C’era una volta l’underground… – Intervista a Max Capa

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di Gianluca Umiliacchi
(da “Amazing Comics” – 15 dicembre 2002)

L’underground, per il Dizionario Italiano, è il «movimento culturale e artistico anticonformista, che contrasta la cultura ufficiale e i mezzi da essa adottati». A tuo avviso, il movimento underground italiano ha posseduto una sua definizione sociale, ha proposto dei lineamenti definibili, delle caratteristiche riconoscibili? In poche parole, credi che sia esistita una temporale situazione dell’underground italiano?

Piuttosto direi che lo stato di spirito e di fatto underground è una tendenza informale e non strutturata, tuttavia assai riconoscibile, che andò dal 1965 al 1975 (anno più anno meno) nei paesi nordici e protestanti (U.S.A., U.K., Amsterdam, Berlino, etc.). In Italia e Francia si è latinizzato, passando per il bisogno cronico di “far politica”, pur se non proprio sempre… La cultura giudaico-cristiana anche se rifiutata ci resta tra le righe.
E tutto questo, quel periodo, per me è piuttosto datato. Vedo ancora delle cose che sfacciatamente, per farsi moda, si definiscono underground e che mi fanno tenerezza. “Puzz”, ne sono quasi sicuro, pur nella sua allucinante singolarità, è stato anche “un fogliaccio” underground. Ma questo è davvero importante?… che “Puzz” sia stato underground. La caduta, la deliquescenza dei modelli e dei valori post-seconda guerra mondiale e la crisi economica successiva alla ricostruzione europea, il disgusto verso l’eccessiva società dei consumi imperante etc. etc. aveva allora suscitato intelligenze e sensibilità che compresero la necessità di rimettere in causa tutto, di creare ed agire al di fuori dei circuiti ordinari, pur utilizzandoli di tanto in tanto.
Talvolta tutto ciò si è davvero radicalizzato, diventando rivoluzionario, ma spesso no. Un periodo importante e irripetibile.
D’una intensità inevitabilmente autodistruttiva, perché gli eccessi consumano…
Per altro, non è mai stato valutato dovutamente -a mio parere- questo strano e strabiliante fenomeno, d’un giornaletto a fumetti, d’una specie di rivista disegnata, che ha relativamente suscitato o impregnato (senza secondi fini politici) un “movimento” spontaneo di protesta sociale giovanile, senza magari volerlo e senza -quasi- saperlo. Indirettamente, buona parte dei contenuti “di” “Puzz” si sono ritrovati nel periodo di rivolta della famosa primavera ’77 (pur se altri, con vaga furbizia politicarda, ne hanno recuperato il vedettariato).
Il caso è proprio unico, e lo resterà.

Non hai mai accettato le definizioni precostituite. In una tua risposta chiarisci che “Puzz” non è mai stato un foglio alternativo, underground o altre cazzate del genere; “Puzz” è solo “Puzz” e nient’altro. Perché questo rifiuto all’etichettatura dei tuoi lavori?

Ogni definizione è per forza riduttiva, e un’etichetta tende a recuperare, a mettere le cose al loro posto dentro l’ordine costituito. Mi ricordo d’un titolo del settimanale “Panorama” nel ’74 o ’75: “Come stiamo a stampa alternativa?” e poi giù l’inchiesta che cataloga, etichetta, condiziona, dentro un sistema in cui anche i pestiferi divengono funzionali. Ma in tutto questo quale era davvero il posto di “Puzz”? Era underground? Alternativo? Controculturale? Fumettaro? Goliardico? Ultraradicale? Goscista? Ultrasinistro? Anarchico? Pericoloso? Simpatico? Etc. Il solo modo di restare sovversivi e intelligenti (dunque: sé stessi) mi sembra sia di non lasciarsi “incarcerare”. E’ una conseguenza del gusto innato per la libertà che, la povera…, costa sempre cara. Allora questo rifiuto non era che un gesto alquanto disperato d’autodifesa. Più che un’affermazione polemica. O una stoccata capricciosa.

I fumetti da te realizzati, anche quelli definibili commerciali perché venivano pubblicati su riviste distribuite in edicole, erano comunque elaborazioni molto diverse da tutto ciò che si proponeva in quel periodo. Non possedevano alcuna caratteristica peculiare del fumetto, nascevano e si esprimevano in un totale disaccordo con gli obblighi sociali. Quali messaggi veicolavano per il lettore?

