Sergio Ruzzier a spasso nel bosco con Maurice Sendak: Intervista

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Maurice Sendak è tra i massimi autori che le storie che mescolano parole e immagini abbiano mai avuto. È un autore che amiamo molto e che, in Italia, fin dagli anni Sessanta, è stato pubblicato in edizioni splendide e molto curate ma con una significativa discontinuità. La sua produzione è stata ampia  e ha presentato un’articolazione vastissima di stili, tecniche e formati.
Da qualche anno l’editore Adelphi ha acquisito i diritti esclusivi dei suoi lavori e propone, in nuove traduzione, libri che, per quanto meravigliosi, erano già stati pubblicati da altri editori.
L’annuncio dell’uscita di quattro libri finora inediti, quasi in contemporanea nel mese di aprile, ci ha fatto gridare al miracolo. Quando abbiamo scoperto che, là in mezzo, ci sarebbero stati Outside Over There e Bumbl-Ardy, abbiamo improvvisato una ridda selvaggia nelle stanze della redazione. Poi, riconquistata una parvenza di lucidità, abbiamo chiesto a Sergio Ruzzier, che di Sendak è stato allievo e amico, di chiacchierare di questo evento.


Quattro titoli di Sendak, più di tutti gli altri, costituiscono un ciclo narrativo sublime.
Sono quattro picture book che raccontano con assoluta precisione, e molto meglio di una distesa sconfinata di trattati di pedagogia, il senso dell’infanzia: Where the Wild Things Are (1963, noto in Italia come Nel paese dei mostri selvaggi), In the Night Kitchen (1970, uscito prima con il titolo Luca, la luna e il latte e più di recente come La cucina della notte), Outside Over There (1981, in uscita con il titolo Nel mondo là fuori) e Bumble-Ardy (2011, in uscita come Bombo-Lardo).
Arabella e Paolo hanno tempestato di domande su Sendak Sergio che ha risposto con generosità. Solo alla fine della chiacchierata, i due sciagurati si sono resi conto di essersi fatti travolgere dalla passione – decisamente vorace – per Sendak e di non aver fatto a Sergio Ruzzier alcuna domanda sui suoi fumetti per bambini. In fondo è stato meglio così, ci riserviamo di chiacchierare di quelle storie con l’autore alla prossima occasione.


Paolo Interdonato: Innanzi tutto, mi piacerebbe raccontassi il tuo rapporto con Maurice Sendak.

Sergio Ruzzier: Il mio rapporto con Sendak comincia coi suoi libri. In particolare con i libri del Piccolo Orsacchiotto, quando ero bambino. Erano i miei libri del cuore, quelli che tenevo sempre con me. I libri su cui ho imparato a leggere. Adesso, nella nuova edizione Adelphi, quel personaggio si chiama Orsetto, ma quando li pubblicava Bompiani, già dagli anni Sessanta, era il Piccolo Orsacchiotto. Adoravo quei libri, sia per i testi di Else Holmelund Minarik sia per i disegni di Sendak. In quei disegni c’era qualcosa di commovente, di malinconico e coinvolgente. Mi ci immedesimavo in quel personaggio, e le sue piccole avventure e disavventure, le sue piccole tristezze, erano le mie. Mi è sempre piaciuto tantissimo.
Poi, quando da adolescente ho cominciato a provare a disegnare con il pennino, mi sono rivolto ai disegni di quei libri. Non tanto per copiarli, perché non sono mai stato uno a cui piaceva copiare le cose; mi è sempre piaciuto fare le mie cose. Li guardavo, proprio come degli esempi, per vedere come si poteva usare il pennino. Sendak è stato uno dei miei, diciamo così, maestri virtuali.
Non sono andato al liceo artistico, non ho fatto nessuna Accademia. Le cose che so fare le so fare perché le ho imparate per conto mio. E perché leggevo e guardavo tanti fumetti e tanti libri illustrati. E Sendak era uno degli artisti che guardavo con maggiore attenzione, anche se non è che ci fosse moltissimo di pubblicato in Italia. I disegni del Piccolo Orsacchiotto erano perfetti, perché erano fatti con questo incrocio di tratti, tratteggi, tessiture…
Presto però ho capito che quel tipo di tratteggio non faceva per me: il segno lo tenevo molto meno intricato, preferendo risolvere i volumi con l’acquarello, successivamente. Insomma, questa è la mia partenza con Sendak in Italia. Non è che conoscessi molte altre cose sue.

P: Non avevi incontrato i libri che pubblicava Rosellina Archinto con Emme Edizioni? Perché in quegli anni erano sicuramente già usciti Nel paese dei mostri selvaggi e In the Night Kitchen con il titolo Luca, la luna e il latte.

