Oratorio Don Bosco. Fine anni Ottanta. Sala giochi. Avevamo in tutto una moneta da 500 lire. Nei giorni più fortunati 1000 lire di carta. Eravamo in quattro fratelli e dovevamo farceli bastare: partite ai videogiochi arcade, caramelle gommose, un ghiacciolo. All’ingresso della sala giochi c’era un banchetto dove un ragazzo cambiava denaro nell’unico gettone utile per giocare agli arcade: le 100 lire, quelle con la dea Minerva, elmo in testa e lunga lancia in una mano, l’altra appoggiata a un ulivo triforcato. Ricordo che sui miei piccoli palmi quei cerchi di metallo erano dischi volanti ancora troppo grandi da stringere in un pugno.
Bubble Bobble era uno dei miei videogiochi preferiti. Delle volte bisognava fare la fila per giocarci. Io mi spazientivo e mi appollaiavo vicino a uno dei miei fratelli per vederlo vincere a flipper o a un videogame motoristico. Bubble Bobble, prodotto dalla giapponese Taito nel 1986, ha per protagonisti due draghetti, Bubby e Bobby, in missione per salvare le rispettive fidanzate Betty e Patty dalle grinfie del perfido Baron Von Bubbla. È stato proprio lui a trasformare i due protagonisti da baldi giovani in draghetti sputabolle. L’arma di attacco e difesa di questi simpatici personaggi sono proprio delle bolle. Appena compaiono i loro nemici si schiaccia a spron battuto uno dei pulsanti dell’arcade e il draghetto spara bolle dalla bocca. Uno a uno gli antagonisti vengono inglobati nelle sfere azzurre per poi scoppiare e trasformarsi in frutti, caramelle o altro da raccogliere per guadagnare punti.
Credo che ancora oggi, a distanza di più di trent’anni, ci giocherei eccome a Bubble Bobble. Un po’ perché la bambinetta di allora – che non vinceva una partita ma ammirava chi ci riusciva – è sopravvissuta; un po’ per un inestinguibile trasporto sentimentale per le bolle di sapone. Trasparenti eppure colorate, (quasi) perfettamente sferiche, leggerissime e meravigliose quanto fragili. Basta un niente che… puff! Spariscono. Nonostante nell’immaginario comune rappresentino qualcosa di effimero, inafferrabile, fugace e, tutto sommato, “un gioco da bambini”, le bolle di sapone appartengono di diritto alla storia della matematica, della fisica, dell’arte figurativa e architettonica, della letteratura e della filosofia.
Nella sua raccolta di motti, proverbi, modi di dire degli antichi – gli Adagiorum collectanea (1500) poi rieditati negli Adagiorum chiliades (1508), Erasmo Da Rotterdam cita il detto popolare «Homo bullo est», l’uomo è una bolla, ovvero la vita umana è flebile come una bolla che nasce e svanisce in un istante. Ma Homo bulla (Quis evadet?) è anche il titolo di quella che viene considerata una delle più celebri opere artistiche in cui compare una bolla di sapone. Homo Bulla o Allegoria della transitorietà (1594) è un’incisione su carta vergata dell’artista olandese Hendrick Goltzius. Il soggetto è un putto che soffia delle bolle di sapone, appoggiandosi comodamente a un teschio. “L’uomo è una bolla: chi può sfuggire?”: ancora una volta il senso di finitezza dell’esistenza pervade una rappresentazione che ha poco a che vedere con l’aspetto ludico delle bolle di sapone. Non a caso l’espressione sul volto del fanciullo sembra più sofferta che divertita…
Il motto dell’Homo bulla e del putto che soffia bolle di sapone diventa motivo ispiratore e seriale di parecchie opere iconografiche sul tema, dal XVI secolo fino alla prima metà del XVII. Dalle Fiandre, al centro Europa, le bolle di sapone entrano via via a far parte dei tropi artistici dal Rinascimento fino ai giorni nostri. Nondimeno a interessarsene saranno anche, come anticipato, fisici e matematici. Isaac Newton nel suo Opticks, or, a Treatise of the Reflections, Refractions, Inflections and Colours of Light del 1704 studia i colori riflessi sulle lamine saponate da cui si formano le bolle di sapone. Antoine Ferdinand Plateau con il suo Statistique expérimentale et théorique des liquides soumis aux seules forces moléculaires (1873) affronta diversi quesiti di fisica sulle lamine saponate e le bolle di sapone che ne derivano. Queste non sono altro che esempi concreti della sua teoria delle superfici minime, vale a dire quelle superfici che riducono al minimo indispensabile l’area coperta in proporzione a un qualche fenomeno o proprietà. Per esempio, le bolle di sapone rispondono alla teoria delle superfici minime poiché si configurano sempre come sfere (o in una forma tendenzialmente sferica).
Questo perché la forma sferica è quella che, a parità di volume, ha l’area più piccola di qualunque altra figura geometrica solide e quindi consente alle molecole di una bolla di risparmiare energia. Da un punto di vista fisico, infatti, una bolla di sapone è un cosiddetto sistema naturale. Caratteristica comune a tutti i sistemi naturali è quella di evitare sprechi, economizzando al massimo le energie disponibili. In parole semplici: un sistema naturale punta al minimo sforzo per ottenere il massimo risultato.
