Tra gli innumerevoli culti segreti che frequento tra le mensole della mia libreria domestica, c’è quello dedicato a Bernard Krigstein.
Credo che tutto sia iniziato con un numero della rivista “Squatront”, trovato nel magazzino della “Borsa del fumetto”, il negozio milanese che frequento da quattro decenni. Quella rivista mi piaceva molto perché dedicava un sacco di spazio a Harvey Kurtzman: interviste, materiali di lavoro e analisi dei fumetti. Nel tempo trascorso muovendomi tra le scatole polverose, ne ho trovati quattro o cinque numeri. Uno di questi era dedicato proprio a Krigstein: conteneva un’intervista all’autore, che si rivelava un tipo riservato, e l’analisi di un fumetto incredibile: Master Race, Razza padrona. Il fumetto era perfino riprodotto, in bianco e nero, ma in piccolo.
Per fortuna era già iniziato il terzo millennio e Amazon spediva dagli Stati Uniti senza troppi scrupoli e spese di spedizione. Quel fumetto l’ho ritrovato in grande in almeno uno dei due volumi Fantagraphics curati da Greg Sadowski.
La versione che sto guardando adesso è quella contenuta in una raccolta del 2013 edita sempre da Fantagraphics. Si chiama Message in a bottle e quel titolo mi sembra illuminante.
La prima volta che ha sfogliato i fumetti di Chris Ware, il mio caro amico Fabian Negrin mi ha detto (devi leggere con cadenza porteña): «Caaazzo… sembra che hai trovato una bottiglia con dentro un messaggio, e quando lo apri è bellissimo, ma è scritto nella lingua di un altro pianeta… una civiltà avanzata che ti manda una richiesta di salvezza».
Ecco. Guardare i fumetti di Krigstein è proprio quella cosa. Un messaggio che arriva inatteso tra le onde ed è stato scritto da qualcuno che ha raggiunto un grado di consapevolezza molto più alto del tuo, ma rischia di estinguersi.
Quel titolo, Message in a bottle, deriva da una frase di Krigstein. Proprio come Ware secondo Fabian, ma mezzo secolo prima, questo fumettista straordinario pensava che, con i suoi fumetti, stesse scrivendo messaggi da infilare in bottiglie da disperdere nel mare.
Cerca Master Race. Non è elegante che ti metta qui tutte le pagine, anche se non pare proprio che esista un’edizione italiana di quel fumetto. Hai un browser e un motore di ricerca e non hai paura di usarli. Ecco, bravo.
Una storia breve, di sole otto pagine, scritta da Al Feldstein. In realtà la storia di Feldstein era diversa: pare si sviluppasse in sole sei pagine e avesse la consueta struttura da sei quadretti per pagina, coronati da didascalie verbose. Alla fine del 1954, Krigstein si innamora di quella storia e riesce ad avere l’autorizzazione a cambiarne la struttura a proprio piacere; ottiene perfino due pagine in più.
Feldstein è un fumettista abile che ama le parole. Spesso ne usa troppe. Giocare con le parole gli piace così tanto che si concede frequenti allitterazioni e ammiccamenti. In un fumetto che si chiama Razza padrona, il protagonista – che scopriremo essere un nazista a capo di un lager, riuscito a scampare alla vendetta, fuggendo negli Stati Uniti – si chiama Carl Reissman, con un cognome che suona proprio come “race man”.
Nelle parole tanto amate, Feldstein si perde immediatamente. Le didascalie, che sovrastano ognuna delle sei vignette della prima pagina, scandiscono una storia che non ha – in apparenza – nulla di diverso dalle altre pubblicate da EC Comics di Bill Gaines. Però c’è quell’ultimo quadretto, in basso a destra, che ci mostra l’arrivo del treno. Hai presente quando un treno della metropolitana entra in stazione, rallentando? Quando ti rifletti in tutti i finestrini? Krigstein inventa un modo per raccontare quel momento, spaccando l’ultima vignetta in sei istanti diversi.
Certo, la pagina si apre con un uomo, con cappello di feltro, occhiali scuri e impermeabile, che scende le scale inquadrato dal basso. E quella prospettiva non ha nulla di banale. Ma con l’ultima vignetta della pagina, Krigstein ti porta altrove, non cambia solo la sintassi narrativa del suo dire fumetti; si accanisce sulla paratassi. Da quel momento inizia il viaggio in una memoria che sanguina storia per cinque pagine e ci trascina in un campo di concentramento. Ti chiedo uno sforzo di immaginazione: è il 1955; quella tragedia oscena si è conclusa da soli dieci anni; stai ancora facendoci i conti; sei seduto e hai in mano un albo sottile e spillato; tra le dita ti fruscia la cartaccia da quotidiano di quell’albo; i colori sono tutti impastati dalla superficie porosa su cui il fumetto è stato stampato; non puoi pretendere troppo da un giornaletto che hai pagato dieci centesimi.
Per quella modica cifra, qualcuno ti sta raccontando una storia che è anche la tua storia recentissima. E, accidenti!, te la sta raccontando benissimo.
Quando il carnefice Reissman viene maledetto da una delle sue vittime, ansimi. Quando capisci che quella vendetta potrebbe essere consumata, da un momento all’altro su quel treno, ti restano solo due pagine. Il terrore, la fuga scomposta, la caduta, la morte, la menzogna per ricondurre una piccola tragedia all’indifferenza.
C’è quell’ultima pagina, quella analizzata continuamente da chiunque. Guardala. Godine. Osserva quante volte è stata copiata. Nell’idea di Feldstein, con ogni probabilità, doveva contenere sei vignette e una distesa di parole.
Krigstein è riuscito a liberarsi dal giogo verbale e ha inserito in quell’unica pagina quindici quadretti, scomponendo l’ultima vignetta della seconda striscia in un numero indefinito di istanti.
Bernard Krigstein è stato un signore del tempo. Ti ha dato le chiavi per far durare quella pagina tutto il tempo che serve e che desideri.
Un signore del tempo, sul serio. Racconta la leggenda che da ragazzo, per riuscire a garantirsi un futuro dignitoso, avesse rinunciato alle pretese artistiche e si fosse iscritto a studi che lo avrebbero trasformato in un perfetto contabile. Il giorno in cui aveva conosciuto la futura moglie, i due avevano preso la metropolitana insieme. Sul treno lei, che frequentava un istituto d’arte, aveva iniziato a ritrarre i passeggeri. Krigstein l’aveva imitata e aveva ritratto a sua volta quelle persone. Avendo visto le sue capacità, la ragazza lo aveva spinto a lasciare ragioneria per iscriversi all’istituto d’arte.
Quel treno gli aveva cambiato la vita. Lo stesso treno che, con Master Race, ha cambiato il fumetto.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).