Avevo da poco cominciato a buttare giù due appunti per il pezzo su Scirocco quando è arrivata la notizia. Al tempo stesso attesa e inaspettata, come a volte capita quando pensi a quegli artisti la cui vita è stata costellata da sfighe che li fanno definire «maledetti» e pensare destinati a una fine prematura.
Di Sinéad O’Connor e della sua esistenza dolorosa puoi leggere un fottio di cose. Spero non ti siano sfuggite le parole di Morrissey. Nel caso, recupera qui, non aggiungerò altro inchiostro virtuale con un mio necrologio. La morte dell’artista irlandese è di quelle che fanno male e dovrebbero indurre al silenzio, ma il tema del mese, lo sai, è «che vita di merda» e voglio scrivere qualcosa su di lei. Magari una mia personale playlist sentimentale.
Nothing Compares 2 U nei vari coccodrilli seguiti alla scomparsa l’avrai sentita mille volte. La voglia di non citarla era forte, per certi versi la fama planetaria che le ha portato è stata una maledizione, per la sua carriera e la sua esistenza. Comunque è un gran bel pezzo ed è la sua canzone più famosa, impossibile trascurarla…
Però non stravedo per le ballad strappalacrime oggi, né lo facevo trent’anni fa. Io, peraltro, Sinéad l’ho conosciuta e apprezzata con The Emperor’s New Clothes.
Occhio, all’epoca non so nulla (come tutti, del resto) del suo passato, degli abusi subiti, del suo essere una giovane mamma. I versi su come una gravidanza possa cambiarti o su tutti quelli che danno consigli su come vivere mi scivolano addosso. Colgo solo l’energia della musica, la sua voce decisa e diversa da quella vellutata in Nothing Compares. Avrei scoperto più tardi che con quella voce poteva cantare, letteralmente, tutto. Il pezzo è trascinante, le movenze frenetiche di Sinéad trasmettono una sensualità ipnotica e, più che gioia, una sete di gioia che oggi appare struggente.
Insomma, è a questo punto che mi compro il suo I Do Not Want What I Haven’t Got. E scopro Black Boys On Mopeds (che ti propongo live).
«Margaret Thatcher on TV
Shocked by the deaths that took place in Beijing
It seems strange that she should be offended
The same orders are given by her»
Un attacco frontale all’ipocrisia inglese, personificata dalla Thatcher che si dice sconvolta per i fatti di piazza Tiananmen ma usa le stesse politiche repressive.
«England’s not the mythical land of Madame George and roses
It’s the home of police who kill black boys on mopeds»
Trent’anni prima di Black Lives Matter Sinéad O’Connor mette i puntini sulle «i» in questo pezzo bellissimo. L’Inghilterra non è il paese delle favole, ma un posto segnato da abusi polizieschi e razzismo, dove la polizia uccide ragazzi neri sui motorini. Una terra da cui viene voglia di fuggire.
«And I love my boy and that’s why I’m leaving
I don’t want him to be aware that there’s any such thing as grieving»
Nella canzone sono intrecciate le vicende, distinte ma simili, di Colin Roach e Nicholas Bramble. L’accenno ai ragazzi neri uccisi sui motorini è maggiormente ritagliato su Bramble, inseguito e portato a un incidente mortale mentre fuggiva a un controllo (gli agenti pensavano stesse guidando un motorino rubato). Nell’artwork dell’album trovi invece la foto dei genitori di Roach, morto in circostanze sospette mentre era nelle mani della polizia. La didascalia della cantante irlandese è durissima: «Il posto di Dio è il mondo, ma il mondo non è il posto di Dio».
Torno alla mia personale storia con la discografia della O’Connor. È dopo essere stato affascinato dal suo secondo album che recupero il primo, The Lion and The Cobra. Un disco dalla proposta musicale variegata, in cui la sua voce spazia dal post-punk a intensità tenere e commoventi, in bilico fra dolcezza e rabbia come la sua vita.
Mandinka è forse il pezzo più noto dell’album, chitarre dure e voce vibrante, ritornello ossessivo. Ma io ti propongo una versione live di Jerusalem.
