Domenica: Sono capaci tutti di farlo una volta. Ma per dimostrare di essere in balia di un vero disturbo ossessivo compulsivo devi riprovarci, ancora e ancora e ancora e ancora…
Documentare le piccole cose da niente che ti succedono ogni giorno, in forma di post-it, pare proprio un’operazione da dama vittoriana che custodisce i segreti del proprio cuore in un diario intimo. Di solito, quando quello scrigno viene dischiuso, senti il boato di #sticazzi che riverbera nell’aria per ore. Ma non stare tanto a sottilizzare, hai letto tutti graphic memoir di noiosoni che ti hanno raccontato i dilemmi amorosi, i dubbi genitoriali, i dolori della crescita, la durezza e la competitività del mondo del lavoro, la sofferenza della malattia… puoi ascoltare un po’ anche i miei sfoghi. Mica quei fumetti autobiografici, spesso raccontati male, avevano tutti la frenesia vitale e la carica narrativa del Giornalino di Gian Burrasca!
Comunque l’idea è tracciare una cosa per cui sia valsa la pena di sopravvivere a un’altra giornata. Uno dei 1000 buoni motivi per stare al mondo. In questo modo, magari, ne derivi un qualche consiglio di lettura, ascolto, visione, gioco, cena, sbronza…
Per esempio, se ti assale un attacco di invidia per chi fa l’amore, puoi sopperire col cibo adatto. Non so dove stai, ma dalle mie parti, all’inizio di via Porpora a Milano (accanto a piazzale Loreto), c’è il ristorante ideale per lenire questi dolori. Si chiama “Mao” e prepara piatti ottimi e piccantissimi. Scodelle di fuoco, tofu spaziale, piatti con melenzane che obnubilano… Mangi queste prelibatezze, perdendo progressivamente gusto e olfatto, sotto lo sguardo bonario di un Mao Tse-tung inrossettato dipinto sulla parete.
(Piatti abbondanti. Non esagerare mentre ordini. Meglio se prenoti.)
Lunedì: Un tipo che scrive male di fumetti sul suo profilo Facebook e su un sito di critica si è riconosciuto nel personaggio che, la settimana scorsa, ho usato per una delle mie consuete tirate moraliste. Ha scritto un commento adirato, dandomi sostanzialmente dello stronzo (bella novità, dimmi qualcosa che non so!), e mi ha bloccato su Facebook (che pare essere l’affronto ultimo da muovere verso l’umanità). Poco male, mi sono detto, probabilmente non sapeva di scrivere male; speriamo che nessuno gli vada mai a raccontare quello che abbiamo capito di Babbo Natale e della fatina dei denti (e tu non fare quella faccia stupita!).
In serata il cellulare ha iniziato a infittirsi di strani messaggi. Gente che conosco mi chiedeva se un post su Facebook, che non potevo vedere, parlava di me. Quando ho chiesto spiegazioni mi hanno inoltrato il messaggio incriminato che dice della ferocia della critica italiana. Era di quel tipo ed era scritto molto male, come ci si sarebbe potuto aspettare: abbiamo capito da tempo che non è vero che la consapevolezza, quella roba che Freud chiamava insight, coincide con la guarigione.
Confesso che sono stato tentato di scrivere il “vaffanculo” più lungo e articolato dai tempi della seconda parte del Chisciotte. Poi mi sono detto che era troppo faticoso e ho ricominciato a fare il sudoku. Mentre ero sul punto di scrivere un numero a caso per sbloccare una situazione in stallo da troppo tempo (lo fai anche ti, eh… per forza poi non ti viene), mi sono accorto che c’era una frase di quel post che mi dava veramente fastidio (no, Claudio, non è quando dice che sono un intellettuale di sinistra, e neanche quando dice che sono dalla parte delle minoranze). Dice: «Il mio post era opinabile? Certo, senza nessuna ombra di dubbio, ma potrei dire lo stesso del suo, ma non lo farò perché mi abbasserei al suo modo di essere.»
Capisco che, neanche per un istante, ha ipotizzato che stessi criticando una recensione (e un modo dannoso di recensire). Pensa di essere una vittima collaterale colpita per noncuranza e ferocia mentre miravo un fumetto, un’opera, un oggetto nobile sul cui valore estetico ci si deve pronunciare.
Addirittura afferma che non risponde, per non abbassarsi al mio modo di essere. Credo intenda “stronzo”.
Centrato. Il tema è esattamente questo (non il fatto che sono stronzo, non sghignazzare).
Chi recensisce, quando lo fa per essere uno strumento di orientamento commerciale, è una funzione delle merci: un pezzo di mercato (lo so, fino a quando non abbiamo scavallato la metà dell’ultima parola, hai tremato).
Quella roba non è critica. È marketing. E sono d’accordo con Bill Hicks.
