Non so perché la morte di Max Capa sia stata resa pubblica solo dopo quattro mesi. Mi piace immaginare che sia una sua caparbia decisione di sfuggire a tutti i radar, compreso quello della Grande Sterminatrice. Del resto, è il destino di ogni eliografia – metodo che ha usato per molte sue fanzine – che, esposta alla luce, finisce per svanire. Meglio restare nell’oscurità del sottosuolo. Con Capa sparisce LA traccia ribelle del fumetto, mai addomesticata. Ricordo quando ci scambiammo mail per questa intervista, lui era in Francia e non la facemmo a voce. I suoi testi avevano maiuscole, trattini e virgolette ovunque, e questo – mi ricordo – faceva sentire uno strano sottofondo futurista. Parlammo d’estate e uscì a dicembre sul n.151 di “Blue”, perché la redazione era tutta focalizzata a fare il numero 150 e il primo spazio libero era quello. La pubblichiamo qui di seguito con qualche minimo edit. Max Capa non l’ho incontrato per altri 15 anni. Una sera ad AFA, il festival milanese di fumetti underground, c’era una pazza conferenza psichedelico situazionista. Con lui erano Enzo Jannuzzi, Matteo Guarnaccia, Marcello Baraghini e Cataldo Dino Meo (Gatti Selvaggi). Moderava Gianluca Umiliacchi, e organizzava Ivan Hurricane. Nello Spazio Galileo del Leoncavallo, dove si svolgeva il festival, c’era anche la sua mostra, fogli appesi ovunque. E lui fumava la pipa. Ci siamo fermati fuori a parlare. Raccontava storie, perdeva il filo e lo riavvolgeva partendo da un’altra parte, ma non parlava con le maiuscole, era gentile e affettuoso. L’ho salutato con l’idea che era stato un momento unico, che non ci saremmo visti più. Oltre tutto quello che ha fatto di fumetti e stampa, oltre tutta la sua carica straniante e situazionista, radicale e destrutturante, c’è una cosa che ha inventato, Rumore, questo festival sulla diga del Ticino, in contemporanea al festival di Re Nudo. In apparenza un suicidio, visto il richiamo di massa dell’altro evento. In realtà questa che lui chiamava Situazione Creativa è l’invenzione di un festival autoconvocato e autogestito. Radicale per davvero. Underground dell’underground, invincibile e invisibile, come lui. Il che, come direbbe, è sempre meglio di niente.
da: “Blue” anno XIII n°151 – dicembre 2003
In esclusiva per “Blue” l’intervista a Max Capa agitatore di un segno contropelo e di storie radicali. L’anima nera di “Puzz”, la mitica rivista dell’underground italiano.
Ci sono storie che camminano sotto i riflettori e storie che se ne restano in disparte. Storie che covano sotto la cenere del fuoco di cui hanno bruciato veloci. Queste qui sono le storie a cui vogliamo bene. Ci sembra di essere stati bravi a scovarle, a stanarle. Sono storie che è difficile che muoiano, come ti ci fai vicino le senti ancora vociare. Alle volte gracchiare. È il caso ma, guardate bene è un complimento, di «PUZZ, pubblicazione degli ANNI ’70 per tanti versi irregolare, inqualificabile e ben anormale» un’astronave narrativa che l’instancabile Max Capa ha pilotato attraverso gli anni settanta e fino a qui ed ora in questo libro allegro, dispettoso, instabile: PUZZ & CO. Monografia illustrata d’una disfatta riuscita curato da Atelier Capa e appena uscito per Nautilus di Torino. Un lavoro che restituisce passione, opera, creazioni, drammi e violenta ironia di un’intera generazione di autori, attraverso un segno che ancora porta intenso l’odore di ammoniaca delle copie eliografiche su cui era stampato. Di queste passioni e delle folaghe nere che le popolano, parliamo con Max Capa oggi, autunno duemilatrè.
Philopat in Costretti a sanguinare, una storia alle origini del punk italiano, titola il capitolo sulla storia del Virus di Milano: “non c’è rivoluzione senza investimento libidinale“, una frase di Deleuze che risuona nella testa dei ragazzini di allora. Credo che dalle tue parti questa frase fosse pratica quotidiana, che in qualche modo sia dietro a tutta la tua storia. Credo sia il motore per immaginare e attraversare le fatiche dell’autoproduzione.
