Se hai poco tempo, ti sintetizzo questo post-it nel seguente concetto, semplice e “originalissimo”: è sempre sbagliato ingabbiare un autore in un unico genere (o in un unico personaggio), e di certo non lo puoi fare con uno come Michael Moorcock.
Se invece puoi restare per un po’, cercherò di mettere in fila qualche parola in più, probabilmente con molte divagazioni, ma non sono certo che arricchiranno più di tanto quello che ho appena affermato.
Se non ricordo male, lessi per la prima volta i romanzi di Michael Moorcock con il primo ciclo di Corum, nella collana “Delta” dell’Editore Sugar, e poi con Dorian Hawkmoon, uscito per Longanesi. Ho letto questi libri in rigoroso ordine sparso perché all’epoca non ero ancora malato di “completismo” e quindi leggevo tutto quello che mi interessava, che fosse a puntate oppure no, quando mi capitava tra le mani. Per dire, sicuramente ho letto Corum non in ordine, di Dorian Hawkmoon devo avere letto il primo e il quarto libro (non sono certo se in quest’ordine) mentre di Elric di Melniboné ho letto solo il secondo volume che raccoglieva gli (allora) ultimi tre romanzi. Non so quanto capissi realmente di Moorcock, ma c’era un dinamismo, un’energia, una percezione di qualcosa di diverso che riusciva a smuovere il mio desiderio di fantasia e avventura. All’epoca non affrontai i suoi percorsi più originali, come Inri (letto solo qualche anno fa) o Programma finale, forse perché ero rimasto scioccato dal suo adattamento cinematografico, Alfa e omega: Il principio della fine, che vidi un sabato sera su Rai2. Quella versione di un eroe fantascientifico dandy (all’epoca non avevo ancora visto Rocky Horror Picture Show e non avevo quindi potuto apprezzare le similitudini con il dottor Frankfurter) era qualcosa di completamente alieno per un ragazzo di terza media, che aveva una conoscenza limitatissima del mondo, e che non coglieva di certo il lato fortemente ironico della pellicola.
Negli ultimi anni delle superiori, le mie strade si separarono da quelle della fantascienza e del fantasy, e di conseguenza, pure da Michael Moorcock, complice un professore di italiano che, paradossalmente, stimolò la mia passione per il romanzo statunitense e influenzò il mio futuro percorso di studi. A parte qualche sporadico ritorno (William Gibson e il ciclo del “Torturatore” di Gene Wolfe), disertai completamente quei due generi.
Per quanto riguardava Moorcock, quello che notavo (da lontano) era che, dopo un iniziale tentativo di proporre qualcosa di diverso, tutti gli editori italiani (forse spaventati dalla bibliografia sterminata dello scrittore) facevano sempre la medesima scelta, e cioè di privilegiare i cicli (ristampati innumerevoli volte) di Elric e poi, a seguire, Corum, Dorian, Erekosë il Campione Eterno e, osando, forse Kane, la sua riscrittura del burroughsiano John Carter di Marte. Se volevano proprio “esagerare” provavano con Programma finale, credo l’unico romanzo di Jerry Cornelius disponibile nel nostro paese (ignorando, quindi, gli altri tre romanzi, una ricca antologia di racconti e altri tre o quattro libri, tangenzialmente collegati) e, se non sbaglio, anche con Madre Londra, primo volume di una specie di autobiografia. Tutto il resto veniva completamente ignorato, tralasciando i generi che aveva coperto e i sentieri che aveva intrapreso (la sua importanza come editor e il fondamentale apporto che diede alla fantascienza britannica nella rivista “New Worlds” sono colpevolmente ignorati), dando quindi un’idea al pubblico italiano di un autore profondamente legato al genere fantasy di “spada e magia”, e che utilizza il “furbo” trucco del concetto del “Campione Eterno” per riusare in più storie gli stessi elementi narrativi, se non addirittura raccontare lo stesso evento da punti di vista diversi. Uno scrittore, quindi, fondamentalmente limitato, sebbene autore di romanzi interessanti.
Avanzamento veloce a oggi. Vivo da qualche anno nella perfida Albione e apprezzo l’esistenza di negozi dell’usato, normalmente gestiti da associazioni che li usano come mezzo di raccolta fondi per portare avanti le proprie attività nel sociale, e che frequento regolarmente. Data l’abitudine britannica di separarsi delle proprie cose, qualunque esse siano, in molti casi perfino in buone condizioni, riesco a trovare dei piccoli gioielli di cui non conoscevo l’esistenza, oppure dei favolosi tascabili Penguin degli anni Cinquanta e Sessanta, con una grafica e delle illustrazioni strepitose. In mezzo a questi tesori, non poteva passare inosservato Michael Moorcock, sebbene non sia certo l’autore più facile da reperire (a differenza di giallisti o autori di thriller come Lee Child, Harlan Coben, Michael Connelly, Ian Rankin o il recentissimo fenomeno Richard Osman, oppure di autori fantasy come Tolkien, Raymond Feist e Robert Jordan). Considerata però la sua produzione, oggettivamente sterminata, sono riuscito ad accumulare (verbo usato non casualmente) un certo numero di libri, complice anche un’interessante collana della Gollancz che, a un certo punto, aveva cercato di dare un ordine alla produzione oceanica di questo scrittore, dando alle stampe raccolte e omnibus che raccoglievano soprattutto i suoi cicli più famosi. Ecco quindi tre tomi che raccolgono tutto Jerry Cornelius, sette volumi per l’opera omnia di Elric, arricchita da materiali aggiuntivi di vario tipo (quando la recente edizione Mondadori continua a riproporre l’edizione dei sei libri della DAW, datata 1977), cicli diversi di personaggi che non avevo mai sentito, nonché tre antologie di racconti.
