Qualche anno fa è uscito Ostaria delle dame di Francesco Guccini, un cofanetto che raccoglie, in sei dischi, tre concerti fatti in un luogo mitico e rumoroso. Non è un disco che ti cambia la vita, sia chiaro; è un oggetto utile se si ha una pulsione alla filologia.
Il concerto del 19 gennaio 1985 si apre con una canzone inedita e senza titolo («Senti come viene bella, Bandini… Ricordi che era quella che avremmo dovuto aggiungere al disco?»). Una canzone incompleta, in lavorazione, sente ancora di cucina, di laboratorio delle idee. Nel booklet di Ostaria delle dame ha già il titolo che conquisterà, solo un paio d’anni dopo, quando sarà pubblicata come brano di apertura di Signora Bovary: si chiama Scirocco.
Nel 1987 ho diciannove anni e Signora Bovary è il primo disco di Guccini che compro nei giorni della sua uscita. Prima di quello, nella discografia gucciniana, ci sono il doppio dal vivo Fra la via Emilia e il west e l’album in studio Guccini, datati rispettivamente 1984 e 1983. Sono solo tre o quattro anni, ma, per un diciannovenne, sono un’eternità.
Ho scoperto Guccini che avevo sedici anni, me ne sono innamorato e, nella mia vita sedentaria e provinciale, ho ricostruito una discografia parziale e incongrua, facendomi registrare audiocassette da amici e amici degli amici. Quei nastri li ho ascoltati centinaia di volte, spaccati, lasciati al sole, riavvolti con una penna Bic, mandati a memoria.
Quando è arrivato Signora Bovary, ero pronto. Era il disco giusto al momento giusto. Sarebbe diventato il MIO disco per un sacco di tempo.
Scirocco, nella versione del 1987 è una canzone diversa da quella che Guccini aveva fatto ascoltare in Ostaria solo due anni prima. Da burattinaio di parole qual è, ha aggiustato e calibrato le carambole lessicali, dando un senso diverso – e giusto – alla canzone. Infine ha portato la vicenda narrata a compimento. Nella sua osteria, la storia si interrompeva non appena scoppiava il pianto.
Sono convinto che il testo ci fosse già tutto – avrebbe dovuto essere inciso in un disco in studio di due anni prima – e che Guccini abbia scelto di non cantarlo per non sputtanare i protagonisti di quella storia. Era in un locale pieno di amici pettegoli, dopotutto.
I fatti di vita raccontati da quella canzone li conosci: te li ha spiegati nel dettaglio, qualche giorno fa, il Baro. A me di quella storia di frustrazioni, conflitti e doppie morali non è mai importato molto. Certo, era lì e la si vedeva bene, ma mi è sempre parsa un falsoscopo, un obiettivo cui mirare perché, assecondando le leggi della balistica, si centrasse il bersaglio.
E quel bersaglio era dichiarato addirittura nel titolo.
Lo sai, quando tira scirocco, i vestiti ti si appiccicano addosso, l’aria è pesante da respirare, non devi stendere i panni ad asciugare, non puoi acconciarti i capelli, il pane non lievita, non devi lavare i pavimenti perché non asciugano, e devi evitare lo Ionio che diventa fango. Ma il vento di Guccini è duplice. Prima è “lucido”, quando le cose vanno bene e, inseguendo pensieri dubbiosi e nebulosi, ci si permette di perdere la consistenza materica della realtà per addentrarsi in barocchismi di pensiero. Poi arriva la vita, vestita di un abito di percalle attillato, e ti rovescia addosso le tensioni, le scelte, i dubbi reali. Mica quelli narrativi, un po’ oziosi, sui quali puoi fare la gara dell’ampiezza del tuo sapere, snocciolando questioni di etica e ontologia. A quel punto, quel vento caldissimo ti riempie «di ricordi impossibili / di confusione e immagini».
Eccoli lì. Quei due versi, a diciannove anni, mi hanno confortato. Il casino rumoroso che avevo in testa, che confondeva tutto e rendeva indistricabili i pensieri, era in una canzone. La cascata delle carte, così come viene disegnata da John Tenniel alla fine di Alice nel Paese delle Meraviglie, raccontava benissimo come mi sentivo, postadolescente, chiuso dentro me stesso. Ecco, ora quella cascata aveva una rappresentazione anche verbale. È difficile trovare il conforto delle parole quando in testa ti ronzano soprattutto figure, quando, per seguire un flusso del discorso, devi aggrapparti a un’idea e non mollarla, neanche quando, tutto intorno altre immagini, foto, grafici e, soprattutto, disegni urlano per avere la tua attenzione.
Quel disco, che si apre con Scirocco e si chiude con «noi, se si muore solo un po’, chi se ne fotte / ma sia molto tardi che si va a dormire» (Canzone di notte n.3) m è stato di conforto. Mi ha detto con chiarezza che – basta cazzate! – dovevo muovere il culo, darmi una mossa, iniziare a vivere…
Altrimenti sarebbe stata davvero una vita di merda.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).