S: No, infatti. Io sono del 1966, per cui avrei benissimo potuto averli. Ma non avevo molti libri per bambini a casa, da piccolo. Mio padre aveva una libreria enorme, in cui c’erano anche tanti libri d’arte. Però di libri per bambini ne avevo pochi, una decina in tutto, per cui no, quelli non li conoscevo.
Poi, quando avevo quindici o sedici anni, ho scoperto che in via Solferino, proprio davanti al “Corriere della Sera”, c’era una chiesa protestante presso cui ogni fine novembre, per il Thanksgiving, facevano una svendita di libri vecchi, usati, di seconda mano, inglesi e americani. Io cercavo sempre libri illustrati, e lì avevo trovato un po’ di belle cose. Avevo imparato per esempio a riconoscere Edward Gorey. Poi avevo trovato un paio di libri di Sendak. Non conoscevo ancora bene il suo lavoro, ma l’avevo riconosciuto come il disegnatore del Piccolo Orsacchiotto. In particolare mi ricordo di aver trovato Pierre (uno dei volumi della Nutshell Library, ma pubblicato in un formato più grande) e Mr. Rabbit and the Lovely Present. Entrambi in uscita in Italia proprio adesso.
Ho però capito la grandezza di Sendak solo dal 1995, quando mi sono trasferito a New York.
Lì ho visto tutti i libri che ha fatto, tutte le tecniche che ha affrontato e tutti gli stili, dall’umoristico al più realistico, se si può definire così. Fino ad allora la mia relazione con Sendak era stata da lettore e da disegnatore in erba che cerca ispirazione. Da quel momento in poi è diventata vera passione.
Un giorno, dopo che avevo pubblicato alcuni libri, mi arriva una lettera. Una di quelle di carta, che si toccano, proprio nella casella della posta vera, non una mail. E quella lettera mi invitava a partecipare alla “Sendak Fellowship” nel settembre successivo, quello del 2011. Non sapevo neanche cosa fosse questa fellowship, per cui, quando ho aperto la lettera, mi sono detto: «Va be’… mi staranno chiedendo soldi per qualche opera caritatevole». Poi l’ho letta bene: «No, qui mi invitano a stare un mese da lui in Connecticut». Mi sono emozionato, prima di tutto perché scoprire che lui conosceva i miei lavori già era una sorpresa. E poi che avesse deciso di invitarmi lì, insomma, è stata una sorpresa ancora maggiore. All’inizio ho detto: «Cavolo! Ma non potrò farlo!» Perché avevo una bambina di dieci anni ed ero separato da sua madre, per cui, insomma, era proprio difficile organizzare la cosa. In realtà poi sono riuscito a sistemare tutto e sono andato lì nel settembre del 2011, per un mese, e l’ho conosciuto bene.
Era una persona molto divertente, molto generosa, molto colta. È stato un bellissimo mese.
Eravamo in quattro a partecipare a quell’esperienza: io e altri tre illustratori. Purtroppo, i primissimi giorni in cui eravamo lì, Sendak, dopo averci ricevuti e accolti, si è rivelato un po’… diciamo… depresso. Era triste, cosa che gli succedeva spesso, in quel periodo soprattutto, perché era morto, a Zurigo, Daniel Keel, un suo amico carissimo, il fondatore di Diogenes, la casa editrice che lo pubblicava in Svizzera. Ma come già detto, era soprattutto un suo caro amico, poi era anche l’editore che lo pubblicava in lingua tedesca, e pubblicava tutto Edward Gorey e tutto Tomi Ungerer.
Comunque, conoscerlo di persona è stato bellissimo: ho avuto modo di passare un bel po’ di tempo con lui, a chiacchierare, a guardare i suoi lavori, a guardare le sue collezioni. Aveva una bellissima collezione di disegni originali, di stampe, di libri ovviamente, di giocattoli…

P: In cosa consisteva la fellowship?