Martedì: Da qualche mese, Editoriale Cosmo porta in edicola “Lo Sconosciuto” di Magnus in un’edizione che riproduce quella pubblicata nel 1975 dalle Edizioni del Vascello di Renzo Barbieri. È un prodotto molto ben fatto. Dentro c’è il fumetto di Magnus (che è – non c’è bisogno di dirlo – un capolavoro) nel formato per il quale l’autore lo ha pensato. A corredo del fumetto ci sono ottimi redazionali di Davide Barzi che forniscono contesto e informazioni. Tutta roba buona che mi ha illuminato di speranza quando ho letto che, a quell’edizione ideale, ne sarebbero seguite altre, altrettanto importanti.
Entrando in edicola capisco di essermi illuso.
Dall’espositore si affaccia, in formato tascabile, il primo numero di “Zora la vampira”. Edizione identica all’originale, materiali ottimamente digitalizzati e riprodotti; redazionali interessanti… Mi pare evidente che il secondo principio della termodinamica terrorizza solo me. Che inaudito spreco di risorse! “Zora” (con quel titolo pecoreccio che, dopo la sagacia di “Jacula”, deve aver fatto molto ridere Barbieri quando lo ha pensato) non ha alcun merito: era brutto già ai tempi della prima uscita e non meritava di essere salvato dall’oblio. Se non fosse per i redazionali di Barzi, non ne scriverei nemmeno. La presenza di quei testi, così attenti a ricostruire il contesto della prima uscita, mi pone una questione fastidiosa.
Ho la sensazione che le pubblicazioni da edicola di Cosmo vendano un numero di copie bassissimo. No, non quello che hai in mente tu: un numero molto, ma molto più basso. Se, davvero, quelle testate vendessero nella rete delle edicole nazionali (che sono una dozzina di migliaia) meno di mille copie, ne dedurrei che quelle pubblicazioni non stanno lì per sfruttare una giustificatissima opportunità commerciale. Potrei pensare che siano lì quasi unicamente perché l’editore è convinto di agire un’operazione con valore culturale, un recupero del patrimonio del fumetto italiano.
Uh! Zora?
Fosse così, se una persona, una Guia Soncini qualsiasi, per dire, scrivesse «Luccacomics è una fiera dei fumetti, cioè una fiera dove vanno gli adulti troppo fessi per leggere pubblicazioni non illustrate», avrei delle difficoltà a darle torto.
Devo parlarne con Boris.
Mercoledì: L’eredità più pesante lasciatami dalla lunga clausura che ci è stata imposta dalla pandemia è stata una trasformazione del modo in cui muovo il mio corpo nello spazio. Non più di tre anni fa, avevo una routine quotidiana che mi costringeva a spostamenti e interazioni. Una cosa semplice: prendevo i mezzi e andavo in ufficio. Significa andare al bar, chiacchierare con i colleghi alla macchinetta del caffè, infilarsi da qualche parte per pranzare, guardare la gente per strada, bere un bicchiere dopo l’ufficio, fermarsi in un negozio prima di tornare a casa…
Il confinamento e lo smart working hanno rarefatto i contatti umani. Anche adesso che non ho più decreti che possano giustificare la indolenza e misantropia, continuo a lavorare da casa troppo spesso e non ho più alcuna remora a fare acquisti online. Il suono del citofono che annuncia l’arrivo del corriere – che è un tipo che ha pochissima voglia di interagire con me – è uno dei momenti più lieti della mia giornata.
C’è una differenza con i tempi bui del lockdown. Almeno un paio di giorni alla settimana, vado in ufficio. Poi, dopo una serie di riunioni fatte comunque in videoconferenza, cerco di recuperare una parvenza di regolarità. Entro nei negozi che frequento da oltre trent’anni.
Alla “Borsa del Fumetto” mi chiamano per nome. È finito il tempo in cui lasciavo in quel negozio una percentuale così alta del mio stipendio da essere trattato come l’azionista di maggioranza, ma continuo a essere un ottimo cliente. Non è mai successo che uscissi a mani vuote.
Mi aggiro tra gli scaffali e mi accorgo che, nonostante l’ondata di novità proveniente dalla kermesse lucchese, ho già tutto quello che volevo. So che uscire da quel locale senza acquistare nulla mi lascerà insoddisfatto e, allora, mi incaponisco. Faccio una cosa che non mi piace. Mi avvicino alle scatole in cui sono infilati gli albi e inizio a farli scorrere tra le dita. Non mi attira niente. Dannazione!
Alla fine trovo una pigna di vecchi numeri di “Totem comic” gualciti e tenuti male. Costano davvero poco. Ne afferro una decina e li porto alla cassa.
