Paolo: Secondo te si può essere d’accordo con un concentrato di banalità, emulazione e stupidaggine?
Boris: Mmh, diciamo che alle volte un simile cocktail lo si può trovare divertente… seguo qualche vecchio bamba su Facebook che mi diverte molto in questo senso. Poi, essendo un concentrato, magari c’è anche qualche singolo elemento non dico di intelligenza, ma almeno di lucidità con cui trovarsi d’accordo. È raro però accade. Ma a cosa ti riferisci nello specifico?
P: Hai presente Guia Soncini? È una giornalista che scrive di tutto, cercando un’arguzia che vorrebbe guardare a una tradizione che attraversa Pannunzio, Longanesi, perfino Massimo Fini, ma riesce solo a sembrare Marco Travaglio con uno pseudonimo.
B: Lo so chi è, pirla didascalico! Ho pure letto un suo libro tempo fa. Una roba intitolata L’era della suscettibilità in cui, credendosi una Caroline Fourest e facendo il verso a Robert Hughes, ma senza arrivare neanche ad allacciare le scarpe né dell’una né dell’altro, infilava uno in culo all’altro una serie di esempi banali e sbagliati per dimostrare che siamo diventati una specie di frignoni che si offendono per tutto.
Tra l’altro, secondo me, scrive proprio male. Ha una prosa da liceale.
P: Però è un po’ colpa tua. Mi hai parlato dell’articolo del minus habens che si è messo a concionare contro Zerocalcare e Fumettibrutti e in rete le cazzate di “Repubblica” svaniscono dopo poche ore, a meno di non versare un obolo. Invece Soncini a “Repubblica” non la vogliono e ha un blog su “Linkiesta”. E l’ho trovata facilmente. Parlava pure lei di Zerocalcare e Luccacoimics. Una sfilza di cazzate per mettersi a pari con Merlo. Però…
B: Altro che cazzate… pure una bella dose di transfobia ci ha infilato in quel pezzo. Però?
P: Però… Aspetta che lo cerco. Ecco, leggi:
«Luccacomics è una fiera dei fumetti, cioè una fiera dove vanno gli adulti troppo fessi per leggere pubblicazioni non illustrate. Sposta un sacco di soldi, giacché tra un po’ persino le pubblicazioni illustrate saranno considerate troppo sofisticate dall’unica vera ideologia del secolo, la pigrizia intellettuale. Sposta un sacco di soldi, ma è pur sempre una fiera.»
B: Ah! Intendevi questo quando parlavi del trovarsi d’accordo con una cazzata. Eh, io credo che lei abbia scritto quelle righe solo per sottolineare il proprio disprezzo idealistico-novecentesco per ciò che non è parola, ma facendolo ha colto un paradosso che è evidente anche a noi ogni volta che ci confrontiamo con la gente che ama e legge i fumetti. Guardare i fumetti è una delle cose più complesse e che richiede più competenze di ogni altra fruizione di prodotti narrativi, eppure la maggior parte della gente che li legge e che ne parla ha evidenti limiti cognitivi. Non possiamo chiedere a un residuato novecentesco come la Guja che ha colto involontariamente questo paradosso di spiegarcelo, ma effettivamente è una cosa che andrebbe indagata.
P: Non lo so se la maggior parte della gente che li legge e che ne parla ha evidenti limiti cognitivi. Trovo una differenza enorme tra quello che ci trovano le persone con cui parlo la sera a cena, per caso, in modo a volte fortuito e sempre molto informale e quello che ci leggono quelli che si sentono “Comunità del fumetto”.
Mi sembra che il problema sia che questa presunta comunità chiami fumetto troppa roba.
B: Spiegati.
P: A me pare che il problema principale sia la separazione dei mestieri. Quella roba operata a fini industriali ha prodotto pochi fumetti bellissimi che sono, quasi sempre, opera di disegnatori angheriati da sceneggiatori stronzi e una montagna di robetta dimenticabile.
