Mi piace pensare che la precisazione che andrò a fare sia superflua per un lettore il cui occhio caschi qui, ma per buona misura e per eventuali esploratori che approdano casualmente a questi lidi procedo con la massima chiarezza: il titolo del presente pezzo non è solo una citazione, ma rappresenta la qualità del libro del generale Vannacci che non ha scritto mezzo rigo che si possa definire di valore, ben costruito o espresso con mezzi superiori a quelli di un gatto che si addormenta sulla tastiera. La qualità intrinseca del volume non la metto minimamente in discussione, esso è senza appello inutile e dannoso, perché peggio dell’ignorante che non legge c’è l’ignorante che legge un libro e, per effetto Dunning-Kruger, pensa di saperne.
Chiarite le posizioni di chi scrive, c’è da dire che Il mondo al contrario ha per lo meno l’utilità di suscitare alcune riflessioni su diversi aspetti del contemporaneo e che, da questo punto di vista, possiamo quantomeno trarre un seppur minimo beneficio da un’operazione non dissimile dal compostaggio dell’umido.
La prima riflessione è quella sull’effetto al lupo al lupo, anzi al fascio al fascio, che scatena il panico nelle bolle di sinistra ogni qual volta un personaggio a vario titolo associabile alla destra si esprime a ruota libera. Ora, non si può proprio dargli del fascio tout court, a Vannacci. Non quando in giro ci sono editori come Edizioni di Ar (di Franco Freda, hai presente?) o Altaforte, che a suo tempo sollevò la sua quota di polverone che se non fosse intervenuta Liliana Segre avremmo veramente rischiato di trovarceli al Salone del Libro (il sottoscritto stava organizzando un contro evento vagamente incosciente, ma questa come si suol dire è un’altra storia). I fasci hanno più o meno la loro nicchia ben caratterizzata da cui Vannacci si pone furbescamente con un piede fuori. Nel senso che lui l’associazione l’annusa e scrive quel disclaimer paraculetto dove dice che non sta incitando nessuno a fare alcunché, ma a livello di contenuti si ferma prima. Quella che lui esprime è una forma di ur fascismo, di quel culto del senso comune populista che al fascismo ti ci porta forse sì e forse no, quel qualunquismo da massa silenziosa che un po’ per cautela un po’ per ignavia caratterizza il paese. Ecco, per capirci Vannacci riordina in forma più o meno di libro, mettendo insieme quattro dati a cazzo e lo stupro di una piramide di Maslow, le sparate di quello che, al bar in mezzo agli ubriaconi, nella vita ha letto qualcosina. Mica tanto e soprattutto mica bene, ma sa mettere in fila due concetti e, in un contesto in cui le forme di espressione più alte sono urlare a ogni gol davanti alla partita e fare due battute licenziose alla cameriera sperando invano che te la dia, uno così ci passa pure per quello intelligente, quello che quando uno dei suddetti beoni ha un dubbio si rivolge a lui con un «ma tu che sai tutto…».
Chi legge ora potrebbe dire sì, ok, fascio, ur fascio, che differenza fa? Beh, per loro forse nessuna, per noi dovrebbe, perché la vigilanza continua necessaria in una società democratica richiede, tra le altre cose, di individuare idee e processi, di distinguerli con precisione e lucidità. Noi dobbiamo essere quelli vigili, quindi il pressappochismo nuoce a noi.
Un altro punto che prende le mosse dal contesto del bar di provincia è che in questo libro si rispecchia un Paese, o meglio, una parte consistente di esso. E questo è uno dei motivi del botto di vendite di un libro che, mentre le presenti righe vengono vergate, dovrebbe aver superato il tetto delle centomila copie. Una cifra assurda, soprattutto in un paese in cui se sfogli un quotidiano al mese sei considerato un lettore forte. O forse proprio per quello. L’obbrobrio di Vannacci vende una valanga di copie PROPRIO in un paese la cui popolazione con i libri ha perso il contatto. Leggere significa qualcosa per una parte troppo piccola della popolazione. Studiare, approfondire, farsi una cultura sono concetti distanti e fumosi nel migliore dei casi, ma troppo spesso anche ragione di disprezzo. Nel libro di Vannacci queste persone ci s’immedesimano e quindi lo comprano, perché non è solo il caso mediatico a portare il cash nelle tasche del generale. Un nucleo iniziale di acquirenti si procura il volume perché ne ha sentito parlare in TV con Crosetto che ha titillato quella mania di persecuzione orwelliana che dai tempi del COVID-19 va tanto di moda quant’è fuori luogo, ok, ma poi la ruota ha continuato a girare. E sì, in parte sarà pure per il marketing ma qualcuno il libro l’ha letto. E ci si è identificato. Ha trovato in quelle parole i propri pensieri, in quell’effetto megafono per stronzi che Umberto Eco attribuiva a internet, e a voler vedere il libro di Vannacci è per più di un verso figlio della rete. Di tutta la rete, così come di tutto il paese. Perché ur fascismo non vogliono dire solo quella cosa tanto lontana e tanto diversa da una sinistra borghese che ama pensarsi colta e forse illuminata. Vannacci esprime un senso