S: Semplicemente ti metteva a disposizione, per un mese, una stanza e uno studio in una casa che aveva comprato vicino alla sua bellissima residenza, una tipica casa di campagna del New England del Settecento. Eravamo in Connecticut, non lontanissimi da New York. A un’ora e mezza da New York City, una casa immersa nel bosco, proprio isolata.
Vicino a casa sua c’era quest’altra casa che aveva comprato proprio per adibirla a ospitare quattro illustratori alla volta. Non avevamo nessun impegno, nessun obbligo. Ti metteva a disposizione questo spazio e questo tempo e tu facevi quello che volevi. Ti diceva chiaramente dall’inizio: «Non voglio che pensiate che mi aspetto che facciate qualcosa… cioè, se state lì un mese a far niente, a me va bene, non importa. L’importante è che siate a vostro agio. E se poi avete voglia di disegnare e di mostrarmi quello che fate, benissimo. Però non c’è nessun obbligo. Non richiedo niente. Vi do questo spazio, questo tempo!»
Ecco… ce l’aveva, molto giustamente, con il nuovo mercato editoriale americano dei libri per l’infanzia, che, come del resto un po’ anche in Italia, è molto più interessato al commercio e alla vendita piuttosto che alla qualità dei libri pubblicati.
Diceva che quando aveva cominciato lui a pubblicare, c’erano editor che coltivavano il tuo lavoro, avevano fiducia in te, ti scovavano e ti davano dei contratti per più libri, in modo che ti sentissi tranquillo dal punto di vista economico. Potevi fare delle cose senza l’angoscia di dover fare quello che il mercato si aspettava da te, ed era una bella relazione. Lui aveva avuto la fortuna di lavorare con Ursula Nordstrom, ad Harper and Row (poi HarperCollins).
Secondo lui, quello è il modo in cui un illustratore può sentirsi libero di fare le cose più belle e interessanti. Ma sapeva benissimo che ormai i giovani illustratori, come noi, dovevano fare i conti con le regole del mercato. E quelle regole erano cambiate. Quando aveva esordito lui, negli anni Cinquanta e Sessanta, l’ufficio marketing in una casa editrice per l’infanzia non esisteva neanche.
Queste cose sono cominciate veramente negli anni Settanta e Ottanta. Poi dagli anni Novanta in avanti sempre di più.
E allora diceva: «Qui, cercate di dimenticarvi come funziona il mondo vero e sentitevi liberi di sperimentare, di fare quello che volete. Oppure, se avete bisogno solo di una pausa, non dovete far niente.»
Infatti, io ho camminato molto per i boschi, chiacchierato con lui, chiacchierato con i miei fellow fellows… Con uno in particolare siamo ancora molto amici, Ali Bahrampour. Non è mai stato pubblicato in Italia, però proverò a farlo vedere in giro perché è molto bravo.
Insomma è stata un’esperienza bellissima. Non potevo desiderare di più, ho conosciuto Sendak: era molto simpatico, era molto generoso, molto dolce. Aveva questa reputazione, negli Stati Uniti, di essere un vecchio isolato e brontolone. In realtà, secondo me, era l’effetto del suo umorismo nero e del suo sarcasmo, che usava anche per difendersi, perché per la sua popolarità probabilmente riceveva richieste su richieste di interviste. E allora faceva finta di essere burbero, così lo lasciavano in pace.

P: Sto guardando In the Dumps di Art Spiegelman e Sendak, pubblicato sul “New Yorker”. Sendak si disegna nel bosco, che probabilmente è quello dietro casa sua nel Connecticut, con Spiegelman e con un cane lupo. Mentre Spiegelman disegna sé stesso come siamo abituati a vederlo quando si disegna con fattezze umane (e non topesche), Sendak si rappresenta come una persona arcigna che può sfoderare espressioni malvagie che rasentano la follia.

S: Sì, sì, un vecchio pazzo. Gli piaceva fingersi così. Tra l’altro, usava quel personaggio anche per tenere alla larga i suoi vicini. Cioè… la casa era isolata, però viveva altra gente in quella zona rurale. Era gente con i soldi e con le case gigantesche, di cattivo gusto. Va be’… di soldi ne aveva anche Sendak, ovviamente, ma quelli erano repubblicani e conservatori e le volte che ci aveva a che fare, magari li incontrava per strada, li trattava sempre con molto sarcasmo, divertendosi a prenderli in giro e farli arrabbiare.

Arabella Urania Strange: Hai detto una cosa che non so se ho capito bene. Hai detto che era un po’ depresso perché aveva perso un amico, ma che era comunque soggetto alla depressione.

S: Sì, be’… aveva, da quando era ragazzo, una tendenza alla depressione. Secondo me, dai racconti che ha fatto, dalle cose che ho letto, dalle testimonianze di chi lo conosceva meglio di me, aveva un po’ questa tendenza. Aveva sempre paura di essere malato e poi si lasciava spesso prendere da malinconie. Secondo me, si vede anche nel suo lavoro.

A: Infatti, l’ho sempre considerato uno che sfida l’oscurità e me lo stai confermando.

