Altrove potrà sembrare paradossale che il dramma della Palestina, che affonda le radici in anni lontani e arriva all’attualità con un’atroce scia di sangue, lo si possa esaurientemente raccontare a fumetti.
Paradossale altrove, appunto. Ovviamente non su (Quasi), come stai leggendo in questi giorni.
Oggi ti parlerò di Palestina: Una nazione occupata, di Gaza 1956: Note ai margini della storia (entrambi di Joe Sacco, Mondadori) e di Cronache di Gerusalemme (Guy Delisle, Rizzoli Lizard). I tre lavori sono un ottimo compendio sul dramma palestinese, anche perché incentrati su momenti storici diversi.
Palestina. Una nazione occupata
Con questo primo libro Joe Sacco racconta il viaggio compiuto in Cisgiordania e nella striscia di Gaza tra la fine del 1991 e l’inizio del ’92, con la prima Intifada già in azione da tempo. E lo fa con uno stile diventato ormai riconoscibilissimo a livello mondiale: rappresentandosi in prima persona, occhialini tondi, nasone e labbra pronunciate, un berretto calato sui capelli corti quando il freddo è pungente. Ne hai già letto qui.
L’autorappresentarsi di Sacco non è segno di narcisismo o protagonismo, né della volontà di mettere il proprio punto di vista al centro del lavoro. L’autore incrocia, nel proprio percorso, diverse persone e lascia a loro raccontare storie ed emozioni. Il giovane giornalista, all’epoca poco più che trentenne, sembra volere, quasi paradossalmente vista la scelta di inserirsi fra i personaggi del fumetto, accantonare le proprie sensazioni (che comunque lascia scivolare in alcune occasioni) per lasciare spazio a quelle degli intervistati. Sembra essersi proiettato in un mondo per lui fino a poco prima sconosciuto.
Quella di Sacco non è la ricerca di quell’obbiettività assoluta che è pura astrazione, ma dell’onestà intellettuale, figlia della consapevolezza di essere un giornalista, che ha nelle mani la piccola parte di un’arma formidabile: migliaia di lettori, a volte il potere di far dimettere Presidenti, di contribuire a cambiare il corso della Storia. O perlomeno di dare voce a chi non ne ha, facendo così vibrare coscienze addomesticate dalle versioni di comodo.
Sacco è un testimone, nel senso più alto e ampio della parola, di storie altrui. Non è certo un eroe: delle sue sensazioni quella che emerge più nitidamente è la paura, quando si trova a doverla condividere con i suoi occasionali compagni di viaggio. L’autore non dà mai risposte; si intuiscono le sue domande, la sua – naturale e umana prima che professionale – curiosità e la sua partecipazione, ma quel che gli interessa è trasmettere i racconti degli intervistati, che a loro volta ci trasmettono l’occupazione israeliana non tanto nei “grandi eventi”, che rischiano di affondare la percezione della tragedia in una sorta di assuefazione all’orrore, quanto nei terrificanti segni della quotidianità.
Gaza 1956. Note ai margini della storia
Colpito dalla situazione che aveva rappresentato in Palestina, nel 2002 Sacco torna negli stessi luoghi. Ma non scrive una sorta di attualizzazione del precedente fumetto. La scelta poteva sembrare scontata: da un paio d’anni era in corso la seconda Intifada, e per lui poteva essere naturale raccontarla, dopo aver vissuto nei Territori per due mesi durante la prima. Sceglie invece di affrontare un periodo più antico, che mi costringe a una breve digressione storica.
Durante la cosiddetta crisi di Suez, o guerra del Sinai, la Striscia fu occupata dall’esercito israeliano. Con la scusa della ricerca dei fedayn, i soldati procedettero a una vera e propria caccia all’uomo. Sacco racconta in particolare dei rastrellamenti a Rafah e Khan Younis (a sud della striscia di Gaza), dove gli uomini adulti furono sistematicamente radunati in aree aperte e – molti – uccisi. Siamo nel novembre 1956: fatti tragici quanto dimenticati, scalzati da orrori più recenti. «Note ai margini della storia», come amaramente sintetizza Sacco nel sottotitolo.
Con lo stesso approccio stilistico e narrativo visto nel precedente volume, Sacco incontra diversi testimoni, sopravvissuti del novembre 1956. Tutti ricordano in particolare le violenze, la paura, le umiliazioni dei rastrellamenti.
Proprio l’omogeneità dei racconti li rende più attendibili. Spero non ti appaia distonico o fuori luogo ricordare quanto scrissero, tanti anni dopo e in un Paese e un contesto diversi, i pubblici ministeri genovesi nella memoria conclusiva del processo sui fatti della Scuola Diaz:
«L’unico elemento omogeneo e convergente [ndr: rispetto agli occupanti della scuola Diaz] si è dimostrato essere la drammatica rappresentazione dei fatti resa da ciascuno di loro. Ciò che lega una ventenne studentessa americana proveniente dall’Oregon, un giornalista di un diffuso e noto quotidiano italiano, una sessantaquattrenne signora spagnola residente in Germania, un’esule turca con asilo politico in Svizzera, un violoncellista di Berlino e ancora giovani di ogni provenienza è solo un racconto uniforme, coerente, fluente e impressionante; un dettagliato resoconto che … è stato trasferito in tutta la sua viva dimensione anche nel corso del processo, con la partecipazione di chi alle incredule orecchie che ascoltavano ha dovuto trasmettere la sensazione di aver vissuto un incubo, descrivendo la furia di colpi inferti senza ragione, con determinazione, odio e disprezzo.»
A me ricordarlo non appare né distonico né fuori luogo.
