miyazaki e di Calvino, le città di Chome possono essere classificate in accordo a una tassonomia sghemba: quelle incantate, quelle che volano, quelle che errano, quelle che assomigliano a quelle che amo, quelle che piacciono all’imperatore, quelle che si possono disegnare con un pennello sottile, quelle che da lontano sembrano mosche…
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).