«Facciamo scarpetta!» potrebbe essere proprio ciò che ha pensato Roger Waters quando ha deciso di registrare una sua personale versione di Dark Side Of The Moon. Potrebbe sembrare, intendo, perché uno può immaginare il buon Roger dire fra sé: «quel disco mi ha dato da mangiare per lustri, ma c’è ancora qualcosa nel piatto: perché buttarlo?».
Potrebbe sembrare, appunto, ma non è. Che a crederlo si fa un torto prima a un artista non così interessato alla vil moneta, e poi a un progetto che, ascoltato (ascoltalo!), piaccia o meno è tutto fuorché una marchetta alimentare. Perché Dark Side Of The Moon Redux è un disco complesso, incasinato, noioso e bellissimo, inutile e prezioso.
Insomma, Roger la scarpetta l’ha fatta, ma non era sua intenzione.
Del Dark Side originale ti ho già parlato, nel cinquantesimo anniversario dell’uscita. Ti ho detto del valore artistico e sentimentale di quell’album, dei contrasti personali fra Waters e David Gilmour e di altro ancora. Concludevo il pezzo affermando che non avrei comprato il box celebrativo e sicuro dell’acquisto della versione del geniale e burbero bassista. Ho mantenuto la parola. A differenza di Roger intingo volontariamente il pane nel piatto dei mesi passati, pesco il sugo residuo del pezzo di aprile e seguo il tema fissato sul calendario.
Se hai letto il mio vecchio articolo già sai che Roger Waters ha sempre considerato i Pink Floyd roba sua, artisticamente parlando. Poco conta, qui e ora, se o quanto abbia ragione. Conta semmai che lui non sia nuovo a rivisitazioni del repertorio della band, spesso depurato dagli assoli di Gilmour. Occhio, perché Waters, al di là delle feroci liti di cui ti ho parlato in abbondanza, ha detto di apprezzare il lavoro dell’ex compagno sui vecchi album. Però non ci vuole Freud per capire che per Roger spogliare quei dischi dai virtuosismi di David è funzionale a far risaltare non solo i propri testi, non solo le melodie più scarne che ne derivano, ma pure «la sua idea di Pink Floyd». Come a dire «Certo, belle le sonorità prog, ampollose e sognanti, ma senti qua LE MIE CANZONI, prive di sovrastrutture e distrazioni!».
Non è la prima volta, dunque, che Roger fa scarpetta. Ascolta questa scarna versione di Comfortably Numb tratta dal suo Lockdown Sessions. È suggestiva anche priva degli assoli di chitarra dell’originale (che resta un capolavoro, sia chiaro).
Ma veniamo alla faccia oscura della luna di Waters. Oltre alla «de-gilmourizzazione» sonora, spiccano i testi. NON alterati, ma implementati dall’autore.
Speak to Me contiene il testo di Free Four (da Obscured by Couds). Ora però ascolta l’originale:
Ti colpirà il tono spensierato, in assoluto contrasto col testo e il tono grave con cui viene recitato nella «nuova» Speak to Me.
«The memories of a man in his old age
are the deeds of a man in his prime
you shuffle in the gloom of the sick room
and talk to yourself as you die.
Life is a short warm moment
and death is a long cold rest»
Un inizio, insomma, in cui vengono scoperte le carte. Il vecchio di oggi (Waters ha compiuto gli ottanta a settembre) legge i versi del sé trentenne. Le parole sono uguali, ma tono e prospettiva non possono essere gli stessi. Da lì, la scaletta prosegue identica a quella del 1973, ma il trucco di Waters è riuscito: anche per chi ascolta tono e prospettiva cambiano profondamente.
On the run è forse il pezzo meno riuscito. La sequenza strumentale, angosciante e claustrofobica, viene qui sostituita dalla recita di un incubo di Waters. Pure le sveglie che introducevano Time sono tolte.
Time, appunto. Qui (sono prevenuto, lo so) ho pensato subito che togliere l’assolo sarebbe stato un delitto… Invece l’atmosfera funziona, cori e archi e diavolerie elettroniche sostengono bene l’ascolto. Niente da dire, dai.
E veniamo a The Great Gig in the Sky, un pezzo da brividi sul Dark Side del 1973 (lo dico? Ok, lo dico: assieme a Firth of Fifth dei Genesis il mio brano preferito in assoluto). Una canzone splendida pure stavolta. Diversi, ma sempre brividi sono.