Estremizzo, lo so, ma vorrei affermare con grande sfacciataggine che, se non disegni, non sei un fumettista. Ribaltando Tiziano Sclavi: gli sceneggiatori non è gente.
B: Mmh, Sclavi citava Goscinny, ma mi vuoi dire che Goscinny non era un fumettista? E mentre lo dico mi viene in mente che Goscinny aveva cominciato proprio come disegnatore… Cazzo!
P: Se una cosa che può essere disegnata viene detta, allora non è fumetto.
Sono convinto che ci sono un sacco di lettori che guardano sommariamente la pagina (per riconoscere chi parla) e poi leggono una storia di parole.
Ecco… Quelli, se costruiscono la loro dieta di letture prevalentemente con il fumetto, sono il male.
B: D’accordo, ti piacciono le iperboli e stai esagerando apposta. Quei lettori più che il male sono coloro per i quali il fumetto ha questa fama di lettura per gli stupidi. Fama, intendiamoci, a cui io sono molto affezionato, ma questa è un’altra storia. Quelli è gente che legge con gusto quattro tavole in cui Tex o Zagor o chi per essi, parlando con un chiunquealtro in campo e contro campo, gli riracconta tutto quello che hanno appena letto/guardato con balloon enormi, pieni di parole che soverchiano i disegni rendendoli utili, come dici, solo a distinguere chi parla in quel profluvio di parole.
Però quando dici che, se una cosa che può essere disegnata viene detta, allora non è fumetto, qui non sono d’accordo. Ritengo che il fumetto c’è quando qualsiasi cosa che può essere detta viene disegnata. Perché una sedia disegnata cambia completamente di statuto ontologico rispetto a una sedia che è stata detta. Sospetto che sia in questo punto che va in tilt la percezione del tipo di lettore abituale di fumetti. Non si rende conto che una cosa disegnata non ha l’ambiguità dicotomica di una detta e che non può invocare innocenza: in realtà è il fumetto il male!
P: Non so se ho capito. Gli è che sfoderi ‘sto statuto ontologico di stocazzo come se volessi interrompere il discorso.
Adesso lo ridici con parole così semplici che le possa capire un Interdonato! Voglio sapere se ti devo sfanculare o se sono d’accordo.
B: Ci provo. C’è fumetto quando qualsiasi cosa che può essere detta viene disegnata. Voglio dire: il cavallo di Tex può essere detto, anzi, nella sceneggiatura è sempre detto, e quando viene detto resta in sospeso tra il segno che lo dice e l’oggetto che è detto. Tra la parola che dice “il cavalo di Tex” e il cavallo di Tex, ci stanno tutti i possibili cavalli che quel segno può dire. Ma quando viene disegnato, questa ambiguità sparisce. Quello disegnato è solo il cavallo di Tex e non può essere altro. Esiste come cavallo di Tex, assolutamente slegato dalla parola e dalal cosa reale che lo designano. In sovrapprezzo, è un oggetto esistente ma non è necessariamente reale, anzi è slegato da ogni referente con il mondo reale. Non so se sono stato chiaro, non credo, ma questo secondo me è il paradosso su cui funziona il fumetto. Un paradosso che mette in crisi i lettori medi e le gujesoncini, che non riescono a capacitarsi di come una cosa che esiste possa non essere reale. Invece di goderselo, cercano una soluzione a questo paradosso ritornando alle parole.
P: Se ho capito bene, secondo te il fumetto è un modo per porre fine a quella versione del paradosso di Zenone che dopo Peirce chiamiamo “Semiosi illimitata”. Tu dici una parola (un significante) e io ho un’idea associata a quella parola (un significato) diversa dalla tua e da quella di tutte le altre persone che l’hanno sentita. Il disegno del cavallo di Tex, che nella realtà materica che pesto con le scarpe è esistito sempre e solo nelle pagine di “Tex”, è contemporaneamente la rappresentazione della realtà e la realtà: proprio lui, il cavallo di Tex.