S: Sì, sì. Quando era piccolo, aveva quest’idea che la morte incombe anche e comunque sui bambini. Diceva di aver sempre avuto questa consapevolezza della pesantezza del vivere. Però, magari, è proprio quello che l’ha spinto a reagire e a realizzare i suoi libri. Quindi potremmo considerare una fortuna che fosse così. Poi, di certo, ci ricamava su, eh! Perché era anche bravo a raccontare le cose, ad abbellirle, a renderle più interessanti, più divertenti, più aneddotiche.
Per esempio, ma questa dovrebbe essere autentica, si ricordava quando era piccolissimo e aveva visto… non so se vi ricordate il Lindbergh baby… sapete, il bambino di Charles Lindbergh, il trasvolatore atlantico?

A: È stato un caso sensazionale che ha coinvolto l’opinione pubblica mondiale.

S: Esatto. È stato rapito il bambino di Lindbergh, infante. E questo bambino non è stato trovato per oltre due mesi. A un certo punto, lo hanno trovato morto. Sendak diceva di ricordarsi di aver visto su un’edizione di non so che giornale newyorkese la foto del bambino morto. Poi quella foto è stata ritirata per volere della famiglia, però Sendak si ricordava di averla vista. Abitava a Brooklyn e, magari, aveva visto il giornale tra le mani di uno strillone o nell’espositore di un negozio. Aveva visto la foto del bambino morto, e aveva maturato questo pensiero: «Se un bambino ricco, bello, biondo… ariano… può essere rapito e ucciso, a me, che sono un bambino povero – che, poi, non era così povero… cioè, apparteneva alla classe media – un bambino non ricco, un bambino ebreo, un bambino piccolotto e malaticcio… chissà cosa mi può succedere?»
Diceva di essere cresciuto con quella paura, con quell’idea, con quella sensazione di precarietà costante della vita.

P: Facciamo un salto a oggi e al fatto che, in queste settimane, Adelphi pubblicherà contemporaneamente quattro titoli straordinari di Maurice Sendak, finora inediti in italiano.

S: Adelphi ha acquisito i diritti di tutti i libri di Maurice Sendak e, tra marzo e aprile, ne escono proprio quattro. Il primo, in ordine cronologico, in originale si chiama The Nutshell Library. In realtà sono quattro libricini in cofanetto pubblicati nel 1962 negli Stati Uniti e, adesso, per la prima volta in italiano con il titolo Gusci di noce.
Poi c’è, credo anche questo del 1962, un libro solo illustrato da Sendak che ho qua perché mi è arrivato oggi. Si chiama Il Signor Coniglio e il regalo perfetto ed è scritto da Charlotte Zolotow. È illustrato in modo molto diverso dalle tante altre cose che ha fatto. Era un periodo in cui lui guardava molto Winslow Homer. Aveva questi amori platonici per certi artisti, ma forse anche un po’ più che platonici. Vere e proprie passioni.

P: Parla molto dei suoi grandi amori inCaldecott & Co: Note su libri e immagini, pubblicato tre anni fa da Edizioni Junior.

S: Quel libro è fantastico!

P: Quel libro è bellissimo, meraviglioso. È meravigliosa anche la tua prefazione.

S: Ma… va be’… non dovevi dirlo. Grazie, ehm… E… niente… oltre quei due libri, c’è Outside Over There che in italiano s’intitola Nel mondo là fuori. E infine Bumble-Ardy che ho tradotto io come Bombo-Lardo.

P: Partiamo da quello che è l’ultimo libro di Sendak, pubblicato mentre lui era ancora in vita.

S: Bumble-Ardy ha un titolo difficilissimo da tradurre. Trasporlo in Bombo-Lardo è stata un’illuminazione fortunata. Mi sono trovato a tradurre un libro di Sendak e non sono un vero traduttore. In passato ho tradotto delle cose, ma non mi considero un traduttore vero e proprio. Conosco Virginia Portioli della casa editrice LupoGuido che sta facendo un lavoro meraviglioso di proposta e riproposta di classici della letteratura per l’infanzia più o meno conosciuti. Libri più o meno noti, magari mai pubblicati in Italia o pubblicati in passato in modo non soddisfacente. Lei li scova e li pubblica benissimo: sta facendo un lavoro eccezionale. Un paio di anni fa, chiacchierando con lei alla Fiera di Bologna, le ho chiesto se conoscesse James Marshall, perché questo autore straordinario, in Italia, non lo conosce nessuno. Non ne aveva mai sentito parlare. Tornato a casa, ho fatto un po’ di foto dei suoi libri, soprattutto di George e Martha, che è forse la sua cosa migliore. Marshall le è piaciuto moltissimo e ha preso i suoi diritti per l’Italia di alcuni libri. Poi mi ha chiesto di tradurli. E, boh, sinceramente non me l’aspettavo, perché non sono un traduttore, come dicevo. Però mi sono detto, se dovessi tradurre mai qualcosa, quei libri sarebbero perfetti perché li so a memoria e li amo. Allora ho provato e mi sono divertito molto. A Virginia, bontà sua, sembrava un buon lavoro. Per cui quelle sono state le mie prime traduzioni. Poi un giorno, l’autunno scorso, mi ha contattato Lisa Topi.
Lisa è una bravissima traduttrice che aveva già tradotto Where the Wild Things Are e In the Night Kitchen di Sendak per Adelphi. È anche una traduttrice di altri libri, libri per adulti, cose che noi non leggiamo…

