Post-it: Un imbecille per gli amici, un topolino francese e un trentenne che non mette la testa a posto

Paolo Interdonato | post-it |

«Perché sono divertenti i disegni di Charlie Schlingo?
O, meglio, perché io li trovo divertenti? E perché non sono il solo a trovarli divertenti? Le risposte possibili sono diverse.
Approfitto di questa opportunità per ragionare su ciò che è divertente e su ciò che non lo è; o su ciò che è divertente per uno e non per gli altri. Perché la grande arte è fare dei disegni poco divertenti al solo scopo di non divertire chi non è divertente e di divertire i piccoli divertenti che trovano divertente vedere chi non è divertente mentre non si diverte. Ed è questo che è divertente.
In altre parole, la grande arte è fare l’imbecille per divertire gli amici.
Sono vent’anni che facciamo gli imbecilli per divertire gli amici su “Hara-Kiri”, “Charlie Hebdo” e “Charlie Mensuel”. Non siamo stanchi, siamo veramente contenti quando vediamo arrivare dei giovanotti e delle giovanotte che vogliono sedersi alla nostra tavola e sghignazzare con noi. Purtroppo succede di rado. Fare l’imbecille è davvero difficile. Bisogna aver talento, ma bisogna anche lavorare duro, perfezionarsi, sudare sulla carta… Bisogna soprattutto essere sensibili e intelligenti. Un imbecille che fa l’imbecille non è mai divertente. Sempre, sempre, quello ce ci fa ridere è quello che ci tocca. Quello che l’autore, con modestia e talento, mette di se stesso, delle sue esperienze, dei suoi dolori, delle sue frustrazioni, della sua rabbia o della su tenerezza. Non si può far ridere se si ha il cuore secco, la testa vuota e gli occhi privi di curiosità.
Un disegnatore umoristico, come nessun altro artista, mette in ogni suo lavoro tutto quello che sa, tutto quello che ama e tutto quello che lo terrorizza. Ma non vuole che lo si sappia. Allora confonde la pista, cancella le tracce, si nasconde. Ecco cosa fa con lx falsa volgarità e l’astrazione, con le scorciatoie o le esagerazioni, con il parossismo o la parodia, con la falsa sincerità o l’aggressività: si nasconde.
Perché è lì per divertire e la sua ossessione è di non farsi prendere sul serio come i burattini che prende in giro.
Ecco Schlingo. le prefazioni sono come i regali: si offre agli altri quello che vorremmo ricevere. Ho detto di te quello che mi piacerebbe dicessero di me. Ma è difficile trovare dei buoni prefatori. All’improvviso, iniziano a prendersi sul serio…»

(Wolinski, 1979, prefazione a Gaspastion!, primo libro di Charlie Schlingo)

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Les Requins Marteaux è una piccola casa editrice con sede a Bordeaux. Un gruppo agguerrito di autori che si è coalizzato all’inizio degli anni Novanta, dopo che L’Association aveva mostrato una via alternativa all’idea di albo cartonato alla francese. Il gruppo ha messo da subito al centro della propria produzione l’umorismo e ha lanciato una rivista bellissima: “Ferraille illustré”, ventisette numeri, all’inizio venduti anche in edicola, tra il 1996 e il 2006. Poi è arrivato il premio al miglior libro ad Angouleme per Pinocchio di Winshluss, la breve corsa di quella rivista meravigliosa che si chiamava “Frankie (et Nicole)” e si alternava a “Nicole (et Frankie)” di Cornelius (e quest’ultima, senza più Frankie e con molto meno cazzeggio, continua a uscire annualmente) e un sacco di altri progetti.
Da qualche anno pubblica una collana di libricini porno che si chiama “BD Cul”: albi monografici che imitano, nel formato, nella foliazione, nella struttura del racconto e pure in alcune intuizioni grafiche, i tascabili del periodo del nero-porno italiano. Sui tascabili italiani abbiamo visto disegnatori bravi e meno bravi tirare la carretta, e gente come Leone Frollo, Sandro Angiolini, Milo Manara, Raoul Buzzelli, Magnus… Su “BD Cul” sono passati Aude Picault, Anouk Ricard, Morgan Navarro, Nine Antico, Guillaume Bouzard, Ugo Bienvenu, Florence Cestac, Willy Ohm, Bastien Vivès
Questa attenzione ai formati di Requins Marteaux è interessantissima. Un mercato, quando definisce uno standard, dà chiare indicazioni alla rete di vendita su come debba essere impostata la vetrina, l’espositore e pure la mensola. Un mondo costruito sui formati dominanti – la taglia dell’albo cartonato da 48 pagine a colori un po’ più grandi di un A4 o su quella del graphic novel (ma i francesi lo chiamano “Roman graphique” o “Roman BD”) 17×24 – male accoglie albi più piccoli che starebbero bene – per formato ma non per pubblico di riferimento – accanto ai manga.
Stupisce, allora, ancora di più l’apparizione di un albo che ha formato identico a quello del settimanale italiano “Topolino”.
“Ratiche poche” è una meraviglia piccola e sottile. Affiancato agli albi “BD Cul” racconta – da Bordeaux – un momento in cui l’edicola era un canale di vendita attraverso il quale conoscere un mondo variegato: dal pecoreccio al quadernetto per i bambini. L’unica cosa che manca è il prezzo popolare, perché, per quell’albetto, bisogna sborsare dieci euro.
Dietro una copertina che – fin da puntini della retinatura della colorazione e al numero stampato con un bel carattere bastone sul dorso – dichiara la propria pulsione pop, si sviluppa un albetto divertentissimo che finge d’essere un prodotto d’altri tempi. Tre storie, tre pagine autoconclusive un po’ di redazionali e giochi che compongono un unico racconto. I nomi degli autori sono nascosti nel colophon come poteva succedere in qualsiasi albo da edicola fino agli anni Ottanta, i personaggi sono numerosi e rotondi, quasi una cosmogonia istantanea disneyana che scatena meccanismi affettivi immediati. Un po’ come succede con i ritmi del fumetto giapponese, ma in una storia fantasy che, pur usando personaggi di impianto statunitense, non potrebbe essere più europea.
Il risultato è che, dopo aver chiuso quest’albo, ne vuoi ancora.

