Sabato 8 luglio, in uno spazio milanese che si chiama “Rob de Matt”, c’è stato “Sgambetto”, un piccolo festival del fumetto indipendente e autoprodotto. C’era un caldo assassino e un manipolo di eroici autoproduttori ha disteso le proprie pubblicazioni sotto un sole giaguaro. Con grande sprezzo del pericolo, sono andato a vedere cosa ci fosse di nuovo (e a riscuotere – lo confesso – la copia della Guida turistica agli aldilà possibili che Hurricane mi aveva promesso).
Mentre vagavo tra gli stand, ho visto il futuro.
Due ragazzi, seduti sotto un ombrellone, vendevano le ultime copie di “ATMA Comics”, la loro fanzine fotocopiata e spillata. Erano veramente giovani. Ho preso in mano un albo, l’ho sfogliato ed era incredibile: underground californiano trapiantato in Brianza, pagine che funzionavano e un’idea di fumetto.
Riporto il dialogo tra me e il ragazzo (come lo ricordo, con me in un ruolo un po’ inquisitorio e lui gentilissimo):
«Ciao. Siete bravi! Mi racconti cosa fate, per favore?»
«Una fanzine che si chiama ATMA, con le iniziali di noi quattro amici che abbiamo iniziato a farla: Andrea, Tommaso, Martino e Andrea.»
«Quanti anni hai?»
«Tredici.»
«Questo è il numero 17. Da quanto tempo la fate?»
«Da quattro anni. Eravamo in quarta elementare.»
«Ah!»
«…»
«Ma tu che fumetti leggi?»
«Mi piace molto un autore che si chiama Robert Crumb. Non so se lo conosci…»
«No. Per favore, raccontami chi è.»
«È un autore underground che racconta storie un po’ complesse. Possono scandalizzare. Parla spesso di sesso e di droga…»
«E tu come hai fatto a soprirlo?»
«Mio papà ha un sacco di fumetti. Ha anche quelli di mio nonno. E l’ho trovato là in mezzo.Mi piace proprio tantissimo.»
«Si vede. Grazie di tutto. Adesso vi seguo con attenzione. Ciao.»
«Ciao.»
Se vuoi seguirli anche tu, vai a dare un’occhiata QUI e QUI.
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Suona strano a dirlo oggi, però, un tempo, decenni prima del graphic novel e dello sdoganamento del nerd, i fumetti erano guardati con riprovazione dai genitori, dagli insegnanti e dalle istituzioni. Pochi intellettuali illuminati si battevano perché fosse chiaro che, indipendentemente dalla loro natura di prodotto di consumo, potevano avere delle qualità ed esprimere bellezza, esattamente come tutte le altri merci della cultura. I pochi che cercavano di liberare il fumetto dalla coltre di pregiudizi erano, di solito, gli stessi che non si scandalizzavano quando un libro o un film venivano qualificati come merci o prodotti.
In quei tempi, i fumetti erano oggetti di consumo letti da chiunque (in realtà il pubblico era, per la maggior parte, maschile). Ci si affezionava ai personaggi e si seguivano le loro imprese, un numero dopo l’altro, cercando di non mancare neanche un’uscita. Si godeva del mucchietto di albi e volumetti che cresceva un mese dopo l’altro, a rimarcare la distanza dei gusti di chi leggeva fumetti da quelli dei genitori, degli insegnanti, dei preti e delle suore, dei sindaci e degli assessori, dei custodi dei cimiteri della cultura patria. Poi, un po’ alla volta, ci si disamorava dei personaggi e la noia portava a spostare le attenzioni altrove. Le collezioni venivano vendute, buttate, inscatolate in cantina, abbandonate nella casa natale. Gli unici che continuavano a muoversi con il loro carapace cartaceo, attenti a che quegli albi non si rovinassero, erano i collezionisti.
Ho la massima stima per chi coltiva con consapevolezza i propri feticismi: una collezione è un feticcio che acquisisce un grande valore per chi la possiede, man mano che si completa e si integra. Un enorme puzzle i cui tasselli mancanti vengono cercati costantemente con tutti i mezzi che la sorte, l’energia e le possibilità mettono a disposizione. Mi crea più disagio quando i collezionisti, animati da smania di completismo, si trasformano in storici e critici del fumetto.
