Giorgio Gaber ha inciso per la prima volta Qualcuno era comunista ne Il Teatro Canzone, doppio album live che riprendeva la stagione teatrale 1991-92. Quella, per capirci, in cui Gaber portava in scena una raccolta antologica del genere (il teatro-canzone, appunto) creato vent’anni prima, con pezzi già proposti nelle stagioni precedenti.
Qualcuno era comunista era l’unico inedito, se non sbaglio. Un riuscitissimo monologo, giocato su più registri narrativi e un accompagnamento musicale che va in crescendo per spegnersi nel finale, quando la voce, partita anch’essa timida e poi sempre più potente e a tratti rabbiosa, resta sola e si fa accorata. In quel finale i sorrisi iniziali si spengono. L’elenco di ragioni per cui «uno era comunista», alcune banali o di comodo e altre nobili, viene snocciolata fino allo sfogo commosso che racconta il sogno infranto. Non senza rimpianti, nonostante Gaber affermi il contrario.
Però, nonostante quello che potresti pensare, non sono qui a parlarti della canzone. Neppure di comunismo o ideologie, ma solo del momento in cui l’orchestra inizia la dissolvenza e l’interpretazione del Signor G cambia e, ti dicevo, spegne i sorrisi. Quando dice:
«Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri».
Mi girava in testa, la frase. Poi ho preso “Internazionale”, con la nuova puntata del diario a fumetti che Zerocalcare sta dedicando alla vicenda di Ilaria Salis. È qui che mi è venuta in mente una cosa scritta da Paolo, quando ha appiccicato il suo post-it sull’argomento.
«Zerocalcare soffre per chiunque soffra, sente il dovere di difendere gli oppressi, di prendere le parti di chi sta peggio di lui».
La definizione mi sembra azzeccata. E accostare il fumettista romano al personaggio immaginato da Gaber (che può essere felice solo se lo sono anche gli altri) mi è sembrato evidente. NON, sia chiaro, sul piano ideologico, di cui m’importa niente e c’azzecca ancor meno, ma su quello etico. Il principio, del resto, è stato espresso dall’autore più volte, nei fumetti come nelle interviste come nelle sue serie animate su Netflix: nessuno si salva da solo, nessuno deve essere lasciato indietro. Figuriamoci se Michele non sente empatia e voglia di sbattersi per chi, come Ilaria, è confinata da un anno nelle galere ungheresi. In un pozzo profondo, come sintetizza amaramente.
Siccome questa cosa, questa voglia di fare o almeno dire qualcosa minimamente utile, la sento anch’io, fra l’aorta e l’intenzione, avevo pensato di fare un pezzo da Tradrittore. Magari partendo dal fottio di cattiverie apparse su quotidiani che non leggo, non menziono e non toccherei con una canna da pesca da sei metri per sfogliarli (sì, mi sto autocitando). Ma lo schifo era troppo forte (che poi, dopo le citazioni, avrei dovuto rispondere) e la voglia mi è passata. Dopotutto…
Dunque cosa fare? Pure qui Zerocalcare giunge in aiuto.
Accontentati dunque di questo post-it. Appiccicalo sul frigo, prova a immaginare il tintinnio delle catene alle caviglie di Ilaria e ricordati: il numero di Internazionale di cui ti ho parlato è quello che copre la settimana 5/11 aprile. Sono un po’ in ritardo con la segnalazione, scusami, ma forse lo puoi ancora recuperare in edicola. Altrimenti, puoi spulciare le versioni on line. Sono regolarmente aggiornate qualche giorno dopo e puoi leggere anche le altre puntate realizzate da Zerocalcare sul processo di Budapest.
Se poi vuoi contribuire alle spese legali, eccoti pure su (Quasi) il link.
Vive una crisi di mezza età da quando era adolescente. Ora è giustificato. Ha letto un bel po’ di fumetti, meno di quanto sembra e meno di quanto vorrebbe. Ne ha pure scritti diversi, da Piazza Fontana a John Belushi passando per Carlo Giuliani (tutti per BeccoGiallo) e altri brevi, specie per il settimanale “La Lettura”. Dice sempre che scrive perché è l’unica cosa che sa fare decentemente. Gli altri pensano sia una battuta, ma lui è serio quando lo dice.