A un grande mago piccolo

Francesco Pelosi | post-it |

C’è il verso di una canzone che continua a perseguitarmi. Dice così: «Era la mia ignoranza e adesso è la tua cultura». 
Viene da Una canzone come gli 883, un pezzo che DPCM Squad ha diffuso online il 5 giugno 2020, in piena pandemia Covid-19 (come suggerisce anche ironicamente il nome del gruppo). La Squad in questione è una sorta di super-band che vede la presenza, fra gli altri, di J-Ax  e Jake La Furia, ma anche di Nicola Savino, La Pina e i Pinguini Tattici Nucleari, fino all’attore Marco Giallini e a Roberto Recchioni, arruolato per realizzare i disegni che animano il video della canzone, messa insieme per l’occasione da Lodo Guenzi di Lo Stato Sociale e Max Pezzali, per beneficenza in favore dei lavoratori dello spettacolo in quel periodo gramo.
La canzone nasce come sfida di Pezzali a Guenzi sulla capacità di quest’ultimo di creare testi pieni di elenchi: in questo caso un elenco che riprendesse i leit motiv delle canzoni degli 883. E così, passati tutti i Cisco, gli Uomini-Ragno, le birre e i panini all’autogrill, le ragazze che ti lasciano e i motorini sempre in due, ecco che J-Ax canta quella che per me è la frase manifesto del pezzo, riferita all’effetto che la musica degli 883 ha avuto sul nostro immaginario: «Era la mia ignoranza e adesso è la tua cultura», appunto. Un concetto molto preciso e molto vero, involontariamente o meno, nell’analisi che propone. Da qualsiasi parte lo si guardi, quel verso ha ragione. 

Ecco, con tutte le (mastodontiche) differenze del caso, per noi nati tra la fine degli anni Settanta e la fine degli Ottanta, quel verso parla tanto degli 883 quanto di Akira Toriyama e del suo Dragon Ball.
“Noi” siamo quella generazione a cui era proibito di guardare in televisione i “cartoni animati giapponesi”, perché “violenti” e “stupidi”, e che tanto li bramava. Che guardava di nascosto Ken il guerriero su Italia 7, con gli schizzi di sangue ricolorati di blu. Che cercava disperatamente di vedere in fila le puntate dei Cavalieri dello Zodiaco, sparpagliate qua e là da una programmazione di rete orgogliosamente dadaista. Che assisteva esterrefatta alle vessazioni di Mister Daimon verso Mila e aspettava, pomeriggio dopo pomeriggio, che Mark Lenders arrivasse finalmente davanti al rettangolo della porta, per assistere al suo anti-anatomico Tiro della Tigre. Che sussurrava sotto ai banchi che su qualche canale disperso nell’etere, a volte passavano le puntate di Ranma ½, dove si poteva intravedere qualche mezza scena di nudo.
Una generazione che non sapeva si sarebbe ritrovata presto sull’orlo di una rivoluzione sociale e tecnologica senza precedenti, bloccata in un limbo di mezzo, con radici troppo corte e rami troppo fragili. Una generazione che ha vissuto troppo poco sia del passato analogico che del futuro digitale, per poter vivere nel presente globale. 

Ma qualcosa di «unico e di grande», l’abbiamo avuto anche noi, soprattutto se eravamo tra gli ossessionati dai fumetti.
Abbiamo avuto Tito Faraci e Giorgio Cavazzano, prima su “Topolino” con i noir di Manetta e poi su “Mickey Mouse Mistery Magazine”, con quell’unica e indimenticabile storia, Anderville. Abbiamo avuto “PK” e il PK Team e la loro rivoluzione del canone Disney, impossibile da descrivere a chi non era lì, con quegli anni in quegli anni. Abbiamo avuto John Romita JR. al suo meglio sulle pagine di “Spider Man”, e i fratelli Kubert e Joe Madureira al loro meglio fra le pagine degli “X-Men” che combattevano Apocalisse e Onslaught. Abbiamo avuto la prima pubblicazione della Saga di Paperon De’ Paperoni di Don Rosa a puntate sulle pagine mensili di “Zio Paperone”.
E poi, oltre a tutta questa bellezza, abbiamo avuto anche l’arrivo in Italia di Dragon Ball, per Star Comics. L’edizione con la costina azzurra, che usciva ogni due settimane. Quella che si leggeva, per la prima volta, alla giapponese, da destra a sinistra. Quella che ci ha incastrato la meraviglia negli occhi. 
Se mio padre aveva Jack Kirby, io ho avuto Akira Toriyama. E non c’è molto altro da dire: con tutto il bene che voglio al Re, e con tutta la bellezza che mi ha regalato, il mio Re da ragazzino era Toriyama. Ogni sua linea era un urlo per il mio cuore, ogni sua pagina, una preghiera che non fosse l’ultima.
I miei pomeriggi – i nostri pomeriggi – erano tutti dedicati a lui, al suo Dragon Ball, al suo Dottor Slump e Arale, letti e riletti, fino a saperli a memoria, come un mantra per il benessere dei nostri cuori futuri. Perché anche oggi, riguardando i suoi disegni, le sue pagine, le sue storie, sapessimo con certezza assoluta che il mondo profuma ancora di splendore come quei pomeriggi eterni, in cui la nostra immaginazione era gravida di un grande mago, piccolo come noi.
Toriyama era i nostri occhi, gli occhi di quella generazione senza coordinate. E, con buona pace di chi non vedeva nulla in quegli occhi così grandi, quell’ignoranza di bambini, è oggi la cultura degli adulti. 

Grazie Sensei.

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