Attento, alla foto strappata di Papa Giovanni Paolo II e al vergognoso linciaggio morale seguente, culminato al concerto del Madison Square Garden del 16 ottobre 1992, arrivo dopo. Ora ti basti ricordare che il gesto contro il Papa era una protesta (meglio, un grido di dolore e di denuncia) contro i casi di pedofilia coperti dal Vaticano e sapere che, con quanto è emerso in seguito, strappare la foto di Wojtyla non era un’azione estrema, ma il minimo sindacale di una sana indignazione. Ci arrivo dopo, dicevo, perché a mio avviso i semi della fine di star planetaria Sinéad li pianta quando incide Am I not your girl.
Intendimi, il disco è raffinato, la sua voce è perfetta per lucidare brani struggenti come Gloomy Sunday o Success Has Made a Failure of Our Home e in I Want to be Loved by You la sensualità vocale rivaleggia con quella di Marilyn, che ha reso celebre il pezzo. Però ti confesso che nel 1992 anch’io resto perplesso. Certo, la storia del pop è piena di cantanti che a un certo punto della carriera fanno un disco di cover, ma la scelta dell’artista irlandese è, in quel momento, inconcepibile. All’apice di fama e successo, quando tutti si aspettano un’altra hit «ruffiana», una seconda Nothing Compares insomma, lei ti fa questa…
Il disco è un mezzo flop, indipendentemente dai fattacci dell’ottobre 1992, a cui ho accennato e su cui poi tornerò. E la discografia successiva continuerà a non ripetere i fasti dei primi due album.
Universal Mother esce nel 1994, quando l’onda lunga dell’odio di bigotti e reazionari sembra essersi fermata. È un gran bel disco, ma viene pressoché ignorato. Voglio ricordartelo con Fire on Babylon.
Passano sei anni e nel 2000 esce Faith and Courage. Superficialmente potresti pensare che l’onda d’odio abbia smaltito la propria forza. In realtà si è placata solo perché il suo effetto si è compiuto. La O’Connor ne è stata travolta e sepolta, ora è una cantante di nicchia, incapace di sfondare nel mainstream (cosa, forse, a cui non è nemmeno più interessata) e pure questo buon disco lo comprano gli affezionati. Io ne ricordo No man’s Woman. Donna di nessun uomo: titolo significativo, direi.
Di Sean-Nòs Nua (2002, contenente interpretazioni di brani tradizionali irlandesi) e Theology (2007, essenzialmente composto da riletture di salmi e versi biblici) non so cosa dirti, confesso di non conoscerli. In mezzo, nel 2005, pubblica un nuovo album di cover, stavolta reggae, Throw Down Your Arms, di cui ti segnalo Vampire.
Con gli ultimi due album, How About I Be Me (and You Be You)? e I’m Not Bossy, I’m the Boss (rispettivamente 2012 e 2014) Sinéad torna a un pop-rock più immediato e classico. I dischi suonano benissimo, gli anni passati non hanno scalfito la sua voce né le capacità interpretative. Mancano però pezzi davvero indimenticabili e fatico a trovare qualcosa da segnalarti. Alla fine, quasi per mania di completista, scelgo 4th and Vine. Sa un po’ di «mestiere», ma un mestiere ben fatto.
Delle sue tendenze autodistruttive, delle tragedie personali, della madre violenta e amata e odiata, delle sue scelte eccentriche in materia di fede (da suora non riconosciuta dal Vaticano alla conversione all’Islam) puoi leggere altrove. Anche a livello discografico la mia, l’ho ammesso all’inizio, è solo una playlist personale e con mille buchi. All’excursus sufficientemente completo sugli LP in studio mancano le numerose collaborazioni con altri artisti, per dire. Al limite aggiungo un consiglio per un doppio cd del 2003 dal titolo assurdamente lungo, frutto dei soliti accenni mistico/teologici. She Who Dwells in the Secret Place of the Most High Shall Abide Under the Shadow of the Almighty è un verso del Salmo 91. La scaletta è variegata, spazia fra inediti, rarità, altre cover e un live a Dublino del 2002. Sul tubo ne trovi anche tracce video. Eccoti una splendida versione di The Last Day Of Our Acquaintance.
Bene. Ora arrivo alla fine. Meglio, torno alle drammatiche scelte del 1992 a cui ti ho accennato e ti spiego pure il titolo di questo articolo.