Qualche anno fa avevo preso in biblioteca la prima di queste raccolte, My Experiences in the Third World War and Other Stories, e avevo apprezzato come quei racconti non fossero invecchiati e affrontassero diversi generi della fantascienza. Grazie a un fortuito pendolarismo in autobus che mi permette di ritagliarmi 40-45 minuti a viaggio, ho letto recentemente il secondo libro di racconti, The Brothel in Rosenstrasse and Other Stories, pensando che mi sarei trovato di fronte a un libro simile a quello precedente. Anzi, mi aspettavo una riscrittura di Elric perché, andando a memoria, mi sembrava che in un maxi-ciclo fatto da DC Comics sui multiversi moorcockiani, ci fosse appunto una incarnazione del principe albino in una ambientazione contemporanea con un nome simile. Come mi sbagliavo…
Quello che mi si è presentato di fronte è stato un libro densissimo, suddiviso in tre parti (sia tematicamente che a livello di stile) che hanno scardinato completamente l’idea che io stesso avevo di Moorcock. Certo, sapevo che aveva scritto tantissimo (la pagina di Wikipedia e il piano dell’opera della Gollancz ne sono testimonianze); certo, moltissimi autori (Alan Moore e Neal Gaiman in testa) ne avevano sempre parlato in termini altisonanti… ma tutto questo non mi aveva preparato a quello che stavo per leggere perché, nonostante tutti i discorsi che ho fatto finora, inconsciamente, avevo dato un’etichetta riduttiva a questo scrittore, probabilmente perché anche lui, ogni tanto, continua a ritornare a opere “facili” (nel 2023 è uscito un nuovo romanzo di Elric).
Quello invece in cui mi sono calato è un libro originale, complesso, citazionista e in cui le ispirazioni sono scoperte e si rincorrono l’un l’altra. È un romanzo ambientato in una città europea inventata (ricorda molto Praga) alla fine dell’Ottocento, in cui la prima parte è una passeggiata nel dedalo dei vari quartieri, mescolando osservazione, brevi episodi dei vari abitanti e la vicenda principale dell’Io Narrante. Sembra quasi di essere in un romanzo di Stefan Zweig, in cui gli ambienti urbani diventano gli attori principali delle vicende. La seconda parte riprende i romanzi erotici francesi di Apollinaire e De Sade, con situazioni molto forti ed esplicite, dove il protagonista porta la ragazza non ancora maggiorenne con cui ha una relazione segreta in un bordello, iniziandola al sesso e alla vita che le riserverà (probabilmente) il futuro. La parte finale cambia ancora le atmosfere ed è centrata sull’assedio e la distruzione della città, vittima inconsapevole di una guerra da operetta (non tanto diversa da quella che si scatena nella Guerra lampo dei fratelli Marx) e che, se non causasse così tanti morti e dolori, sarebbe grottesca e parodistica.
Su tutto aleggia lo spirito di Proust: il protagonista, infatti, vecchio e malato, scrive le sue memorie ed è questa la ragione principale per cui rievoca la giovinezza, con tutti i rimpianti degli errori commessi e delle occasioni mancate. Questi due piani temporali si mescolano e fondono completamente, perché nella mente dell’Io Narrante non ci sono differenze tra passato e presente, ma tutto diventa un unico flusso che si trova a vivere gioie e dolori nello stesso istante.
Questo libro è in parte collegato ai cicli delle varie incarnazioni del Campione Eterno perché il protagonista fa parte della famiglia Von Bek, a cui sono dedicati diversi romanzi, ma la grandezza di Moorcock, il suo essere fuori dagli schemi e dalle convenzioni (per esempio, leggete le sue osservazioni e opinioni su Tolkien e C. S. Lewis nel saggio Wizardry and Wild Romance: A Study of Epic Fantasy) è di portare i propri personaggi in territori diversi e, in un certo senso, sconosciuti, allargando le proprie fonti di ispirazione e, di conseguenza, allargando anche le potenzialità stesse delle sue creazioni. È davvero un peccato che un autore di tale respiro sia relegato, nelle considerazioni dei lettori ma, anche, degli editori, a dei generi limitati e precostituiti.
Ha accumulato diversi sostantivi a cui può aggiungere il prefisso “ex” (fanzinaro, correttore di bozze, redattore, editore, letterista-impaginatore sotto pseudonimo, articolista…), mentre continua ancora, sporadicamente e per passione, a tradurre libri a fumetti.