Non mi convince e mi hai trascinato in un discorso che è lontanissimo dal mio attuale cruccio. Se ti rispondo che, secondo me, il mio cavallo di Tex e il tuo sono due cavalli diversi, ci mettiamo a intrecciare uno strano anello per l’eternità su Trottalemme, Jolly Jumper e sulla “Cavallitudine”.
Io adesso volevo dirti del fatto che ho scoperto che, dopo “Lo Sconosciuto”, Editoriale Cosmo ha portato in edicola “Zora la vampira”. Nella stessa collana. Come se fossero due cose affiancabili.
B: Capisco il tuo cruccio. Non sono affiancabili, ma non per una questione… stavo per dire ontologica, ma poi ti incazzi! Riformulo …ma non perché hanno una diversa natura: sia Lo Sconosciuto che Zora sono evidentemente fumetti. Quello che li rende inaffiancabili, non tanto in edicola, quanto suoi nostri scaffali, è una questione estetica. I miserabili e una qualsiasi scoreggia di Fabio Volo sono romanzi, ma mica sono la stessa cosa. Lo Sconosciuto è bellezza, Zora è merda.
P: Vero se intendiamo fumetto come classe merceologica. È fumetto tutto ciò che viene prodotto, commercializzato e consumato come fumetto. Ed è questo il motivo per cui, a un certo punto, è entrata in vigore la locuzione “graphic novel”. Per avere una categoria merceologica differente che permettesse di distinguere prodotti di cui non vergognarsi da Zora. Poi è andata come è andata e la stragrande maggioranza dei graphic novel aveva lo stesso odore di Zora.
Ma, se nella ricerca della natura della bestia, smettessimo di guardare il mercato e ci concentrassimo su altro, se cercassimo di capire cosa tiene insieme cose lontanissime che a volte non sono neanche esposte nella stessa area del negozio, se capissimo cosa tiene vicini Lo Sconosciuto di Magnus, Monsieur Lambert di Sempé, I frustrati di Claire Bretécher, Where the Wild Things Are di Maurice Sendak e Suicide total di Julie Doucet, ecco, forse capiremmo che non è solo una questione estetica. Forse toccheremmo quel fottuto nucleo di ontologia che vai cercando.
B: La merceologia è una disciplina seria. Non credo proprio che gli espertoni di marketing delle case editrici (una volta li chiamavamo addetti alle vendite ed era tutto più chiaro… dio! Sto facendo il boomer come quei vecchi rimba che mi divertono su Facebook) ne abbiano mai aperto un manuale. Graphic novel non è una categoria merceologica: se ti studi l’elenco nella sottosezione “Editoria” alla Camera di Commercio, non c’è nemmeno “fumetto”, nemmeno “romanzo”, c’è solo “libro”, “giornale” e “periodico”. Graphic novel, al limite, è uno slogan che si sono inventati per vendere il fumetto a quelle e a quelli che leggono i romanzi.
Dici che il cavallo di Tex che vedi tu e quello che vedo io, anche se disegnato… metti da Ticci, potrebbero essere due cose diverse, avere natura diversa, però poi vuoi cercare cosa accomuna la natura dello Sconosciuto a quella dei Mostri di Sendak allontanandoli entrambi da quella di Zora. Questa cosa per me è carica di pericolo, perché, se scartiamo l’opzione ontologica che non ci lascerebbe scampo e ci obbligherebbe a includere nel gruppo anche Zora, non abbiamo che una via. Per definire questa comunanza escludente non possiamo che metterci a usare categorie fenomenologiche di carattere husserliano, categorie basate cioè sulla nostra esperienza intuiva. Ok, così sfanculiamo il mercato, però ci ritroveremmo di nuovo in un campo estetico. Non vedo soluzione.
P: Dannazione! Tocca di oscillare tra le definizioni alla Scott McCloud e la stesura di odiosi canoni del fumetto. Non mi piace. Alla fine, per fare critica di quella roba bisogna essere necessariamente feroci e intransigenti.
La critica è un mestiere da antipatici. Ecco perché ti viene così bene.
B: Guarda che è lo stesso motivo per cui viene benissimo anche a te. Tocca farcene una ragione.