Cronache di Gerusalemme
Canadese, 42 anni alla fine del 2008, Guy Delisle si trasferisce per un anno in Israele con tutta la famiglia, dove segue la moglie Nadège, impiegata per Medici senza Frontiere.
Anche Delisle si autorappresenta nel fumetto. E anche lui usa, o cerca di mantenere e di trasmetterci, freddezza e distacco pure nelle scene più “scomode”. Ma queste sono le uniche analogie con lo stile di Sacco.
La differenza non sta tanto o solo nel segno grafico (caricaturale ma ricco e dinamico quello di Sacco; povero, statico ed essenziale quello di Delisle; la modulazione delle tavole del primo è estremamente varia, ricca di vignette e didascalie oblique o verticali, spesso priva della gabbia regolare – a strisce di due/tre vignette – che invece caratterizza la rigida griglia delle tavole del secondo).
Sacco, nei campi profughi, infila i suoi piedi nello stesso pantano in cui sono costretti “gli ospiti” (uso intenzionalmente il termine che, da noi, la retorica ufficiale vuole usare per i prigionieri dei Centri di permanenza per i rimpatri). In generale, nei suoi soggiorni in Palestina si costringe a vivere le stesse condizioni di precarietà di chi vive stabilmente nei Territori occupati. Anche Delisle si mescola con la gente (anche perché, come accennato, la sua permanenza continuativa a Gerusalemme è stata più lunga), ma lo fa in modo più “aristocratico”. Frequenta “ambienti buoni”, lo vediamo in giro per supermercati o ritratto nelle incombenze quotidiane.
La sua curiosità, sicuramente accostabile a quella del collega americano, è quella dell’osservatore distante e terzo, laddove Sacco invece cerca di azzerare le distanze. La cifra stilistica di Delisle, a livello di approccio narrativo, è un’ironia che vuol farsi didattica.
Se Sacco dopo un po’ sembra essere, o sforzarsi di essere, “uno dei palestinesi”, Delisle dà l’impressione di voler rimanere un estraneo che si sforza di comprendere una realtà lontana e aliena. E la sua estraneità pare volercela comunicare attraverso il famigerato muro, che rende difficili e tortuosi i suoi spostamenti (e pressoché impossibili quelli dei palestinesi): non solo lo rappresenta in varie sequenze, ma spesso si mostra fermo nell’atto di disegnarlo, magari fino a quando un militare israeliano non lo allontana.
L’autore sembra poi particolarmente impressionato dalle piccole e grandi “manie” che le diverse religioni manifestano a Gerusalemme e dintorni. Anche per queste Delisle ha un atteggiamento che, seppur rispettoso, denota uno sguardo scettico verso riti che devono apparirgli non solo poco comprensibili, ma soprattutto viva testimonianza di come l’ottuso integralismo impedisca da secoli in quella regione una civile convivenza fra i popoli.
Forte della sua terzietà, Delisle si sforza di presentare anche piccoli e timidi tentativi di convivenza fra palestinesi e israeliani. Ma su tutto lascia incombere l’ombra di quella diversità culturale, ben simboleggiata dalla sua già menzionata ossessione per il muro e dalle sue denunce dell’arroganza dei coloni israeliani.
1956, 1992, 2008. Sacco e Delisle abbracciano un arco di cinquant’anni di storia della regione. Momenti diversi, certo, ma la storia non è un insieme incoerente di schegge isolate, quanto un unico flusso di avvenimenti, dove ogni fatto si lega al precedente e al successivo. Magari quel legame non è ordinato e sequenziale come nella mia descrizione ed è invece mescolato e confuso, come in un minestrone. Però ogni fatto è connesso, credimi. Rimuoverne o dimenticarne uno rende incomprensibile il quadro completo.
Ma, più di tutto, a te resterà l’esemplare e umanissima chiosa finale di Sacco nel suo Gaza 1956. Quando un vecchio palestinese, alla domanda su quale sia la cosa peggiore che ricorda di quei giorni, risponde «La paura. La paura…». È allora che Sacco si autorappresenta per una volta diverso dal consueto giornalista freddo e impassibile. Di profilo, se ne scorgono labbra serrate e occhi strizzati in un moto di dolore e rabbia.
Voglio riportarti per esteso le sue riflessioni finali:
«E all’improvviso provai vergogna per aver perso qualcosa lungo la strada mentre verificavo le mie prove, le sbrogliavo, le sezionavo, le indicizzavo e le registravo sulla mia tabella. E mi ero ricordato quanto spesso mi ero trovato a parlare con vecchi che mettevano alla prova la mia pazienza, che menavano il can per l’aia, che mescolavano le cose, che saltavano dei passaggi, che non si ricordavano del filo spinato al cancello o di quando i mukhtar si erano alzati o dove erano parcheggiate le jeep. Quante volte avevo sospirato e alzato gli occhi al cielo perché ne sapevo di più io di quel giorno che loro.»
Le vignette successive, silenziose, ripercorrono un rastrellamento, il terrore nei visi di vecchi palestinesi, le bastonate, e tutto si conclude significativamente in un riquadro nero.
Cessate il fuoco. È già tardi.
Vive una crisi di mezza età da quando era adolescente. Ora è giustificato. Ha letto un bel po’ di fumetti, meno di quanto sembra e meno di quanto vorrebbe. Ne ha pure scritti diversi, da Piazza Fontana a John Belushi passando per Carlo Giuliani (tutti per BeccoGiallo) e altri brevi, specie per il settimanale “La Lettura”. Dice sempre che scrive perché è l’unica cosa che sa fare decentemente. Gli altri pensano sia una battuta, ma lui è serio quando lo dice.