Quella rivista, impossibile da collezionare, era un fritto misto, costruita facendo scarpetta nella storia di alcune testate francesi. Quando usciva, negli anni Novanta dello scorso millennio, non la degnavo di un’occhiata. Ora so di aver sbagliato e vorrei averne scatoloni pieni, per sfogliare e ridere.
In questi pochi numeri che allietano la mia serata trovo: un sacco di Edika, la gioia di Gotlib, Boogey el oleoso di Fontanarrosa, Sergio Aragonés, Carlos Giménez (compresa la sola edizione italiana di alcuni episodi di Paracuellos), Wolinski e Pichard con l’ultima parte di Paulette (quella che fino a quel momento era stata pubblicata parzialmente in volume da L’isola Trovata di Luigi Bernardi, ma non ancora da “Linus”),storie brevissime di Baru, Lauzier con i racconti brasiliani e con Al Crane disegnato da Alexis, Martinez el facha di Kim, …
Meno della metà delle pagine di ciascun numero merita la salvezza, ma là in mezzo ci sono dei fumetti bellissimi, spesso nella loro unica edizione italiana. Se esistesse una collezione completa di quella rivista, meriterebbe di essere sfogliata, studiata nella sua schizofrenia, e capita.
Giovedì: Canto a squarciagola.
Venerdì: Mentre faccio colazione, mi piace accoccolarmi in uno spazio in cui la tecnologia non ha bisogno di aggiornamenti, non ti profila, non ti propone cose che potrebbero piacerti, non ti assale con annunci pubblicitari.
Preparo il caffè con una moka rossa, scaldo il latte nel pentolino, mi avvicino i biscotti.
Metto un disco nel lettore e prendo un libro. Sorseggio il caffè, sgranocchio biscotti, ascolto e sfoglio, mentre aspetto che Carlotta si svegli lentamente e mi raggiunga in cucina. Di solito funziona. Qualche volta devo andare a stanarla tra le coperte e convincerla ad alzarsi per andare a scuola.
Stamattina nel lettore c’è una raccolta di successi di Benny Moré e davanti ai miei occhi un libro bellissimo: Corpus di MP5, appena edito da Rizzoli Lizard.
Lo sfoglio, mi fermo di fronte al candore abbacinante dei bianchi, mi perdo seguendo linee nere precisissime. MP5 è un rasoio: i suoi segni nettissimi delineano figure che mi si infiggono tra l’aorta e l’intenzione. Guardo le immagini raccolte nelle tre sezioni di cui si compone il volume: il corpus della sua opera è anche – e soprattutto – corpo e può essere erotico, ermetico ed eretico. Alle riproduzioni dei disegni si alternano foto di edifici su cui MP5 ha dipinto figure enormi e precise in ambienti in cui si muovono umani.
Cerco di ricondurre ogni figura alla sezione di riferimento, ma mi accorgo che, come tutte le strutture dei generi, anche questa è impossibile da catturare con precisione. Attrattori strani che scatenano il caos nella classificazione. Ciascuna immagine rappresenta corpi che, al contempo e in diversa misura, sono erotici, ermetici ed eretici.
Lo scalpiccio dei passi seienni che si avvicinano alla cucina mi riconduce ai miei doveri: bisogna prepararsi per essere al cancello della scuola elementare entro la campana delle 8:30. Carlotta sfoglia libri illustrati e fumetti da sempre. Riesce ad alternare ET, Me contro te, Inuyasha e i Dinsieme senza applicare filtri; ama le streghette e i kaiju; i lupi nei muri e i mostri selvaggi la scortano da anni; frequenta yokai, vampiri e fantasmi.
Mentre sono intento a recuperare i suoi biscotti preferiti, sento il primo singhiozzo. Mi giro di scatto e la vedo spaventata davanti a uno dei volti bianchi di MP5: «Mettilo via! Mi fa paura.», dice tra i singulti.
Getto un’occhiata a quel volto vigile di profilo, dalla cui bocca aperta escono delle falene di quella specie che compare anche sulla locandina del Silenzio degli innocenti. Chiudo il libro e lo allontano. Abbraccio Carlotta, le soffio il naso e le asciugo le lacrime facendo lo scemo. Inizia a ridere e subito si tranquillizza. Il resto della routine mattutina scorre sereno, senza intoppi.
Quello spavento è la migliore recensione che si possa fare ai disegni di MP5: ti entrano dentro e ti scuotono in un modo irrazionale, difficile da capire.
Sabato: Titti Demi, oscillando tra New Journalism e Kapuściński, da qualche tempo sta vivendo tra i procioni. Ci ha inviato un dispaccio da quella esperienza: una scoperta straordinaria, che forse rivoluzionerà il modo in cui intendiamo il sapere e la critica. Un’edizione pirata di QUASI è la pubblicazione più letta presso quella minoranza. Ha anche un sottotitolo diverso.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).