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Quando mi aggiro tra i banchetti di una self area, mi capita di trovare collettivi che producono riviste o antologie collettive. Spesso le compro. Poi, a casa, le sfoglio, le guardo, mi capita addirittura di leggerle. Sono poche quelle che, dopo essere state passate rapidamente da copertina a copertina, riescono a ottenere una seconda occhiata. Rarissime quelle che non finiscono nella sportina di «roba interessante che devi assolutamente guardare» che deposito tra le mani restie di qualche malcapitato (di solito Boris).
Tra le poche riviste che conservo c’è, da una trentina d’anni, la slovena “Stripburger”, Non ricordo con precisione quando ho visto il primo numero, se durante una “Nuvole a Cremona”, scortato per mano da Daniele Cauzzi che mi spiegava che dovevo leggere quella rivista, oppure, se durante un “Happeningg Underground” al Leonkavallo, in una traiettoria di Spain, Winston Smith e “World War 3 Illustrated”.
Negli anni ne ho presi diversi numeri.
La cosa che non mi piace delle riviste dei collettivi è la ricerca dell’armonia. Alla terza storia disegnata con quel tenue color pastello, mi chiedo perché lo sto facendo; dopo il terzo stile armonizzato da quella bicromia tra il seppia, il verdino smorto o l’azzurro chiaramente scazzato in stampa, il mio pensiero corre alla logica combinatoria che mi permette di accostare nomi di divinità assortite a specie quadrupedi di piccola e media taglia; quando vedo quell’insistere nella citazione del graffio d’inchiostro alla Dave McKean sento il tonfo di parti anatomiche che mi abbandonano per schiantarsi sul pavimento e rotolare altrove. E poi c’è il peggio: la miscellanea accogliente di fumetti prima scritti (male) e poi disegnati (peggio) all’insegna di un importante tema d’impegno civile. E lì mi schianto.
“Stripburger” è disarmonico. Affianca fumetti diversissimi, raccontati quasi sempre bene. Apre una finestra sul mondo e alterna autrici e autori che vale la pena guardare.
Sono stato al TCBF. C’era il banchetto della rivista. Esponeva diversi numeri del periodico (ne escono due l’anno da oltre trent’anni) e, soprattutto, un’antologia che si chiama Stripburger Dirty Thirty: Thirty Years of Making A Scene. Settanta fumettiste e fumettisti a stipare un libro bellissimo. Tra questi: Aleksandar Zograf, Stefano Zattera, Max Andersson, Rutu Modan, Igor Hofbauer, Jason, Anke Feuchtenberger, Danijel Žeželj, Pakito Bolino, Caroline Sury, Julie Doucet, e un sacco di altre e altri. E se trecento pagine di fumetti di questa gente ti paressero una ragione d’acquisto non sufficiente, ci sono anche i dodici insertini (bilingue) di parole che dicono un sacco di cose sul senso di quella cosa che mi piace chiamare fumetto:
«La vita è troppo breve per leggere brutti fumetti.»

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