A proposito degli studi di Newton, nel 1827 l’architetto e pittore Pelagio Palagi dipinge Newton e la rifrazione della luce. La scena rappresenta Newton seduto a una scrivania probabilmente occupato dai suoi studi scientifici ma che per un attimo è distratto da un bimbo che gioca a fare bolle di sapone. Secondo la tradizione questo episodio sarebbe realmente accaduto e sancirebbe il momento in cui Newton avrebbe cominciato a ragionare sulla teoria della rifrazione della luce.
Nel frattempo le bolle di sapone continuano a volare nei cieli e nelle stanze della storia dell’arte, regalando dettagli stupefacenti alle opere pittoriche. Basti pensare alle Bolle di Sapone di Jean Simeon Chardin del 1733/34, a Bolle di Sapone di Edouard Manet (1867), a Soap Bubbles del pittore e illustratore britannico John Everett Millais (1829-1896), opera scelta dall’azienda di saponi Pears per il suo manifesto pubblicitario apparso nel Regno Unito intorno al 1880.
Arriviamo rapidamente ai giorni nostri con qualche applicazione tecnica delle caratteristiche intrinseche delle bolle di sapone. Per esempio l’architetto tedesco Otto Frei ha utilizzato ampiamente lamine saponate nei suoi modellini per simulare la struttura a rete che caratterizzerà la copertura dello Stadio Olimpico di Monaco di Baviera.
L’edificio della piscina olimpica di Pechino – la Water Cube costruita fra il 2003 e il 2008 – si ispira alle geometrie composite delle lamine saponate, esempio classico della teoria delle superfici minime di Plateau (quella del: dato un certo volume, l’elemento assumerà sempre la forma con la superficie minore).
A proposito di bolle, spazi e volumi: nel 2021 esce per CITIC Press Group il fumetto di uno dei maggiori scrittori cinesi di fantascienza, Liu Cixin: Science Fiction Comics: Round Soap Bubbles. Basato sul romanzo Le bolle di Yuanyuan dello stesso Cixin, racconta la storia della giovane Yuanyuan, innamorata delle bolle di sapone fin dall’infanzia, e di suo padre. Passano gli anni, l’adolescenza, l’università, un master, un dottorato e Yuanyuan continua a coltivare un sogno: creare bolle di sapone sempre più grandi e durature. Sarà però suo padre, nonostante le remore nei confronti di quello che ai suoi occhi è soltanto un capriccio, a trovare una soluzione al sogno della figlia ma anche al rischio di desertificazione e smantellamento della loro città. La storia narrata da Liu Cixin dice molto sul rapporto tra uomo e ambiente.
Del resto la questione ambientale, l’ecologia, il cambiamento climatico e la finitezza delle risorse energetiche tradizionali sono argomenti accolti dalla letteratura fantascientifica cinese sin dagli anni Cinquanta. La gestione tecnologica di ambiente e territorio ha sempre più spesso popolato i racconti di fantascienza cinesi. Se è vero che un’interrelazione tra fantascienza e ambiente è connaturata al genere Sci-Fi, focalizzato sulla relazione tra genere umano e non-umano, ciò vale specialmente per il mondo fantascientifico Made in RDC (Repubblica Democratica Cinese).
Il rapporto tra essere umano e ambiente/pianeta, lo sfruttamento delle risorse e le contromisure adottate per arginarne gli effetti, sono questioni che interessano e si intersecano all’immaginario fantascientifico sinico. Piogge artificiali, geoingegneria, terraformazione…: ecco alcune parole-ponte tra vita reale (cinese ma non solo) e fantascienza. Nel caso di Round Soap Bubbles tale convergenza emerge da problemi pratici e profondi della Cina contemporanea: scarsità di acqua da un lato e grandi progetti di ingegneria idraulica, dall’altro. Round Soap Bubbles offre una soluzione alternativa alla costruzione di gigantesche dighe e centrali elettriche per risolvere il problema della carenza idrica nella Cina Nord Occidentale. Le bolle giganti rappresentano un ritrovato dell’alta tecnologia che, in questo caso, cattura l’umidità per poi rilasciarla sotto forma di pioggia nelle aree più bisognose.
Nessun mega progetto di ingegneria idraulica devastante per l’ambiente, nessuna migrazione umana su vasta scala, nessun incremento dell’inquinamento atmosferico o costi stellari per i contribuenti. Tuttavia tecnologie “buone”, prive di effetti collaterali, non esistono e quello che Liu Cixin non ci racconta è il lato oscuro di una tecnologia, per quanto fantascientifica e romantica, come quella delle bolle. Qual sarà il loro impatto ambientale nella Cina Nord Occidentale? Flora e fauna locali ne risentiranno? Le bolle spioveranno anche inquinamento una volta esplose?
«Le bolle di sapone che questo bambino
Fantasie di interludio – Antologia personale, Fernando Pessoa, Passigli Editori, 2020.
si diverte a soffiare da una cannuccia
sono traslucidamente tutta una filosofia.
Chiare, inutili e passeggere come la Natura,
amiche degli occhi come le cose,
sono quello che sono
con una precisione rotonda e aerea,
e nessuno, nemmeno il bambino che le libera
pretende che siano di più̀ di quanto sembrano essere.
Alcune si vedono a stento nell’aria tersa.
Sono come la brezza che passa quasi senza toccare i fiori
e soltanto sappiamo che passa
perché́ qualcosa si alleggerisce in noi
e accetta tutto più̀ nitidamente.»
Nessuno pretende che le bolle di sapone siano più di ciò che sono. Ma qualcuno si è chiesto se lo fossero, qualcosa di più. Ed è grazie a quel “di più” che forse, ormai da qualche secolo, possiamo accettare “tutto più nitidamente”.