Max Capa: «Libidinale, certo, e direi magari sensuale. Il fatto di sentirsi dentro e senza separazione – con pienezza – in quel che si fa, disegno o pubblicazione, azione o contatto umano. Poi negli anni ottanta e novanta ho cercato di ritrovare lo stesso spessore nella pittura, creando gruppi e montando piccole e grosse esposizioni, ma tutto era assai diverso, forse anche per gli “artisti” mossi da un certo opportunismo che poco concerne il sentirsi davvero insieme in una operazione comune. Adesso tutto questo è ben lontano e se ne resta una traccia residua questa è negativa, un vizio.
Il vizio è l’abitudine di quel che bello è stato e che non lo è più talmente: persa ‘una sostanza’ sensuale trascini nei tuoi giorni il suo spettro che insieme alle altre poche TUE cose ti dà almeno l’impressione di stare psicologicamente in piedi. E tutto si sposta un poco o tanto altrove. E l’isolamento diventa una punizione necessaria. Lo scontro diuturno con la realtà pur se abbondantemente inquinata – ma non per questo indebolita – ti poneva meticolosamente fra i perdenti e, di sicuro, occorre essere sensuali, convinti e caldi di passione per non essere fatti a pezzi seduta stante. Ma, man mano poi, la tortura della goccia cinese che è la realtà (la forza delle cose) punisce la differenza che hai voluto essere. Se la differenza è una forza di rottura portata fino agli estremi limiti, si capisce allora la brevità d’ogni impulso e fatto rivoluzionario. L’estremo vivibile diventa presto invivibile, costretto a fare i conti con i conti. E magari, con sé stesso. Come una farfalla che nei suoi scarsi giorni poco si sente d’essere poi imbalsamata e fissata con uno spillo dentro un presentoir da collezionista.
Quella che tu chiami ‘autoproduzione’ – certo a ragione, ma il termine mi piace poco – non è altro che l’immenso piacere di fare delle creazioni sregolate, di farle circolare oltre e fuori i territori ordinari e sotto controllo, per vedere pure cosa succede: – ironico – in questo caso la fatica e il rischio che sono enormi ti sembrano gioco. Una vera goduria, ma devastante e – in fin dei conti – autodistruttiva. Costretta a fare i conti con i conti. E magari, con sé stessa. Poi l’ellissi del grido selvaggio si chiude senza scampo e se non sta attento, il grido, il grido si rinchiude in un ghetto.»
Cerco di immaginare le atmosfere fumose, il racconto che fai di come è nato il nome di Puzz – che come dada è «solo puzz e niente altro», o del Santamonica Rockfestival, la scelta di una strada tortuosa come dici tu ‘sgradevole‘ per raccontare il proprio mondo. Ecco con te vorrei parlare anche di questo, della sgradevole indispensabile autonomia delle intelligenze.
MC: «Sgradevole, certo, del resto, queste conseguenze caratteriali (sgradevoli) sono del tutto inevitabili. È come per fare una frittata: non si può sperare di non rompere l’uovo, il guscio. Con l’aiuto di una sostanza psicostimolante come un bambinetto sperimentatore ho voluto immaginare (già allora) di poter fare una frittata con dodici uova, senza rompere il guscio: mi son trovato con dodicimila uova ben colorate in perenne movimento psichedelico, ma senza frittata. Ci sono delle impossibilità scientificamente confermate. Se si muove il segno in contropelo è più che facile che il personaggio risulti sgradevole. Se il disegnare in contropelo diventa innato, non puoi scapparci, sei un disegnatore loser, finito. Come mi diceva la tale critica d’arte: – La vostra pittura è davvero di difficile accesso, sembra quasi che voi non amiate la gente…
Per altro, siccome la mia pittura attuale è impregnata – in conseguenza – dai miei passati frastornamenti grafici, deriva dal fumetto, riprende personaggi e bizzarrie già tracciate altrove nel mio tempo espressivo, quasi tutti – tranne pochi – non capiscono come mai questa base di partenza ‘nazional-popolare’ non diventi qualcosa di intellettualmente e visivamente piacevole sul tipo della POP ART o della NOUVELLE FIGURATION che riprendono/utilizzano la forma fumetto e i suoi stilemi semantici. Probabilmente è perché, avendo disegnato dei ‘fumetti’, non riesco a manipolarli dall’esterno.