P: Ah… se non hanno le figure, io no, di sicuro. Me ne guardo bene.

S: E anche io… Lisa Topi, dicevo, che è bravissima, stava per tradurre alcuni libri di Sendak, tra cui Bumble-Ardy. Ma con quel libro per qualche motivo non ci si ritrovava e aveva pensato che, forse, ci voleva un autore che lo conoscesse bene e che, più che tradurlo, lo riscrivesse, in un certo senso. Un po’ come si fa con la poesia. Insomma, ho deciso di provarci, Adelphi era d’accordo e così mi son messo al lavoro. Adoro quel libro e ho con lui anche una storia personale che adesso provo a riassumere. Comunque, immediatamente mi sono reso conto che sarebbe stato un lavoro difficilissimo. Però ho la fortuna di conoscere alcune persone che hanno lavorato a questo libro, soprattutto Michael di Capua, l’editor originale. Sendak ha avuto due editor: Ursula Nordstrom e di Capua.
Conoscendolo, ho potuto chiamarlo per chiedergli chiarimenti su alcune cose che ci sono nel libro, nel testo, ma anche nei disegni. Ci sono cose un po’ complesse in quel libro e, per tradurlo, dovevo capire cosa significassero, capire le intenzioni di Maurice.
Per esempio, non capivo perché avesse scelto quel nome, cosa significasse. Poteva anche essere che lo aveva scelto perché funzionava semplicemente come suono, chissà. Ho scoperto che neanche di Capua sapeva esattamente da dove venisse, quel nome. In realtà c’è stato un breve cartone animato, una piccola animazione ideata da Sendak per Sesame Street, all’inizio degli anni Settanta, che si chiamava proprio Bumble-Ardy e parlava di un bambino che fa una festa di compleanno e arrivano dei maiali e gli distruggono la casa. Per cui, probabilmente, quell’animazione è il seme di questo libro di Sendak, anche se poi finisce lì e non ci sono altre somiglianze. Mi sto perdendo…

P: Torniamo al nome, che poi ci devi raccontare la storia personale con quel libro.

S: Ah, sì! “Bumble bee”, in inglese, è il calabrone, il bombo. “Ardy”, invece, non l’abbiamo mai capito. Però il libro è tutto pieno di riferimenti al cibo, come del resto tutta l’opera di Sendak è colma di parallelismi tra il cibo, il mangiare, il divorare e l’amore; Bumble-Ardy è un maiale i cui genitori vengono mangiati, e ci sono altri riferimenti al maiale come cibo. Da lì l’idea di usare Lardo per Ardy, da cui Bombo-Lardo, che ricalca bene il suono dell’originale. Poi sono molte le cose all’interno del libro che ho capito come tradurre chiacchierando con di Capua.
Poi Bumble-Ardy è uscito proprio nei giorni della mia Fellowship, mentre io ero lì con lui. È l’ultimo libro pubblicato in vita da Maurice. Poi ne sono usciti altri ma postumi. Ero con lui quando il libro gli è arrivato. Gli sono arrivati gli scatoloni con le copie da autografare.
Confesso che quel libro è stato un po’ difficile per me da capire. Ma è un libro bellissimo, i disegni sono meravigliosi. Mi hanno fatto subito pensare a James Ensor per quelle scene con queste parate di personaggi mascherati. Con Sendak non ne ho mai parlato, ma altri che lo conoscevano mi hanno detto che Ensor gli piaceva molto e che è possibilissimo che pensasse a lui mentre lavorava al libro.
Ero lì anche quando ci sono stati i primi commenti, le prime critiche. E questo è un libro che non è stato amato quanto gli altri.
Era una cosa che capitava spesso con i libri di Sendak. All’inizio venivano guardati con sospetto e poi sono diventati dei classici che rimangono, per decenni e decenni, nelle biblioteche e nelle librerie. Anche Where the Wild Things Are ha avuto un destino simile. All’inizio era stato molto criticato, poi però è rimasto ed è diventato quello che sappiamo.

