In questi giorni nella redazione di (Quasi) si fa un gran parlare degli X-Men, Claudio Calia e Stefano Tevini ci hanno pure dedicato due articoli, e ovunque mi giri è un fiorire di «oh, bro, stai guardando la nuova serie su Disney+?». No, bro, non la sto guardando, il mio abbonamento alla piattaforma è in pausa in attesa di tempi migliori. Tra l’altro gli X-Men mi stanno pure un po’ sulle scatole. Li ho letti e li leggo, eh, sia chiaro: la gestione di Claremont e Byrne, quella di Morrison e la successiva di Whedon, X-Factor di Peter Alan David, Uncanny X-Force di Remender, il periodo di Brubaker, Carey e Gillen, la rinascita krakoana di Hickman e alcune delle millemila serie e miniserie collegate, tanto Wolverine e pure Deadpool (che, ok, non è un X-Men, ma bazzica quella gente e per un bel periodo ha fatto di tutto per entrare nella squadra).
Insomma ci provo sempre. Parto con grande entusiasmo e dopo un po’ mi stanco delle dinamiche di gruppo, delle trame (ancor di più quando ci sono i viaggi nel tempo – io odio i viaggi nel tempo), dei tic dei personaggi e, soprattutto, dei persecutori dei Mutanti. Non so dire se detesti di più le Sentinelle o i Purificatori. Mi piace tantissimo il concetto che sta alla base della loro creazione e condivido i loro valori, ma alla fine degli X-Men posso fare a meno. Però, appunto, solo “alla fine”, perché come anticipato c’è sempre un inizio.
Tutto questo sproloquio per parlare di cosa? Della migliore versione dei Mutanti che ho letto di recente! Presentatomi dal mio amico PP con queste parole: «È uno strano mix tra X-Men, la serie tv Legion e Gli uomini della settimana di Bilotta e Ponchione», Tokyo Kaido è un manga di Minetarō Mochizuki portato in Italia da Dynit e pubblicato in tre volumi (più cofanetto).
Mochizuki sfoggia un segno potente ed elegante che mi ha ricordato un po’ quelli di Jamie McKelvie e di Atsushi Kaneko. Di quest’ultimo sto seguendo Evol che ha in comune con Tokyo Kaido la presenza di ragazzi “particolari” e problematici. Se lì abbiamo tre adolescenti con i superpoteri che giocano a fare i supercattivi, qui troviamo giovani e giovanissimi con disturbi fisici, mentali e comportamentali. Vivono ricoverati in una clinica all’interno della quale si instaurano rapporti per certi versi simili a quelli che intercorrono tra gli ospiti dello Hoshinoko in Sunny di Taiyō Matsumoto.
I miei personaggi preferiti sono Hashi e Hana e sono stato molto colpito da un loro battibecco. Hashi è un diciannovenne rimasto coinvolto in un incidente stradale: un minuscolo corpo estraneo si è conficcato nel suo cervello e da quel momento dice tutto quello che gli passa per la testa, senza filtri. Hana, invece, è una ventunenne che soffre di un disturbo al quale i medici non sanno dare una spiegazione: senza preavviso né possibilità di “resistere”, viene colta da orgasmi involontari. All’inizio del secondo volume i due discutono e la ragazza dice: «Chiunque si chiede perché si debba soffrire… o se Dio esista. Dio non esiste. E se esiste è maligno». Folgorante. Mochizuki ti sbatte in faccia il dolore e la rabbia di individui con un quadro clinico fuori della norma e percepiti come diversi dalla società, allontanati, derisi e talvolta picchiati dalle persone del mondo esterno all’ospedale. Le “specialità” individuali non sono superpoteri, non possono salvare la Terra; non c’è lo schermo di costumi aderenti, di occhiali al quarzo rubino o di elmetti rossi e viola. Ci sono i fumetti, quelli sì: Hashi ama disegnare e racconta una storia realizzando un suo manga. Ecco il suo filtro per la realtà. Lui, che non può mettere un freno alla lingua, sceglie un altro mezzo espressivo, con il suo linguaggio specifico. Allora Mochizuki varia il suo stile passando dalla luminosità del bianco e nero dedicato ai ragazzi all’oscurità del nero e bianco riservato alla narrazione nella narrazione.
Attenzione, però: se nello svago di Hashi c’è posto per la rivincita, il crudele Minetarō ci ricorda che la realtà è tutt’altra cosa. Questi mica sono gli X-Men! Quelli cadono e si rimettono in piedi, vanno e vengono, muoiono e risorgono, porgono l’altra guancia e portano avanti il sogno del Professor X. No no, con Mochizuki arrivano i cazzottoni, quelli veri, quelli inaspettati e che fanno più male…
E con questa botta di ottimismo vago per la redazione di (Quasi) chiedendo: «Oh, bro, hai letto Tokyo Kaido?».
Sognava di diventare un calciatore professionista, ma a sedici anni si è svegliato e l’incubo è cominciato. Continua ad amare il calcio tanto quanto ama leggere fumetti di tutti i tipi. Cerca di sbarcare il lunario, scrive per QUASI e Lo Spazio Bianco, parla per il podcast hipsterisminerd e per LSB Live.