Essere collezionisti oggi – grazie alle innumerevoli mostre mercato e, soprattutto, a eBay – è molto più facile: basta saper scegliere con cura le parole chiave e la ricerca dà subito i suoi risultati.
Mi stupisco, allora, osservando l’esplosione di quei volumi che – mutuando la definizione dalla casa editrice statunitense Marvel Comics – si chiamano “Omnibus”. La modenese Panini comics – colosso mondiale del fumetto – ne pubblica tantissimi: Marvel e DC, ma anche Rat-man, o serie manga in edizioni dette deluxe.
Sono volumi grandi e pesanti, con tantissime pagine, quasi sempre patinate, che mettono a dura prova la legatura. Difficilmente li si tiene sul petto mentre si è sdraiati. E non è certo la tensione data dalla lettura a impedirci di addormentarsi con quei libri sul petto.
Eppure ne escono tantissimi. Continuamente.
Panini ha annunciato l’omnibus di “Paperinik New Adventures”, la serie che ha inserito le regole del fumetto di supereroi nel mondo Disney: l’insistere sui temi avventurosi a scapito della commedia, lo spostamento del personaggio con i superpoteri su un comic book mensile, lo sviluppo di una continuity serrata, …
L’arrivo di quella serie nello sbrillluccicoso mondo degli Omnibus significa che i lettori di PKNA – iniziato oltre un quarto di secolo fa – sono diventati abbastanza grandi da poter investire un’ottantina di euro per un volume cartonato che occuperà, con le sue sontuose 700 pagine, sei centimetri di mensola, gridando al mondo un feticismo che, ai tempi della prima uscita di quelle storie, era ancora censurabile.
Non conosco il modello economico di quei volumi, ma credo siano un’importante fonte di fatturato e, soprattutto, redditività per Panini. Sono volumi che raccolgono storie già lavorate. Si tratta di allineare in Indesign i file già digitalizzati, tradotti, letterati ed editati di fumetti pubblicati più volte. Comporre meno di dieci pagine di redazionali, una distesa di copertine e disegni preparatori. Il costo più alto è sicuramente quello della carta e della legatura, ma il prezzo di copertina rende modica quella spesa.
credo siano volumi più esposti che effettivamente letti e mi pare anche che si esauriscano in fretta e vadano ad alimentare un mercato dell’usato decisamente vivace.
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Losers di Kōji Yoshimoto è un manga in tre volumetti edito da XPublishing e distribuito non so come. Per fortuna ci sono i siti di ecommerce e ce lo si può procurare. È la storia di una rivoluzione editoriale nipponica, quella di “Manga Action”, il primo settimanale di seinen manga (fumetti destinati a un pubblico di giovani adulti).
È la storia di Bujin Shimizu, redattore insoddisfatto che decide di portare «la letteratura nei fumetti». È una volontà – discutibilissima, chiaramente – che i più svegli tra gli operatori editoriali del fumetto hanno sentito il dovere di esprimere. Basti pensare alle motivazioni di “(À suivre)” («l’irruzione selvaggia del fumetto nella letteratura»), “Valvoline motorcomics”, “Raw”, eccetera.
Con “Manga action”, però, siamo a metà degli anni Sessanta e quel discorso viene condotto solo in redazione, senza proclami un po’ tronfi da riversare sui lettori. Infatti, in breve, quel settimanale pubblica meraviglie come Lupin III di Monkey Punch, Jukyoden di Baron Yoshimoto, Lone Wolf and Cub di Kazuo Koike e Goseki Kojima, l’età della convivenza di Kazuo Kamimura e la prima serie sulla pesca di Takao Yaguchi (l’autore di Sanpei).
Quella rivista, nel momento delle trasformazioni indotte dall’emersione dei giovani come soggetto sociale (e ribelle) e come pubblico con autonomia di spesa, influenza profondamente il mercato editoriale e arriva a sfondare il tetto del milione di copie alla settimana vendute.