P: Anche In the Night Kitchen, che, in più, aveva il bambino nudo.

S: Outside Over There, consideratotroppo complicato e troppo raffinato…

P: Ero convinto che questi tre libri di Sendak: Where the Wild Things Are, In the Night Kitchen e Outside Over There, costituissero la sua trilogia fondante. Parlando con te e guardando questo libro ho capito che Bumble-Ardy è il quarto libro da aggiungere a quei tre per dare un senso compiuto al suo lavoro. Per vari motivi: per la densità di riferimenti, per la quantità di elementi che Sendak ci ha messo dentro, per l’assenza dei genitori e la morte in agguato, per il rapporto tra cibo e amore e, alla fine, anche per quell’esplosione di pagine senza parole. Una sequenza di doppie pagine prive di testo, come aveva fatto, all’inizio degli anni Sessanta, in Wild Things, cambiando il senso del picture book. Aveva trasformato quest’idea di immagine al servizio della parola mostrandoci disegni che potevano gridare: «the wild rumpus», «la ridda selvaggia», «il finimondo».
Leggendo la tua prefazione a Caldecott & Co: Note su libri e immagini ho capito che quel libro è importantissimo. Vorrei che me lo raccontassi e mi raccontassi anche quel finale di cibo, di morte e di amore.

S: Questo libro, secondo me, è di una forza notevole e capisco benissimo che possa disturbare. Anche se visualmente è un libro piacevole, divertente, pieno di cose da vedere. C’è questa alternanza di figure scontornate e immagini a tutta pagina, senza bordo, full bleed, proprio come in Wild Things. Sendak usava molto queste immagini a tutta pagina.

P: Aveva proprio definito il modo in cui guardiamo quelle pagine. In Where The Wild Things Are aveva preso un’immagine piccola e l’aveva fatta crescere, crescere, crescere fino a farle riempire le due pagine, il libro.

S: Comunque a parte il disegno, la forza di Bumble-Ardy, secondo me, è proprio questo personaggino, questo piccolino che, per fortuna, sopravvive alla sua famiglia d’origine. Perché il padre e la madre non erano bravi genitori. Quando lui ha otto anni, i genitori spariscono, muoiono, vengono mangiati, e lui rimane orfano. Per fortuna c’è zia Adelina che lo adotta e, finalmente, per i suoi nove anni potrà festeggiare per la prima volta un suo compleanno. La festa che organizza diventa un disastro, perché tutti questi maiali che ha invitato trovandoli per strada, non avendo amici, arrivano e gli sfasciano la casa, trangugiando bignè e tracannando salamoia… Ho avuto la fortuna di vedere un prototipo del libro che Sendak aveva fatto forse negli anni Novanta. Me l’ha gentilmente mandato in visione Lynn Caponera, che di Sendak è stata amica e assistente, fin dagli anni ’70. In quella prima versione i personaggi bevevano proprio vino, wine. Poi ha cambiato idea, lui o gliel’ha fatta cambiare l’editore, ed è diventata salamoia, brine. Tanto che, a un certo punto, benché non lo avessi mai sentito usato in quel modo, ho pensato che potesse essere slang per indicare l’alcol. Ma non è così: è solo salamoia. Il testo originale è pieno di rime in ÀIN: swine, brine, nine… che in italiano non ho potuto mantenere. All’inizio ero terrorizzato da quelle rime: sono orribili in italiano, suonano malissimo, maiale ale ale ale…
Ho visto l’edizione spagnola e lì hanno deciso di far così, di tenere la stessa rima per tutto il testo. ÓN ÓN ÓN… Dopo un po’, dà proprio fastidio.
Allora ho cercato di mantenere il più possibile la struttura metrica originale, mentre le rime le ho fatte funzionare in un altro modo, adattandole e variandole e preferendo essere più fedele ai soggetti, a quello che dicevano, piuttosto che a una rima ricorrente.

P: Raccontaci quella cosa terribile nel finale.

S: Il finale è fantastico. Dunque, Bumble-Ardy fa questa festa con i maiali che combinano un disastro. Finalmente zia Adelina torna a casa pensando di farsi la festicciola in casa da sola col suo nipotino e vede tutto questo finimondo. Si infuria e caccia via tutti quei maiali, minacciandoli di farli diventare ragù. È proprio infuriata anche con il nipotino e lui, spaventatissimo, con questo stupido vestito da cowboy che ha indosso, dice: «I promise, I swear, I will never turn ten», «prometto, giuro che non compirò mai dieci anni», non ti darò più noia, morirò prima del prossimo compleanno. (La traduzione finale è “Prometto che gli anni mai più compirò.”) E lo dice in un modo così sincero che capisci che lo sta davvero promettendo. Come a dire: «Ho capito, ho sbagliato, non me lo merito un altro compleanno e pagherò con la vita».
E c’è questo presentimento di morte che, va be’, la zia poi si intenerisce e lo consola, però… insomma… questo pensiero di morte rimane: Bumble-Ardy è consapevolissimo che, al prossimo errore, finirà in salmì come i genitori o cotto nel ragù come stava per capitare agli invitati alla festa.