comune trasversale di cui tutti possiamo cadere vittima, non già fascismo ma quel tipo di strada che da quelle parti porta. Una strada che quando la imbocchi non ci pensi, che vai a finire lì. Senza voler calcare la mano sul fatto che il fascismo storico è nato e cresciuto in seno alla sinistra, possiamo parlare del Movimento 5 Stelle che è storia recente. Prima della forma datagli da Conte per salvare il salvabile, il M5S era un partito profondamente ur fascista che berciava le verità del senso comune, che glorificava l’autenticità dell’ignoranza e della cultura fai da te incorporando nella propria voce cacofonica letteralmente di tutto. Era la voce del bar e sai cosa? Ha preso un sacco di voti da sinistra. Una sinistra delusa, il cui orizzonte politico e di senso frantumato non s’è mai ripreso dalla Bolognina, ma pur sempre sinistra. Quella sinistra che oggi rappresenta una classe sociale che sempre meno corrisponde al caro vecchio proletariato. A sinistra votano i borghesi o aspiranti tali che hanno studiato e la cui angoscia è vedere assottigliarsi il proprio benessere sociale e materiale. Gente che non ci si mischia mica, con l’operaio che si ferma alla partita la domenica. E un borghese, quando gli porti via quel poco di più che ha accumulato, o verosimilmente la generazione che lo ha preceduto, diventa cattivo, becero. Tira fuori i denti. Scatta l’istinto di difesa, che ragiona per verità assolute e logiche banali. Quando sei fascista ti sei già connotato, hai già fatto delle scelte precise che per certi versi ti pongono fuori dalla massa, ma l’ur fascismo è strisciante, e ci riguarda tutti. Nessuno è al sicuro, e per questo una vigilanza di alto livello, complessa, difficile, stancante e in competizione con soluzioni molto più facili è necessaria. Perché l’ur fascismo non è mica fascismo, e caderci non è impossibile per nessuno. Per questo tra le vendite di un libro e la cultura di un paese, che nel liquame complottista c’è immerso fino al naso, una correlazione c’è e non è per niente casuale. Se poi ci rendiamo conto che il senso del collasso imminente della società e delle sicurezze che essa ci garantisce è entrato a far parte dell’ordine delle nostre idee, la trasversalità della forma mentis di Vannacci è un rischio concreto quanto capillare. Il suo libro parla di noi, ci incuriosisce, per questo in molti lo vogliono leggere.
Un altro fatto per nulla casuale è che lo scandalo editoriale bomba che oscura tutto il resto sia un libro autoprodotto. Sì, ok, adesso ha trovato un editore ma il botto l’ha fatto come libro autopubblicato. Perché il self, piaccia o meno alla bolla editoriale, esiste e non può più essere ignorato. Anzi, per certi aspetti un possibile sbocco professionale per chi pratica la scrittura, parlando di sola scrittura e non di attività parallele quali corsi, copy o lavori da freelance in editoria, è proprio l’autoproduzione. Sì, ok, fra i libri autopubblicati c’è una percentuale altissima di materiale inverecondo ma, secondo la legge di Sturgeon, il novanta percento di tutto è spazzatura. Si trova roba buona fra gli autori self, ricordiamo Matteo Meschiari e Antonio Vena hanno prodotto Ravenna Exolution con il loro marchio, mica con un editore, e non sono gli unici. E mi rendo conto che ai puri e duri dell’editoria, così presi dal custodire un sapere che giustifica la loro esistenza al mondo proprio in virtù di una presupposta esclusività, tutto ciò possa causare un’estemporanea gastrite nervosa. Ora, non voglio ergermi a paladino del self, io stesso pubblico con editori e ho le mie ragioni per farlo, ma la scena culturale ufficiale e paludata italiana deve fare pace con l’idea che esiste un circuito parallelo di autori e di lettori che vanno avanti per conto proprio e, in più di un caso, offre migliori possibilità economiche. Certo, non sono tutti Vannacci che fanno i big money, ma un autore self competente nella promozione e capace di crearsi una community realizza guadagni e raggiunge un numero di lettori che l’autore medio della piccola editoria firmerebbe col sangue. Detto ciò si può far finta che tutto questo non esista e negare la realtà, o si può quantomeno prendere atto di come stanno le cose.
Ed è questo, forse, il filo conduttore di questo pezzo all’apparenza sconclusionato. Non allontanarsi sdegnati dal liquame che trabocca ma metterci le mani per capire il presente e per provare a leggere, se non nelle viscere quantomeno nel prodotto delle stesse, gli scenari possibili del futuro.
Stefano Tevini e l’Onorevole Beniamino Malacarne sono un reboot del classico Dottor Jekyll e Mister Hyde ma, invece di seguire il trend contemporaneo dell’inclusività, deviano dal canone nel fatto di essere ambedue dei fetenti. Nati entrambi nel 1981, uno è una specie di scrittore (romanzi, fumetti, articoli, quella roba lì), l’altro è un lottatore di wrestling. Tevini ti parlerà di fumetti, fantastico e simili, Malacarne di Wrestling (oltre a occuparsi della gestione operativa dei reclami e soprattutto di chi li esprime).