Ma la questione è ben più essenziale. Per me è importante che un personaggio e la sua messa in azione (messa in scena grafica) non diventi MODA. È, la mia, un’eresia. Poiché, ad esempio, la più grande pubblicazione di fumetti italiana – L’IMMENSO “Linus” che non leggo più dal 1969 – non ha fatto altro che trasformare ogni fumetto in MODA per vendersi. In conseguenza: io non ho mai disegnato fumetti. Il che è alquanto vero. Nella pittura pure: se la pittura non diventa MODA essa non esiste, o quasi – vedi il caso del mediocre Modigliani, la cui funzione nella Storia dell’Arte è la medesima di quella di Brigitte Bardot nella Storia del Cinema.
A parte, ma non tanto, vale la pena di far notare come abbia creato più personaggi che disegnato i loro fumetti. Il piacere di dare forma a un carattere stilizzato mi è sempre stato superiore alla necessità di farlo lavorare, e farlo lavorare non basta: bisogna imprimergli il fascino necessario perché diventi moda e gradevole. Cosa assai superiore alle mie poche forze – e convinzioni. Tuttavia, i miei personaggi me la fanno pagare cara: per averli creati senza prendere cura di averli fatti “vivere” con continuità, per sfruttarli secondo gli usi correnti. Talvolta mi arrivano degli incubi, a questo proposito.»
Mi ricorda di qualcosa che ha detto Burroughs: “Non credo che sarò mai capace di scrivere un bestseller. Ho provato un paio di volte. Ma arrivo solo fino ad un certo punto e poi succede qualcosa.” E poi al posto di un bestseller faceva un cut-up. E ci riporta a te, a come scrivere/disegnare MULTIROBOT, un’opera collettiva fatta di ritagli come un cadavere squisito, forte più che di una storia di un linguaggio condiviso ed ERETICO. Credo sia questo uno dei segreti di queste opere di clandestinità: la forza di un linguaggio che sovrasta i mezzi che lo esprimono. Poco conta la chiarezza del segno o della gabbia.
MC: «Effettivamente, è piuttosto vero: MULTIROBOT è come un migliaio di uova strapazzate che un LINGUAGGIO che i sovrasta i mezzi che lo esprimono’, come dici tu, getta oltre i limiti e le qualità di ogni singolo uovo in un insieme non privo di una caotica ma superiore coerenza. Poco evidente, è certo, ma presente. Ben presente per chi sappia coglierla ‘sotto le righe’. Di sicuro il rispetto della triade fatidica UNITA’ di TEMPO, di LUOGO e d’AZIONE che fece e farà i bei giorni dello spettacolo manca pericolosamente. MULTIROBOT è un salto mortale senza rete, ma è pure ‘la storia’ del XX secolo sussunta alla robotizzazione capitalistica che utilizza ogni forma possibile di DISASTRI per dominare e riautentificarsi. Rimbambire e terrorizzare, per raggiungere i fini UTILITARI. MULTIROBOT siamo noi robot volenti o nolenti, presi nella macchina. Pure se i livelli di lettura di MULTIROBOT sono molteplici, questo mi pare l’essenziale.»
Mille uova e livelli strapazzati anche per questo libro che ho tra le mani PUZZ&CO. Monografia illustrata d’una disfatta riuscita, pieno di folaghe nere. Come dici tu «il segno non mente anche se ha un’aria vecchio stile, una patina suggestiva per ragazzotte di cattivo gusto». È una bella avventura questo libro che racconta di come il modo sbagliato possa essere proprio quello giusto.