A: Mentre parlavi, facevo una considerazione. Sono una bibliotecaria e uso questi libri con i bambini. E per i bambini la morte non è spaventosa, tranne che per Sendak che ha visto la foto di Baby Lindbergh. Per i bambini, che qualcuno muoia è assolutamente una cosa sopportabile. Però poi c’è il cibo che in Sendak ritorna così spesso. In Where the Wild Things Are c’è questa doppiezza incredibile dei mostri selvaggi che amano così tanto Max che lo mangerebbero (e uno non può non pensare all’amore divorante dei genitori) e contemporaneamente però l’amore dei genitori ritorna come la cena, che era ancora calda, che aspetta Max che torna.

S: Certo, mangiare può essere consolatorio e può anche essere una minaccia mortale. Poi mi ricordo che lui aveva fatto una serie di disegni, di sequenze, penso le avesse fatte per se stesso; si chiamano Fantasy Sketches, e ce n’è una in cui c’è una mamma che sta allattando il bambino e il bambino, un infante, mangia, mangia, mangia, e diventa sempre più grande, pur rimanendo bambino. E, alla fine, divora la madre.

P: Ti va di parlare di Outside Over There? Sendak ha fatto Wild Things negli anni Sessanta, In the Night Kitchen nei Settanta e Outside negli Ottanta: un grande libro per decennio. Mi pare che Outside Over There sia il modo in cui l’autore scardina l’idea che avevamo di lui. Passa da due bambini come Max e Mickey che hanno genitori invisibili, che si sentono solo in forma di grida o di rumori in cucina, a un mondo in cui c’è una bambina quasi adolescente che diventa madre di sua madre e di un padre assente, e da un mondo di mostri veri che stanno sull’isola e ti vogliono mangiare o di pasticceri dalle fattezze di Oliver Hardy che fanno rumori in cucina a delle creaturine che rapiscono un infante e lo trascinano in un altro mondo. Nel mondo là fuori, appunto, come recita il nuovo titolo italiano.

S: Sendak diceva che Outside Over There era il libro a cui era più affezionato, il libro di cui era più soddisfatto. Lo stile, il modo di disegnare, che ha usato per quel libro era inedito. Fino ad allora non aveva mai fatto cose così, poi ha usato quel modo per fare le scenografie per Il Flauto Magico di Mozart e lì si capiscono i riferimenti al Romanticismo tedesco, cui lui era interessato, o a certi pittori dell’Ottocento.
Ecco… quando si dice un libro per bambini, un picture book, un libro a figure e ci si chiede se è per bambini o per adulti… quello per chi è? Per chi lo vuole leggere, per chiunque. Può leggerlo benissimo un bambino di tre anni. Può prenderlo in mano e guardare le figure, guardare cosa succede: è pieno di cose bellissime; è pieno di cose spaventose. Ma un bambino di due o tre anni non si accorge che sono spaventose. È ridicolo, no?, quando si dice «Questo libro farà spaventare un bambino!» Un bambino si può spaventare per la forma di una pagnotta che ha una faccia e magari non accorgersi che c’è un mostro potenzialmente terrificante: magari invece quello lo fa ridere. Dire che un libro non è adatto ai bambini è ridicolo. A quali bambini? Di quali bambini stanno parlando? Ce ne sono tanti. Nessuno direbbe mai che un libro non è adatto agli adulti dai quaranta ai sessant’anni. Sarebbe ridicolo. Sembra invece normale dirlo di un libro per bambini. «Questo libro non è per i bambini al di sotto dei sei anni». Sei: un numero magico.
Va be’… scusa, mi è scappata la tirata polemica.
Outside Over There è un libro a figure, un picture book, per chiunque voglia leggerlo. E funziona in tutti i modi che vuoi. È molto bello. È molto succinto. È profondissimo. È misterioso. Se vuoi leggerci solo la storia, the plain story, quella che emerge in superficie, lo puoi fare. Ma ci sono un sacco di cose che le parole nascondono. Il testo di quel libro è veramente… leggero e profondo allo stesso tempo. Così leggero che lo puoi leggere come una canzone. Però quando ci pensi un momento, quando lo leggi guardando le figure, quando lo analizzi, fai tuo quel libro. C’è di tutto: con quel libro puoi starci per ore. Ed è un picture book di quaranta pagine. È densissimo: dentro c’è tutto. In ogni disegno c’è un mondo. Anzi, di mondi ce ne sono due: Il mondo cosiddetto vero, quello realistico, e il mondo misterioso…

P: Quello in cui si entra tuffandosi all’indietro, di schiena.

