Le basse aspettative a volte ti salvano. Vai a vederti un film sapendo fin da subito che è un cazzatone, dici ok almeno ci facciamo una risata, talvolta subentra la schadenfreude che ti mette addosso quel senso di curiosità mista guilty pleasure che ti porta in sala per vedere fino a che punto possano aver pasticciato. Effetto Waterworld, giusto per buttarla sul nostalgico, che poi tanto male non fece al baraccone di Kevin Costner e soci che di qualcosina rientrarono proprio grazie agli spettatori che accorsero in massa per vedere il deragliamento. E lo ammetto, questo è l’effetto che mi ha portato in sala a vedere I Cavalieri dello Zodiaco, né più e né meno. Voglio dire, il trailer parla chiaro, e lo sgami al volo he è un trailer onesto, non come il trailer di Suicide Squad (il primo, non quello di Gunn) che lì su due piedi pare montato da Gesù Cristo e poi quando vai a vederlo esci dalla sala maledicendo un intero universo cinematografico tra l’altro pare non proprio a vuoto. Insomma, tutto si capiva da quelle prime immagini per niente promettenti. Poi sono arrivate le prime foto del protagonista in armatura, e le poche speranze sono svaporate come la bolla di una scoreggia in vasca da bagno che raggiunge il pelo dell’acqua.
Il che potrebbe sembrare, non conoscendo quel pezzo di cuore generazionale che è il cartone animato che ha dato il titolo al film, un dettaglio superfluo su cui accanirsi. Peccato che le armature siano il punto cardine della lore di Masami Kurumada. I cavalieri sono definiti in larga parte dall’armatura che indossano, che è una gimmick per vendere fumetti ma non di meno è lì che hanno costruito la base di un universo narrativo oltre che il selling point di una galassia infinita di merchandise. Pare dunque chiaro che un adattamento cinematografico con armature che oltre a comparire verso il finale somigliano agli scudi in plasticone stampati male che si trovano nei kit medievali che vendono alle fiere di paese non parte proprio con il piede giusto. Per questo vedere quella specie di bidone del compost ingombrante, posticcio e con un design che non rievoca nemmeno l’ombra di quel sentimento elettrico che ci incollava alla televisione da bambini.
Senza contare che le armature da cosplayer che ha sbagliato manga non sono l’aspetto peggiore del film. Un altro aspetto che conferiva ai Cavalieri dello Zodiaco una presa assurda era la storia di questi ragazzini che sì, erano eroi potentissimi e fuori dal normale, ma così lo era la loro sofferenza. Ogni volta che si alzavano dal letto e indossavano l’armatura per andare in ufficio la vita gli faceva un culo così, e non parlo solo di mazzate che pur venivano distribuite con la generosità di un bonus fiscale in campagna elettorale. Nessuno dei protagonisti ha schivato la sofferenza. C’è chi s’è visto ammazzare maestri o fidanzate, chi a far fuori le persone che ama è costretto dalle circostanze volente o nolente, chi addirittura si deve mutilare di sua propria mano accecandosi con le dita. E noi a seguire le avventure di questi poveri cristi che più ne prendevano e più si rialzavano, più si rialzavano e più ne prendevano ma andava bene così perché: punto primo lo facevano per la salvezza del mondo e della dea Athena; punto secondo a celebrazione dell’educazione old school più mazzate prendevano più crescevano umanamente in una glorificazione del sacrificio che San Francesco levati di torno; punto terzo l’amicizia. Potevano contare l’uno sull’altro, sempre, e questa cosa ce la portavamo dietro, l’amicizia, raccontata in maniera edificante ma fighissima al tempo stesso perché si trattava di amici che facevano il colpo del drago nascente. Ecco, niente di tutto questo succede nel film. Personaggi piatti e completamente sbagliati, il piattume più totale sia a livello recitativo sia a livello di scrittura. Voglio dire, il maggiordomo che stende più cattivi del protagonista sventagliando pistole e manganelli estensibili a destra e a manca in un tripudio di simboli fallici. Un villain con un’origin story ridicola (la dea Athena le disintegra le braccia PER SBAGLIO, per poi curarla una ventina d’anni dopo con lo schiocco delle dita), un antagonista che abbiamo capito chi sei perché conosciamo la lore ma per il resto te ne stai lì piatto e salta fuori che anche tu sei un cavaliere PERCHÉ Sì. E Sean Bean che muore, e fin qui va bene, ormai la mettono anche nei manuali di sceneggiatura che Sean Bena deve morire, ma muore per niente. Il sacrificio del buono che ai fini della trama non serve a un cazzo.