MC: «PUZZ&CO è una monografia ben complessa che concerne venti anni di ‘lavoro’ di varie decine di ‘artisti’, ma certo tutti hanno lavorato dentro il modo sbagliato. In modo sbagliato. Se solo fossimo stati più furbi… – Tu con i tuoi fumetti, io con i miei quadri avremmo potuto far miliardi, e invece no. Quale sarà la spiegazione? – Daniele Oppi, del Guado. Ironico…
Certe cose son difficili da spiegare stando ai termini normali. Occorre un nuovo linguaggio. Questo linguaggio è implicito già in PUZZ&CO, se si vuole. Ma io resto diffidente. Da anni volevo fare questa monografia non perché ne avessi voglia, ma per sbarazzarmene, una cosa che DOVEVO fare. Come un dovere coniugale espletato verso una moglie che non si sente più. Certo ho ritrovato per momenti qualche vigoria, ma poco conta. “D’ora in poi di sicuro non avrò più mal di testa a questo proposito”, come direbbe il condannato che pone il collo sull’ovale fatidico della ghigliottina. Ognuno leggerà tutto questo nel modo che preferisce. Ma resta un documento abbondante che può essere in ogni momento riattivato. Non si tratta comunque di roba da museo. Vi esiste una grande libertà di lettura. Questo è l’essenziale.»
Sono storie e frammenti urbani comunque, raccontano atmosfere e avventure attraverso una metropoli che stava mutando nel profondo e che arriva a noi come una macchina di produzione in declino o già in fase di autodistruzione. Ma che può ancora produrre zone nascoste, mondi in cui raccontare e far crescere, anche davvero, sogni e desideri.
MC: «Sono arrivato a Milano nel ’63 per fare la Scuola di Giornalismo e un poco di Corso di Grafica Pubblicitaria (sic). Qualche anno appresso – dopo essere stato un tantino altrove, in Toscana e nel Friuli – ero già scontento di queste ipotesi. Ho vissuto Milano INSIDE, crescere, sollecitare, decadere, scoppiare e morire. È vero che le città talvolta non sono la semplice somma dei loro abitanti, costruzioni e attività, le vere città assumono – per momenti – un significato simbolico più largo e oserei dire utopico, in rapporto alla loro quantità umana. Firenze o Venezia nel 1469 non erano certo come Londra nel 1469. Milano è morta d’un tratto – per me – subito dopo il 12 dicembre 1969 – La Bomba di Piazza Fontana -, alcuni giorni dopo ho assistito ai terribili funerali delle vittime in Piazza Duomo, in un grigiore tremendo madido di nebbia e umidità ed ho avuto la netta impressione che la città era morta.
E non ho più cambiato idea. Poiché è vero. MULTIROBOT è ben ispirato da quella bomba senza paragoni con le altre successive, in MULTIROBOT i disastri servono a normalizzare una situazione sociale troppo accesa. Certo, “zone nascoste” si son create da questa morte, PUZZ, per esempio, e tante altre pestifere illuminazioni. Ma Milano la morta ha preso il sopravvento. In un libro enorme e mai finito (Danze di storpi nel pantano) e che non sarà mai pubblicato, parlo lungamente della morte di Milano, di questo fatto orribile della morte di una città, e delle danze strane di noi storpi esagitati e tragici.»
Autobio di Max Capa
Maximilian Capa, la cui impresa edile artigiana ha edificato queste 176 pagine di PUZZ&CO. dopo averne prodotto le fondamenta e il letame dal 1971 in poi, d’origine friulana è francese adesso, ma rimane italiano ed è nato in quel di Venezia (Vignesie). Pittore, ha coltivato fin qui nel suo jardin potager circa cinquecento tele e quadri su supporti assai diversi, fecondato a colori oggetti e muri, totemobiles, bandes-rouleaux/bandes-volantes. Graficamente, ha commesso varie migliaia di disegni, sparsi, di stampa e d’arte; parecchie storie illustrate (‘fumetti’) e strisce; alcuni libri.
Il che è sempre meglio di niente.
scheda del libro:
AA.VV. (realizzazione Atelier Capa):
PUZZ & CO. (1971-’78…1991)
Monografia illustrata d’una disfatta riuscita
Edizioni Nautilus, Torino, Giugno 2003
176 pg, un colore
formato mm210x224