S: Esatto. Un mondo misterioso e simbolico che, però, quando lo vedi fatto da lui funziona, sembra vero. Ci credi.

P: Il cane lupo presente nel libro era il suo?

S: Sì. Ha avuto molti cani lupo. Quello era uno dei suoi. Di quello non so il nome. Quando l’ho conosciuto, il suo ultimo cane era Herman, e si chiamava così in onore di Herman Melville, uno dei suoi autori preferiti. Herman era un cane lupo come quello, enorme ma dolcissimo. Però mi ricordo che, quando passeggiavamo per il bosco, lo teneva al guinzaglio. Un po’ lo faceva tenere a me, perché lui camminava col bastone ed era un po’ debole. Mi diceva che Herman era bravissimo, un cane dolcissimo, che rispondeva sempre ai comandi, affidabilissimo… L’unica cosa era che, se vedeva uno scoiattolo, partiva per mangiarselo. Per cui aveva un po’ paura che prima o poi Herman l’avrebbe trascinato nel bosco facendolo schiantare contro gli alberi.
Aveva sempre un cane, aveva un amore sconfinato per i cani, e spesso i suoi cani compaiono nei suoi libri.
Mi aveva detto che, quando aveva comprato quel cane lupo, gli avevano dato un foglio coi comandi, in tedesco. A lui non piaceva tanto l’idea: c’erano dei comandi tipo «Attacca!» e «Mordi!». Allora ha buttato quel foglio perché aveva paura di dire per sbaglio una di quelle parole. Herman era dolcissimo: c’è una foto in cui lo abbraccio e giochiamo per terra.
Era un cane fantastico!

P: Prima di chiudere, mi dici se hai avuto modo di parlare con Sendak del suo amore per i fumetti?

S: Be‘… Adorava i fumetti. Come molti bambini americani, da piccolo leggeva i fumetti tutti i giorni sui quotidiani. E poi lui era della generazione che aveva già i comic book, gli albi a fumetti. Negli Stati Uniti non c’erano le edicole come da noi. C’erano negozi un po’ generici che vendevano sia i quotidiani sia i fumetti, oltre a cibo, caramelle, bevande, detersivi, eccetera. Adesso la stampa periodica è un po’ sparita. La settimana scorsa ero a New York e, a Brooklyn, per trovare una copia del “New York Times” mi sono dovuto fare dieci isolati. Una cosa impensabile una volta. Comunque, adorava i fumetti. Aveva ovviamente i suoi amori: Winsor McCay su tutti, come si vede nel suo lavoro e di cui parlava spesso.
Aveva anche una collezione di originali: aveva una bellissima, enorme tavola di Little Nemo. Non vorrei sbagliarmi, ma mi sembra che uno dei primi lavori che avesse fatto sia stato l’assistente di Milt Gross, che era una vignettista piuttosto famoso negli anni Trenta e Quaranta. Era davvero un appassionato di fumetti e aveva un grande amore per Mickey Mouse. Gli piaceva il Topolino delle strisce di Floyd Gottfredson, ma amava soprattutto quello dei cartoni animati, dall’inizio a metà anni Trenta. Mickey Mouse e Maurice sono nati entrambi nel 1928.
Il suo amore per i fumetti è evidente in In the Night Kitchen, che secondo me è un comic book vero e proprio. È proprio un fumetto travestito da picture book. Oltre a quello, di fumetti ne ha fatti altri.

P: Io conosco Some Swell Pup Or Are You Sure You Want A Dog?.

S: Quello, se non sbaglio, lo aveva fatto come omaggio a un convento in cui dei monaci, forse dei francescani, di New York, addestrano i cani. Per altro è un libro pieno di elementi che ci sono anche in Outside Over There. Mi pare che ci siano pochi anni di distanza tra i due. E nei due libri c’è un cane lupo che potrebbe essere lo stesso.

P: Ho ancora un sacco di cose che vorrei chiederti, ma dobbiamo proprio concludere. E non lo so come finiamo.

S: Paolo, finiamo male.

P: In pieno spirito Sendak. Invece contraddiciamolo e finiamola bene. Con un abbraccio.

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