Chiariamolo. Great Gig già in origine (senza testo: magiche note alle tastiere di Richard Wright accompagnati dai vocalizzi di Clare Torry) non è esattamente un passaggio «leggero». Ettecredo: viene dopo Time, dove il protagonista ha capito che nella vita ha buttato nel cesso il proprio tempo e teme di morire senza averne ancora da usare per i progetti a cui teneva davvero (figurati, originariamente la canzone doveva intitolarsi The Mortality Sequence).
Per il proprio Redux, Waters sa bene che i vocalizzi di Clare Torry non sono ripetibili. Quindi recita sulle stesse note brani di corrispondenza intercorsa fra sé e Kendall Currie, assistente di Donald Hall, poeta americano in quel periodo ricoverato per un cancro. Waters ricorda le ultime conversazioni con Kendall, gli omaggi/citazioni che aveva fatto a Hall durante i propri concerti, fino alla visita alla fattoria di Hall dopo la sua morte. Il risultato è un pezzo toccante e sincero.
Money mi ha convinto meno. Senza il sax di Dick Parry e rimossi, come sempre, i virtuosismi di Gilmour, diventa un blues che si trascina stancamente. Al contrario, Us and Them emoziona e resta simile all’originale, forse perché l’atmosfera del brano era già in origine priva di gilmourizzazioni.
Il finale scorre da Any Colour You Like fino a una toccante Eclipse. Prima di Brain Damage puoi sentire una sorta di «messaggio nella bottiglia» di Roger, che sogghigna sornione:
«Why don’t we re-record Dark Side of the Moon? He’s gone mad…»
Quasi a dire «Sono pazzo a voler ri-registrare Dark Side? Certo! E ora che l’ho fatto ne sono fiero!». E alla fine di Eclipse non c’è più la voce che sussurra «There is no dark side in the moon, really. Matter of fact, it’s all dark», ma l’onnipresente Waters che chiosa «I’ll tell you one thing, Jerry, me old mucker. It’s not all dark, is it?». È l’unico momento in cui, checché ne dica lui, il messaggio del disco sembra davvero più ottimista di cinquant’anni fa, davvero oscuro come la faccia nascosta della Luna.
Insomma, cosa aggiungere per finire il sugo e lasciare il piatto davvero pulito?
Il punto è questo. Dark Side of the Moon 1973 suona attuale e godibile ancora oggi, assieme al suo messaggio e alle sue riflessioni, davvero universali. Alienazioni mentali, disagi dell’individuo, il denaro come male del mondo, lo scorrere inesorabile del tempo… Il Redux di Waters è la meditazione personale e densa di minimalismo fatta da un ottantenne. Con toni e sonorità diverse… e ci mancherebbe altro! Del resto, ti faccio notare, il brillante e spigoloso bassista, una volta uscito dal gruppo, ha pubblicato qualche album di inediti, è vero, ma a un certo punto ha deciso di rileggere il passato floydiano. Forse è lui a non sapersi staccare dalle proprie creazioni.
La cosa più sbagliata che puoi fare è ascoltare il restyling di Roger paragonandolo al Dark Side di cinquant’anni fa. Non restare impelagato nella nostalgia, continua pure ad ascoltare l’originale e fatti vincere dalla sua magia, ma – sappi – il fatto che quel disco fosse un capolavoro non lo rende intoccabile. E la de-gilmourizzazione del disco non è stata, almeno in questa occasione, una ripicca o l’ennesima puntata della diatriba fra il bassista e il chitarrista dei Pink Floyd.
Resta però che la versione di Roger, piaccia o meno, fallisce nell’idea di base del suo autore di attualizzare il lavoro di cinquant’anni fa. Dark Side of the Moon resta e resterà. Il disco Redux del 2023 è un sermone di Waters. Interessante, ma dura il momento dell’ascolto.
E ora, nel piatto come nella tastiera, non è rimasto nulla.
Vive una crisi di mezza età da quando era adolescente. Ora è giustificato. Ha letto un bel po’ di fumetti, meno di quanto sembra e meno di quanto vorrebbe. Ne ha pure scritti diversi, da Piazza Fontana a John Belushi passando per Carlo Giuliani (tutti per BeccoGiallo) e altri brevi, specie per il settimanale “La Lettura”. Dice sempre che scrive perché è l’unica cosa che sa fare decentemente. Gli altri pensano sia una battuta, ma lui è serio quando lo dice.