Noi padri cerchiamo, con impressionante sistematicità, di far ricadere le nostre colpe sulle teste della nostra discendenza. Quella, preparata dalla complessità di una vita articolata e dinamica, riesce quasi sempre a scansarle.
Mica lo facciamo apposta. Siamo degli imbecilli che hanno imparato a essere padri, seguendo gli esempi (necessariamente sbagliati) dei nostri padri, individui imperfetti educati da altri padri. Una reiterazione degli errori che replica, su scala globale, il paradosso dell’istruzione. Come si può pretendere un’evoluzione se le idee di chi potrebbe averne vengono irregimentate in modelli cascanti e obsolescenti da corpi fatiscenti investiti del ruolo dell’insegnamento.
Guarda le intelligenze artificiali. Macchine meravigliose che potrebbero fare quello che fanno gli umani di più e meglio, perché acquisiscono tutte le informazioni del passato e le appiattiscono per identificare i pattern più utili a ogni occasione. Peccato che quelle informazioni siano il risultato di un passato, non sempre glorioso, prodotto da umani non sempre meravigliosi. E allora ChatGPT ci vomita addosso luoghi comuni e vecchiezza di pensiero. E allora Midjourney defeca immagini emulative, identiche a tutte quelle datele in pasto (e, nella stragrande maggioranza dei casi, mica era bella roba).
Le nostre figlie, i nostri figli – di noi padri, dico – soffrono per l’istruzione coatta che li costringe in scuole vecchie e stupide. In alcuni casi, decidono di fuggire. In altri, trovano il modo di sguazzarci con gioia. Si illudono di cambiare il sistema da dentro e, un po’ alla volta, diventano sistema.
Ci sono figli, poi, che cercano di calcare le impronte dei padri. Li chiamiamo “figli d’arte”, con un po’ di disprezzo, come a dire che per loro la vita è stata facile. Tutta in discesa, grazie a quei cognomi che indossano per diritto ereditario.
A volte, però, è gente che, proprio per quei cognomi, ha dovuto fare più fatica degli altri.
Immagino la spossatezza indotta dal fardello dell’ombra di un padre come Stephen King, Alberto Breccia o Francis Ford Coppola.
L’argentino Carlos Nine è stato un disegnatore straordinario è un grandissimo fumettista. In Italia lo si è visto soprattutto in rivista. Credo che in volume esistano solo una bellissima raccolta di disegni pubblicata dalla galleria Nuages, Prints of the West, e forse il volume di “Donjon Monster” da lui disegnato (ma non so se Bao lo abbia già raccolto in una delle raccolte pubblicate). Nine è morto otto anni fa, a 72 anni, e ancora riesco a trovare (in francese e in spagnolo) libri meravigliosi, con la sua firma, che contengono immagini e che non avevo ancora visto.
La scorsa estate, in una libreria di Marsiglia, mi è piombato in mano un libro orizzontale, uscito nel 2008 per Les Rêveurs, casa editrice con un catalogo molto bello. Si intitola Dingo Romero, è firmato da Lucas Nine e racconta la storia di un bandito messicano, donnaiolo e ubriacone, a capo di una banda di fuorilegge. Una storia tra saloon e incendi, con un personaggio disegnato guardando con attenzione ai lavori di Carlos Nine, di cui Lucas è figlio.
C’è una prossimità impressionante tra i due autori nella costruzione dei corpi e degli ambienti. Potrebbe addirittura essere fastidiosa. Lucas usa un pennello (probabilmente digitale) che gli garantisce un’apparente velocità di realizzazione che il padre, con i suoi pennini e le sue tessiture, sembrava non cercare. Per il resto, quella vicinanza, che è stato il motore del mio acquisto, mi ha poi respinto.
Ho iniziato a sfogliare questo libro velocemente. Il formato orizzontale – “all’italiana”, dicono i francesi (ma, del resto, gli anglofoni chiamano le patatine fritte “french fries”) – è stato progettato appositamente per l’edizione francese. Quando è uscito per la prima volta in spagnolo, il volume aveva il formato dell’albo francese. Mi chiedo, mentre sfoglio, perché trasporre un volume, apparentemente pensato per l’esportazione in Francia, in un modulo diverso.
Quella casa editrice sembra molto attenta alle scelte: non può essere casuale. E, allora, continuo a sfogliare. Ricomincio e guardo.
Mentre quelle pagine mi scorrono davanti, diventa sempre più evidente la differenza tra Carlos Nine e Lucas Nine. Le pagine di Carlos sono delle architetture dello sguardo perfette: lasciano che i tuoi occhi ci si muovano sopra alla ricerca del senso del racconto; ogni vignetta è densa di personaggi e oggetti – che sono spesso personaggi a loro volta – che raccontano; la sequenza esprime un senso narrativo che oscilla tra attrattori strani, grottesco erotismo e avventura. Carlos Nine è un fumettista e quello che fa, con una consapevolezza esemplare, è proprio fumetto.
Lucas usa la vignetta come uno schermo. Ci sono sequenze dall’inquadratura immobile, carrellate, piani sequenza… Guarda al cinema molto più che al fumetto.
Capisco allora che il formato all’italiana è indispensabile. Serve a far esplodere la sensazione di avere tra le mani uno storyboard.
Non so dirti se è un libro che mi piace.
Sono contento di avercelo, mi aiuta a capire cosa amo di Carlos Nine: mi spiega che alcune cose nascoste dalla rutilante costruzione della pagina (in Keko il mago, per esempio) erano omaggi sentitissimi a Krazy Kat di George Herriman.
Questo libro non mi dice molto di Lucas Nine, non mi insegna ad amarlo.
Può un fumetto illuminare l’opera che lo ha ispirato. Possono le colpe dei figli riversarsi, come luce, sulle spalle dei padri?
Domande oziose. Mentre ci penso, riguardo le animazioni di Lucas Nine.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).