L’ho lasciato là qualche mese, nello scaffale della libreria destinato ai libri di passaggio, quelli che non hanno una collocazione al fianco degli altri libri dello stesso autore, o della stessa serie, finché non li ho letti. Il tempo che un libro può passare in quella collocazione dipende da molte variabili. Alcuni, dopo settimane o mesi di permanenza, finiscono direttamente nello scaffale di destinazione (se c’è spazio, a seconda di alcune valutazioni finiscono in prima o seconda fila, oppure in orizzontale appoggiati sopra agli altri, in una libreria costantemente sul punto di esplodere). Altri invece a volte finiscono in un altro scaffale, più alto, ci vuole la scala, ufficialmente diventato quello dei “libri di passaggio che non lo so quando li leggerò”.
Questo titolo mi ero ripromesso di leggerlo prima che scattasse per lui la ghigliottina dello “scaffale più alto”, per diversi motivi. Lo ammetto, non sono un grande conoscitore dell’opera di Piero Macola, probabilmente Lagune è il suo primo libro (è realizzato in collaborazione con Christophe Dabitch) che leggo. E l’ho letto perché, da provincialotto quale sono, è ambientato nella regione in cui vivo. Chi mi segue dovrebbe sapere che ho qualche motivo di interesse verso storie di fiction e, in un qualche modo, noir ambientate in Veneto, ultimamente. Lagune è un noir da sfumature vagamente fantascientifiche, ambientato in una Venezia più vasta di quella che siamo abituati a trovare sui libri, tra città sospesa nell’acqua e l’arcipelago di lagune che la circonda.
Gli acquarelli di Macola contribuiscono all’efficacia dell’ambientazione, tanto che non sempre, solo a volte ma con molta soddisfazione, tra quelle pagine in barca tra le lagune si sente quasi l’odore salmastro del mare. La storia procede dritta, è strutturata in modo classico, c’è una quest, ci sono i comprimari, ci sono degli antagonisti, c’è pure una vendetta (del finale non dico, ce l’ho un cuore!): se dovessi appoggiare gli eventi su una ipotetica linea temporale probabilmente la struttura sarebbe simile a un Rocky o un Rambo. Procede dritta nei suoi atti, come da manuale. È una bella storia, una bella ambientazione: una Venezia chiusa tra le dighe del MOSE, clandestini in entrata destinati a entrare nel mercato della schiavitù, un’organizzazione criminale che gestisce tutto, istituzioni razziste. Una metafora neppure così ambigua dell’Italia in cui viviamo (forse l’Europa?), concentrata però nei 414,6 km quadrati della città lagunare e si sa, più concentriamo le cose più cattive diventano. Paolo cerca suo padre, che non torna a casa da settimane. Ha sempre creduto che fosse un pescatore, ma questa certezza comincia a incrinarsi. Cosa ne sa, il suo amico Ahmad? Sicuramente più di quel che dice.
C’è azione, in questo libro, mi sembra di intuire un impegno nel far proprie alcune lezioni dei manga, nella resa straniante di alcune scene molto cinetiche realizzate ad acquarello. Ce l’ho chiuso, con la quarta di copertina appoggiata alla mia destra, qua a fianco mentre scrivo. L’ho finito di leggere da pochi minuti (il tempo di appuntarmi tutto su questo post-it) e la sensazione più strana che mi ha lasciato è questa: sembra un libro ambientato in una sorta di ipotetico oblomovcoconinoverse, tra gli Appunti di una storia di guerra e La terra dei figli di Gipi e la Celestia di Manuele Fior. Non che da queste ispirazioni non ne venga fuori una cosa totalmente nuova, con una sua piena dignità e anzi, che consiglio di leggere, ma non mi capita così spesso di leggere un libro continuando a pensare ad altri durante tutto il tempo, in un confronto e dialogo continuo con altre opere.
Se dovessi tendere l’orecchio per cercare di sentire bene cosa tenta di dirci, in questo dialogo tra opere del fumetto italiano dal respiro più internazionale, penso che sentirei qualcosa del tipo «non è bello che qualcuno torni a raccontarci il mondo attraverso storie (anche) di avventura?»