Sarebbe, di suo, una storia interessante, ma c’è un elemento che la rende essenziale. Fin dal titolo, è evidente che Losers racconta le vicende di sconfitti che producono bellezza quasi loro malgrado. Tutti volevano fare altro, a partire dal redattore capo che avrebbe voluto una rivista letteraria. Si ritrovano a lavorare in una casa editrice piccola e cialtronesca – la cui redazione iniziale è in un edificio che precedentemente ospitava un bagno pubblico – perché è stata l’unica impresa che li ha assunti, con un stipendio da fame e senza prospettive di crescita, dopo innumerevoli rifiuti.
Gente che voleva fare altro e che, alla fine, è sprofondata nella frustrazione di un mestiere poco interessante e mal pagato.
Eppure, la rivoluzione è giunta lo stesso.
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C’è in edicola una nuova edizione de “Lo Sconosciuto” di Magnus. Riproduce minuziosamente le copertine e il formato dei sei numeri usciti originariamente, per Edizioni del Vascello, tra il luglio 1975 e il gennaio 1976. La sola differenza immediatamente percepibile prendendo in mano l’albo dall’espositore è il prezzo: €4,90 in luogo di L.250. Quel prezzo si collocherebbe tra quello degli altri due prodotti affiancabili in edicola: “Diabolik” e le sue ristampe venduti a €3,00 e “Alan Ford Original” a €5,00.
Si collocherebbe se le edicole esistessero ancora.
Sapevo dell’uscita del primo numero de “Lo Sconosciuto” perché ne ho viste foto nelle timeline di alcuni miei contatti sui social network: a Milano e dintorni quella pubblicazione non ha fatto capolino in alcuno dei punti vendita che ho visto. Ho trovato, sul finire d’agosto, il secondo numero e ne sono felice.
Nelle scorse settimane sono stato per diletto a Marsiglia e a Berlino. Ho avuto la chiara percezione che, per quanto riguarda le edicole, l’Italia sia solo in ritardo rispetto agli altri paesi.
Trovare a Marsiglia un’edicola – per comprare “Spirou” e “Fluide Glacial” – è molto difficile. Il quotidiano locale è in vendita nei supermercati di quartiere; sono rimasti solo chioschi da strada e i magnifici negozi in cui cercare le pubblicazioni inaspettate sono spariti; anche le librerie dell’usato non stanno troppo bene (“Locus solus” è un inferno di sporcizia e calore; “L’ombre de Marx” vende quasi solo film e musica).
A Berlino le edicole non si ricordano neppure più cosa fossero. E non ho visto in giro un quotidiano cartaceo tra le mani di chicchessia (ma nemmeno free press, eh).
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Mi piacciono molto le riviste che si danno un tema (e basta guardare l’impostazione che Boris e io diamo a QUASI per accorgersene). Dovrebbe piacermi molto anche l’attuale corso di “Linus”, non fosse che Igort ha scelto di rinunciare al nodo tematico dei primi numeri per presentare una carrellata di santini. Eroi del panorama culturale – quasi esclusivamente occidentale e maschile – che hanno illuminato la sua generazione.
Dato il piccolo scarto di età tra me e Igort, mi ritrovo a essere target della rivista. Infatti molti di quegli eroi, poeti, santi e naviganti stanchi sono pure i miei.
Gioisco quando vedo in edicola il numero dedicato a Italo Calvino, perché tra tutti gli intellettuali italiani, è lui quello che più mi ha illuminato e dato gioia. Anche più di Eco, Faeti, Bernardi e Bellochio, per citare quelli cui penso più spesso.
Guardo la copertina, disegnata da Sergio Vanello con un po’ di perplessità. Un primo sguardo mi fa pensare che sia un omaggio a Tullio Pericoli. Poi lo guardo meglio ed evidentemente non lo è. Si tratta di un disegno costruito, con professionalità, partendo da fonti fotografiche diverse.
Mi succede una cosa strana. Mentre guardo le foto di Calvino, cercando di riconoscere le reference usate da Vanello, continuo a vedere Pericoli.
Pericoli ha catturato con una precisione tale il viso, le caratteristiche, lo sguardo e, addirittura, la poetica di Calvino da averlo definito.
I ritratti che ne ha fatto si sono sovrapposti al corpo dello scrittore fino a diventare indistinguibili.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).