di Vincenzo Sparagna, direttore di “Frigidaire” e “Il Nuovo Male”
Anche se di persona ho incontrato Max Capa solo qualche anno fa, al Leoncavallo di Milano durante quel fantastico incontro di intelligenze autonome che era AFA (Autoproduzioni Fichissime Anderground), lo conoscevo e apprezzavo sin dal 1977. Fu infatti quell’anno che mi imbattei a Roma, durante una visita alla libreria di Stampa Alternativa vicino Campo dei Fiori gestita da Flavio Varone, nel suo controgiornale di sballofumetti “Puzz”. Lo presi insieme ai primi due numeri semiclandestini di “Cannibale”, che l’allora sconosciuto Stefano Tamburini aveva appena stampato in pochissime copie. In quel periodo, da disoccupato militante, collaboravo gratuitamente con “Il Manifesto”, ma nello stesso tempo scrivevo per modestissimi pagamenti (cinquemila lire al pezzo) sulla pagina culturale del quotidiano comunista “Paese Sera”. E proprio su “Paese Sera”, tra un’intervista a Lelio Basso e un testo sulla teoria dello Stato, mi precipitai a recensire clamorosamente con due lunghissimi articoli, usciti a pochi giorni l’uno dall’altro, sia “Cannibale” che “Puzz”. Mi parevano infatti di gran lunga le più interessanti e innovative pubblicazioni di quel movimento del ’77, nel quale io stesso m’ero impegnato a tempo pieno. Di “Cannibale” mi avevano conquistato i fumetti/realtà, quella straordinaria rivoluzione narrativa, fredda, crudele, ironica e iperrealistica, che appena due anni dopo sarebbe stata una delle componenti fondamentali del mio/nostro “Frigidaire”. Di “Puzz” invece ammiravo, pur nella chiara distanza culturale e stilistica, l’esplosione di energia, la forza liberante del disordine grafico e formale, lo sberleffo senza censure. In quelle pagine ogni gabbia, ogni regola di leggibilità, ogni suggestione sia pure vagamente accademica, tutto era capovolto, stravolto, dissolto, soffiava un uragano punk allo stato puro, s’avvertiva un terremoto anarchico, un ribollire schiumoso di rabbia senza compiacimenti, una rabbia materiale, dolente, beffarda, irriducibile, carica di disprezzo e insieme di pietà per la pazzia inconsapevole del mondo borghese, oscenamente quantitativo anche nelle sue vesti sedicenti di sinistra. Non era quello di “Puzz” un grido politico, non voleva convincere nessuno, emergeva come una lingua ignota, il barrito di un branco selvaggio. Non sapevo chi fosse questo Max Capa, un nome collettivo, un giovane solitario, un parente di Robert Capa. Chiunque fosse lo sentivo diverso da me, eppure parte della mia stessa inquieta, scombinata e devastata tribù artistica e umana.