A inizio ottobre di quell’anno, Sinéad è ospite del Saturday Night Live. Canta a cappella War di Bob Marley (ne inciderà una versione nel già citato Throw Down Your Arms). Alla fine, strappa la foto di Wojtyla urlando «Combatti il vero nemico!». Il gesto intende denunciare i casi di pedofilia coperti dal Vaticano, uno scandalo le cui dimensioni sarebbero emerse anni dopo, imbarazzando le gerarchie cattoliche ben oltre i confini irlandesi. Ma non serve fare la cosa giusta se non sai scegliere il momento opportuno. E precorrere i tempi è segno di genio, certo, ma NON è sinonimo di «aver colto il momento opportuno». Perché, semplicemente, Sinéad è troppo in anticipo. Se l’aver precorso i tempi del Black Lives Matter con Black Boys On Mopeds non le è costato nulla, al SNL incontra le volgari e feroci conseguenze dell’odioso detto popolare «Scherza coi fanti e lascia stare i santi». È qui che manda la sua carriera a rotoli. Dopo critiche feroci e sguaiate (c’è chi minaccia di prenderla a ceffoni, chi dice che persino gli abusi subiti in gioventù erano, nel suo caso, meritati) si arriva al 16 ottobre.
Al concerto per celebrare i trent’anni di carriera di Bob Dylan la cantante è introdotta così da Kris Kristofferson: «Il suo nome è diventato sinonimo di coraggio e integrità. Signore e signori, Sinéad O’Connor». Forse è una mia impressione ex-post, ma sembra che Kristofferson preveda il casino che sta per scoppiare e cerchi di smorzarlo, non solo con le parole ma pure con il tono e il proprio carisma. Purtroppo, non basterà.
Lei sale sul palco del Madison Square Garden sorridente e insolitamente elegante. Tailleur azzurro, persino i tacchi, pensa te. Dovrebbe cantare I Believe in You (di Dylan, chiaro). Se guardi il video integrale vedi il tastierista accennarne l’incipit. Ad onor del vero nei filmati reperibili in rete puoi sentire anche qualche applauso, ma i fischi e le urla di disapprovazione del pubblico sono assordanti, costanti, un tappeto sonoro che satura la scena. Impossibile cantare.
Kristofferson la raggiunge sul palco. «Non lasciare che quei bastardi ti abbattano», sussurra. È il secondo bel gesto della serata. Nemmeno questo basta.
Sinéad fa un cenno spazientito, poi chiede di alzarle il volume del microfono e quindi cosa combina? Improvvisa ancora War, a cappella come al SNL ma stavolta urlata con rabbia. Anzi, carica a briscola e ne modifica il testo aggiungendo un accenno esplicito alla Chiesa cattolica e ai suoi «child abuse». In un paio di passaggi resta quasi senza fiato, ma riesce a trovare, davvero non so dove, la forza di gridarla fino alla fine.
Terminata l’esibizione, si stacca dal microfono. Sembra impassibile e sfrontata, ma se guardi bene reprime già un singhiozzo. Non credo d’aver mai visto in un volto una bellezza tanto intensa e straziante.
Ora, mentre si allontana dalla scena, si concretizza il terzo bel gesto di Kris, quello del titolo. Un abbraccio tenero (la fredda facciata di Sinéad si scioglie in pianto, ma è quella tenerezza a impedirle di cadere in pezzi) e inutile (tanti anni dopo, ancora di più dopo la sua scomparsa, lo sappiamo).
Kris Kristofferson farà un quarto bel gesto, incidendo Sister Sinéad, brano acustico per «quella bambina coraggiosa dalla testa calva». Lo puoi ascoltare grazie al video qui sotto, montato sulle immagini del Garden. Ti lascio con quello, non ho altro da dire. Se vivrai momenti di merda, ti auguro di avere accanto un amico capace di abbracciarti come fece Kris con Sinéad. E di proteggerti, almeno per un attimo, dagli stronzi.
Vive una crisi di mezza età da quando era adolescente. Ora è giustificato. Ha letto un bel po’ di fumetti, meno di quanto sembra e meno di quanto vorrebbe. Ne ha pure scritti diversi, da Piazza Fontana a John Belushi passando per Carlo Giuliani (tutti per BeccoGiallo) e altri brevi, specie per il settimanale “La Lettura”. Dice sempre che scrive perché è l’unica cosa che sa fare decentemente. Gli altri pensano sia una battuta, ma lui è serio quando lo dice.