Perché la trama è scritta col culo. Anche qui la procedura è stata la stessa: hanno preso tutto quello che funzionava nell’anime e nel manga e se ne sono dimenticati. Tranne un po’ di lore dalla serie Netflix, che era una cazzata di suo e giustamente hanno attinto da lì. Qui abbiamo la classica storia del prescelto perché sì, che nel primo d’ora ti telefona tutto il resto del film. Vedi già gli ostacoli, sia i nemici sia il difficile rapporto con gli alleati, in fila come poi puntualmente si presenteranno. Il sentiero è tracciato qui nel segno della banalità, riducendo al minimo la complessità e la caratterizzazione del personaggio con redenzioni scontate, rapporti burrascosi che diventano amicizie in maniera prevedibile e un finale retorico per il quale non erano necessari i tre quarti precedenti del film. Non servono le armature, non servono i cavalieri, non serve niente di tutto questo per come viene risolta la vicenda. E soprattutto non serve l’addestramento, che nell’anime e nel manga era fondamentale e andava a creare interazioni profonde che caratterizzavano i personaggi e davano un senso alle loro azioni, perché la perdita dei maestri o il desiderio di essere all’altezza dei loro insegnamenti, che non si limitavano a come ridurre l’avversario in forma liquida a forza di schiaffi ma due cose sulla giustizia le dicevano rendevano i ragazzini gli eroi pronti al martirio che man mano si rivelavano nel corso delle puntate. Qui no. Abbiamo questa sequenza incollata con lo sputo, con una maestra che parla come il tabellone che segnala i ritardi in stazione, un pugno di scene messo lì per flexare un’armatura in più ma che poteva essere gestito in mille altri modi, tutti migliori. Tempo e voglia di affezionarsi: zero.
Ora, questo pezzo sembrerà il rant di un nostalgico ma il punto non è questo. La volontà di innovare un franchise, di svecchiarlo o addirittura adattarlo alla sensibilità di un pubblico diverso ci sta tutta, ma ci vuole impegno. L’impressione è che chi ha scritto la sceneggiatura non abbia visto mezzo episodio dell’anime e che si sia fatto dettare il pitch al telefono scrivendolo su carta igienica mentre stava al cesso. Un adattamento può cambiare anche radicalmente diversi aspetti dell’universo narrativo di partenza, il MCU lo fa e non di rado il trucco riesce bene, ma dietro ci dev’essere del rispetto. Qui siamo invece nel regno del tirato via, siamo a livello di Street Fighter, l’adattamento del videogame degli anni Novanta con un Vandamme che si era pippato una pista da sci, ma senza quel senso delirante di so bad it’s good. I Cavalieri dello Zodiaco è un cash grab, uno sfruttamento poco rispettoso di una licenza con ben altro potenziale che preferisce tirare per il culo i fan piuttosto che farlo fruttare.
Stefano Tevini e l’Onorevole Beniamino Malacarne sono un reboot del classico Dottor Jekyll e Mister Hyde ma, invece di seguire il trend contemporaneo dell’inclusività, deviano dal canone nel fatto di essere ambedue dei fetenti. Nati entrambi nel 1981, uno è una specie di scrittore (romanzi, fumetti, articoli, quella roba lì), l’altro è un lottatore di wrestling. Tevini ti parlerà di fumetti, fantastico e simili, Malacarne di Wrestling (oltre a occuparsi della gestione operativa dei reclami e soprattutto di chi li esprime).