Post-it: I libri del Re (ma anche un podcast)

Boris Battaglia | post-it |

Che cosa posso dirti. Sono stato fortunato. Ho incontrato il Re nel momento giusto: esattamente quaranta anni fa. Mio padre è stato un suo lettore fin da subito, dall’uscita di Carrie per Sonzogno. Doveva essere il 1977. Non voglio millantare: allora avevo nove anni e le mie letture erano altre. Però nel 1983 di anni ne avevo quindici. Era dicembre, periodo natalizio, e la scuola era chiusa. I miei ovviamente, lavoravano e io e mio fratello ce ne stavamo a casa da soli. Ricordo che – sapendo dove mio padre li teneva (vagamente nascosti) – un pomeriggio mi ero messo a cercare i numeri di “Playman” su cui avevo scoperto che era appena stato pubblicato a puntate un fumetto porno di Milo Manara (era Il Gioco, pubblicato in sette puntate tra il gennaio e il settembre dell’83 sulla rivista di Adelina Tattilo – nota di Boris quello che, adulto, scrive le postfazioni alla Biblioteca Manara).
Mentre cerco, lo sguardo mi cade su un libro appoggiato sul tavolino davanti al divano. Probabilmente lettura in corso di mio padre. Le fauci di un molosso rabbioso mi minacciavano dalla copertina come fossero schiacciate contro il vetro di un finestrino appannato dall’alito stesso del cane e dalla condensa interna del veicolo. Quello che campeggiava, rosso sangue, come titolo era, con ogni evidenza il nome del cane: Cujo.
Apro e leggo la prima riga: C’era una volta…
Penso: cazzo!, con questa copertina ed è un libro di fiabe!
Vado avanti a leggere: «…ma non molto tempo fa, un mostro che arrivò a Castle Rock, nel Maine. Uccise una cameriera di nome Alma Frechette nel 1970; una donna di nome Pauline Toothaker e una studentessa delle medie superiori di nome Cheryl Moody nel 1971; una graziosa ragazza di nome Carol Dunbarger nel 1974; un’insegnante di nome Etta Ringgold nell’autunno del 1975; e un’alunna delle elementari di nome Mary Kate Hendrasen nell’inverno dello stesso anno.»
Va bene dico, sarà un licantropo o un vampiro, o una qualche roba del genere. E invece no, due righe sotto scopro che era un poliziotto e si chiamava Frank Dodd.
Vado avanti a leggere: e non smetto per due giorni, finché l’ho finito. Quando lo chiudo la mia infanzia è morta insieme a Tad Trenton. Per tutti i successivi quaranta anni della mia vita adulta non ho mai smesso di leggere Stephen King.
Lo ammetto, dai tempi di Dolores Claiborne (forse l’ultimo romanzo del King più grande) il mio fervore si è affievolito, fin quasi a spegnersi circa una decina di anni fa. Questo probabilmente anche per colpa dei traduttori: perdere un gigante come Tullio Dobner non è una roba da poco.

L’altro giorno è uscito il nuovo romanzo di King, Holly. Sto provando a leggerlo, all’inizio continuavo a fermarmi dopo una manciata di pagine. Senti un attimo l’incipt: «È una vecchia città, un po’ malridotta, come del resto il lago accanto al quale è stata edificata, ma ci sono delle parti che hanno ancora un aspetto piacevole. I residenti di lungo corso sarebbero probabilmente d’accordo nel sostenere che il quartiere migliore è Sugar Heights e che la strada più bella tra quelle che lo attraversano è Ridge Road, che descrive una dolce curva in discesa dal Bell College of Arts and Sciences al Deerfield Park, tre chilometri più in basso.» Te lo stai chiedendo anche tu dove cazzo è finito l’autore di Cujo?

Certo, ti tocca arrancare un po’ nella lettura di una prosa banale degna di un Faletti (sarà anche responsabilità della traduzione?), ma alla fine il romanzo ti prende.

A proposito: il nuovo traduttore ufficiale di King è Luca Briasco. Ha pubblicato per Salani un saggio su di lui, Il re di tutti. Mentre come me aspetti che Lisa Rogak aggiorni Haunted Heart, la sua biografia non autorizzata di King, e che qualche editore illuminato la traduca in italiano, leggiti il saggio di Briasco: al netto di alcuni suoi cedimenti autobiografici decisamente imbarazzanti (un capitolo intero dedicato a un parallelo tra King e il proprio padre!), il libello contiene almeno due intuizioni critiche (su Shining e su It) molto interessanti e degne di sviluppo.

Te l’ho già detto che l’unico dei sensi che ancora, nonostante l’acufene, mi regge è l’udito, vero? E forse ti ho anche detto che questo è il motivo per cui ascolto un sacco di podcast, soprattutto quando faccio i miei quotidiani esercizi fisici per restare vivo. Recentemente, attratto dall’argomento ho ascoltato Kinghiana, un podcast dedicato al Re e condotto da Jacopo Cirillo e Giulio D’Antona. Se quello che cerchi non sono intuizioni e analisi critiche, ma aneddoti noti e meno noti, se quello che cerchi non è rigore critico, ma chiacchierate estemporanee su titoli a caso (fino ad adesso, senza collegamenti logici si è parlato di Stagioni diverse, Misery, It e Holly), se quello che cerchi non è il tentativo di una sistemazione critica, ma lo snocciolamento di nerdate (gradevolissima è la rubrica: “la nerdata della puntata”) e la caccia agli Easter egg, è il podcast che fa per te. È divertente e i conduttori sono simpatici. Mi fanno scorrere via serenamente quei quaranta minuti di ginnastica della terza età cui mi sottopongo quasi quotidianamente.

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