Maschere di meraviglia

Paolo Valeri | Antropocomics |

Il problema delle scienze sociali per tutto il secolo scorso è stato risolvere l’enigma della reciproca influenza tra individuo e società. È chiaro che ciascun individuo influenza la collettività ma, allo stesso tempo, ne è anche il prodotto: dov’è il punto di origine? Per dare ragione di questo profondo intreccio il paradigma dell’incorporazione si è senz’altro rivelato uno degli strumenti più efficaci. Pierre Bourdieu ci ha insegnato quanto i corpi siano fondamentali: la sofferenza, la violenza, la società e la cultura si danno sopra i corpi e a partire dai corpi. Assumere il corpo come strumento e l’habitus come categoria interpretativa ha cambiato radicalmente i rapporti tra soggetti e oggetti di studio così come li avevamo pensati per tutto il secolo.

Proprio all’inizio dell’ultima decade novecentesca l’arte di Alex Ross esplodeva in faccia ai lettori di tutto il mondo attraverso i quattro numeri di una miniserie destinata a diventare storia: Marvels. Lo stile pittorico del disegno rendeva reali i personaggi più famosi dell’omonima casa editrice suscitando la medesima reazione: meraviglia.
Di meraviglia parla anche l’antropologo inglese Alfred Gell quando, riferendosi all’arte, la definisce una «tecnologia dell’incanto». Se ci azzardiamo a considerare le narrazioni dei supereroi arte è facile scoprire come queste trovino le loro basi proprio nell’incanto prodotto dalla tecnologia. Uno stupore alle reazioni che la tecnica, intesa come scienza e tecnologia, suscita in noi. Mi riferisco proprio al prodotto, cartaceo o filmico poco importa, che ci colpisce con il suo apparato materiale di colori sgargianti e mirabolanti evoluzioni cinestetiche.

Ma la categoria del meraviglioso è sempre stata, fin dalla tardo antichità, quella che si usava per affrontare il discorso sull’altro, forzando e andando a colmare i vuoti della dogmatica costruita sui testi sacri e classici: così sono nati cinocefali, gargoyle e anguane. Anche gli eroi in maschera sono già di per sé portatori di un’alterità che esula e supera il paradigma tecno-scientifico dell’età moderna, in una produzione di potere e di dominio letteralmente impossibili nella realtà. Così di fronte a una modernità che omologa, schiaccia e separa si produce un discorso che privilegia la rivalsa esaltando l’unicità di ogni superpotere e unendo in comunità coloro che ne fruiscono. I due aspetti, meraviglia come incanto del potere e meraviglia come categoria dell’alterità, non appaiono scindibili in alcun modo.
Una reciproca influenza che ricalca il circolo tra individuo e società ma che si ripresenta anche nella contrapposizione tra potere e responsabilità insita nella celeberrima citazione «Da grandi poteri derivano grandi responsabilità». Se responsabilità significa prendersi cura di persone o cose che cedono alla persona “responsabile” parte della loro autonomia, allora la stessa responsabilità è potere, in quanto possibilità di azione. Anche nella nostra esperienza quotidiana, se affermiamo di essere il responsabile di quella classe scolastica o di quel reparto di azienda, ci incarichiamo di occuparci di quel particolare ambito; ci conferiamo il potere in quel determinato contesto. Più il potere che ci conferiamo è grande e più sarà rilevante il nostro incarico, in potenza l’accrescimento di responsabilità porta a un potere che può risultare persino totalizzante. Quello che sto cercando di dire è che, così come non si può essere responsabili senza esercitare un potere, la responsabilità giustifica sempre quell’esercizio. Allo stesso modo la meraviglia dell’incanto della tecnologia presuppone un dominio che la meraviglia verso l’alterità giustifica, riuscite a vedere l’assonanza? «Da grandi poteri derivano grandi responsabilità» significa: se grazie alla nostra partecipazione al paradigma scientifico-tecnologico acquisiamo grandi poteri, questa nostra nuova condizione di superuomini ci impone di esercitarli. In questo motto è rimasta impigliata tutta la superiorità che imputiamo alla nostra civiltà occidentale.
Infatti siamo di nuovo all’impasse tra individuo e società, incastrati nell’influenza reciproca tra due poli e senza nessun corpo da usare per risolvere il problema. Nel mondo delle meraviglie ci sono solo personaggi, silhouette di carta dai colori brillanti, apparenze di celluloide ricostruite in digitale. E in mezzo a tutte queste meraviglie, e a tutta questa meraviglia, l’unica soggettività incarnata è la nostra: se vogliamo davvero comprenderla dobbiamo sobbarcarci la responsabilità di essere noi quelli che si infilano sotto le maschere dei supereroi. Basta accettare che le loro storie siano il riflesso delle nostre vite, una sorta di specchio in cui stiamo guardando i nostri volti mascherati. 

Questo è l’ultimo atto di consapevolezza che ci separa dal poter rischiare l’applicazione eretica di un modello disciplinare, come quello dell’habitus citato in apertura, che però risponde alle nostre evidenze. In fondo è la natura porosa, malleabile e orientata all’identificazione con l’oggetto di studio, così propria della disciplina antropologica, a invitarci a rischiare tale forzatura. Il nostro habitus è la maschera e noi, calzandola, diventiamo i supereroi: ci strutturiamo attraverso la categoria del meraviglioso e, al contempo, strutturiamo la nostra volontà di dominio. In quanto superuomini, ci lasciamo ammirare mentre abitiamo il mondo in posizione dominante. Purtroppo, però, dopo aver indossato questa maschera, sta diventando sempre più difficile riuscire a togliersela.

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2 risposte su “Maschere di meraviglia

  • Honus Forestier

    Per Adorno, le idee benjaminiane sulla riproducibilità dell’opera d’arte e sulle possibilità offerte dai nuovi media nascono da una inaccettabile miscela di «magia» e «positivismo», mentre Adorno si nega ogni appiglio. Visto che «non si dà vita vera nella falsa», se la teoria non si appoggia a un «dominio superiore», l’ultima parola spetta giocoforza «al paradosso».
    In particolare, all’arte novecentesca non restano che due possibilità: o recuperare forme neoclassiche (i fumetti eroistici da quelli americani a quelli giapponesi) ormai superate; oppure, come vuole la dialettica adorniana, negarsi nell’istante in cui si manifesta (l’effimero dell’underground).
    Il rovesciamento negativo dell’hegelismo obbliga Adorno a vedere nel movimento moderno di spiritualizzazione dell’arte (che tu chiami “meraviglioso”), contemporaneo a quello della più sofisticata alienazione umana, un vicolo cieco destinato a restringersi come un imbuto fino all’adimensionalità del punto. Probabilmente è proprio il gesto con cui si sovraccarica l’arte di significati, compensando così una realtà sociale che sembra destinata all’agonia o allo stallo, in cui ogni tentativo di agire collettivamente o di mantenersi puri nell’isolamento va incontro allo scacco.

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    • Paolo Valeri

      Non sono certo che il discorso di Adorno sulla spritualizzazione dell’arte sia così sovrapponibile alla definizione di Gell di tecnologia dell’incanto, certo è che entrambi i paradigmi evidenziano l’impasse e il reciproco ingaggio tra i prodotti culturali e l’umanità che producono.
      Ad ogni modo grazie di aver arricchito l’articolo con il tuo spunto, è una strada che io non avrei pensato di battere.

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