Non so se il Baracchino con vista sulla tangenziale è lo stesso in cui mi fermavo a chiudere certe notti esagerate, tra i pilastri del Ponte della Ghisolfa e di cui, se non ricordo male, ti ho già raccontato un’altra volta. Non lo so ma mi piace crederlo, anche se non ci ho mai visto nessuno berci il Martini all’anguria (all’inizio ho pensato che fosse un’invenzione letteraria di Marco, ma mi hanno spiegato che è un cocktail che esiste per davvero).
Quello che so per certo è che, anche se Einaudi l’ha pubblicato nei Supercoralli, L’ombra del vulcano di Marco Rossari non è un romanzo. È uno strano oggetto, molto più bello e indispensabile di qualsiasi romanzo, che contiene altri tre oggetti: un saggio, autobiografico e vibrante, sul mestiere di traduttore; il referto autoptico di una separazione inesorabile; una mappa evocativa, notturna e alcolica di Milano.
Nel pieno di una crisi esistenziale, causata dalla progressiva decostruzione dell’amore per la propria compagna, la cui figura è poi ricostruita febbrilmente in un sublime ideale (proprio come Beatrice per Dante), il traduttore professionista si trova alle prese con la traduzione delle traduzioni, quella del libro che lo ossessiona da sempre: Sotto il vulcano di Malcolm Lowry. Forse me l’ha raccontato proprio Marco, forse l’ho letto nel risvolto dell’edizione Feltrinelli, ma sembra che Lowry definì il proprio libro «una Divina Commedia ubriaca». Ed ecco che, mentre vaga per la selva oscura milanese (i cui luoghi, evocati più che descritti sono però, per noi che percorriamo spesso quelle stesse notti milanesi, perfettamente identificabili) il traduttore incontra in Piccolo Console – di tutti quelli che incontra, il mio personaggio preferito – il proprio Virgilio che lo conduce (lo traduce?) alla fine della notte. Non finirà a vedere l’alba (e come puoi veder l’alba dal Baracchino che sopra ha come tetto la tangenziale?), il libro si chiude anzi, con una luce che si spegne. Solo nel buio il traduttore può chiarire a se stesso, e soprattutto a me che mi sono divorato il libro in una sera, il senso – appunto – del tradurre.
Io per Milano ci vagabondo spesso come il Piccolo Console per trovare bar aperti, ma alle volte lo faccio per trovare edicole superstiti. Non me ne frega niente delle edicole in sé, non ho nostalgia per quei parallelepipedi puzzolenti di urina e strabordanti di carta straccia. È che quelli della Cosmo si ostinano a distribuire in edicola e allora, per quelle due tre cose che mi interessano, devo girarmi la città fino a trovarne una ancora aperta.
All’edicola della metropolitana di Loreto ho finalmente trovato e preso Erma Jaguar di Alex Varenne. Varenne appartiene a quella schiera di fumettisti francesi degli anni Settanta e Ottanta, come Schlingo, Voss, Montellier, Ceppi, Claeys che mi ossessionano da sempre, ma che in Italia non hanno mai avuto grande seguito. Questo giornaletto della Cosmo (non mi piace il formato Bonelli su Varenne) raccoglie i tre volumi delle avventure di Erma uscite tra il 1988 e il 1992. Erma è, forse – non ce n’è mai mostrata la certezza –, un’ermafrodita che percorre la notte, quella della périphérique parigina, a bordo della propria jaguar in uno stato febbrile (ha davvero la febbre e non sappiamo mai se quello che vive è un delirio o è la realtà), alla ricerca di un senso che nasce dalla progressiva decostruzione delle strutture narrative codificate sul sesso e sul genere.
A proposito di deambulazioni notturne, ti consiglio il podcast di Francesco Pacifico, La Notte. Si tratta di lunghe interviste a svariati personaggi, condotte dallo scrittore romano. In realtà, delle 18 puntate prodotte fino ad adesso, mi ha davvero interessato solo quella dedicata a Elisabetta Borrelli e al concetto di orientamento sessuale come orientamento politico (è la 8 e se vuoi andare ad ascoltartela, ti consiglio di farlo prima di leggere il fumetto di Varenne). Le altre le ho trovate prive di interesse. Però mi piace un sacco la voce di Pacifico, mi rilassa e mi traduce, con inusitata delicatezza, dalla veglia al sonno.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.