Mettiamo in campo anche una spiegazione ironica: ero magari incapace di fare un fumetto come si deve e allora, baravo con le mie stupidate… Ma, intanto, preferirei non troppo parlare di fumetti. Questi sono solo una parte di quel che ho fatto. Ho sempre preferito il semplice disegno, basato su un’idea, “cartoon” o vignetta, illustrazione o personaggio in un manifesto -strano, ambiguo, straordinario, inquietante.
Io stesso non ho ancora colto a fondo certe creazioni che ho realizzato. Capisco pure che la mia grafica potesse disturbare e pure infastidire, essa non corrispondeva alle attese… Avrei dovuto addomesticare il mio bestiario, la mia produzione creativa, disciplinarla, renderla digeribile. Far soldi.
Ma era al di là di me stesso. Non ci sono quasi mai riuscito… E’ per questo -anche- che sonopassato alla pittura, un posto dove il mio mondo astruso è, se non accettato, almeno sopportato e assume una qualche legittimità.
Bisognerebbe pure rispolverare il concetto usato in altri tempi di “artista maledetto”, che va usato con ironia, ed autoironia. Riconosco che è un concetto bizzarro per quanto riguarda i fumettari e disegnatori di stampa che sono (tutti?) necessariamente dei carrieristi scatenati, che non si pongono quasi altro problema che il successo. La mia mamma mi ha fatto male, questo è certo, poi io stesso mi sono fatto ancora peggio… (Fumetti a parte, ma non tanto: se volessi descrivere figurativamente la mia pittura, potrei parlare d’una “storia” sintetizzata in un quadro solo dove mancano -ma sono impliciti e suggeriti- i quadretti e le sequenze che vengono prima e dopo. E’ come scrivere venti pagine in quindici righe formidabili, dove i silenzi del colore imprigionano musiche non presenti visivamente ma comunque contenute. Per cui: la sintesi in pittura, e nell’azione suggestiva della forma e del colore, esprime una dilatazione nel tempo e nello spazio, come se il quadro andasse fuori di sé in tutte le direzioni e sopratutto dentro sé stesso, come se ricevesse, tra le righe, tutto il non detto, diventando un magma espressivo che magari è ripulsivo al primo sguardo, come una miniera dove bisogna entrare per estrarre).

Dopo l’esperienza dell’autoproduzione, fondasti una tua casa editrice, diciamo, dall’aspetto più formale. Questa fu una ricerca di collegamento all’ufficialità?

Può sembrare, ma non è proprio così. L’ evoluzione fu ben più complessa e più terra-terra pure. Le “Edizioni Iguana” (“Apocalisse”, “Flash-Back”) sono state un grosso errore strategico. L’intento era impeccabile: disponendo d’un po’ di mezzi e d’un certo credito  presso un distributore nelle edicole e un ipografo, ho pensato di fare due periodici (sulle  30-40.000 copie, uno di “fantascienza”, l’altro di storia “rivoluzionaria” a fumetti) che fossero relativamente popolari, sufficientemente commerciali per fissare una base editoriale (e di riuscita…) in modo di poter uscire nel ’78 con un mensile “Puzz” nuova serie, interamente a fumetti e satirico. L’errore consiste in questo: avrei dovuto fare l’inverso. Dedicarmi fin dall’inizio al “Puzz” nuova serie: non escludo minimamente ora che un “Puzz” come lo stavo covando sarebbe ben rinato dalle ceneri, mi sono reso conto, con il fatidico senno del poi, che in questo caso questa specie di amore stralunato esisterebbe ancora… Non scordo pure (queste cose sono ferite intangibili) che gli anni ’74-’76 furono tremendi, d’una incessante tensione (certo, anche positiva e vivibile…) e che avevo un bisogno assoluto di prenderne le distanze e di passare ad altro. Non si può passare una vita a dormire quattro ore per notte…
Non scordo pure che moltissimi disegnatori sono passati per “Apocalisse” e questo ricordo, almeno, mi fa piacere. Del resto, queste cose restano e se ne troverà una traccia abbondante in PUZZ & CO.

Pensi che oggi, a trent’anni di distanza, tutto ciò che allora si è realizzato non abbia più un motivo per essere divulgato? Credi che alle nuove generazioni non possa interessare il tuo precedente lavoro?

Questo dipende dai gusti di ciascuno, personalmente (lo si colga…) mi interesso parecchio al catarismo e agli “enigmi” del Machu Picchu, i quali non datano da ieri. E che adesso mi  interessano ancora. Sono quasi uno “specialista” della Seconda Guerra Mondiale, migliaia di libri e articoli letti (morbosamente?) su questo soggetto, l’apice della Storia. Bisogna vedere cosa si vuol intendere per nuove generazioni, concetto ampio e cavo, e, soprattutto, chi (la persona) all’interno di queste… In una categoria di gente privilegio sempre l’individuo, perché io stesso mi ritengo un individuo senza categoria. Adesso, più che nel passato, tutto tende e impacchettare ogni persona -soggetto o oggetto- dentro una categoria, e molti, purtroppo, si precipitano in questa trappola per topi: il fascismo “democratico” è questo. E pure, mi pare che quel che abbiamo fatto ed espresso allora, in buona parte resti valido se messo al suo posto, storicizzato, criticato, spulciato e se non è preso alla lettera. Vi è stato un dispendio d’energie psicofisiche enorme, di cui non ci si rendeva conto sul momento (dieci anni…), in preda alla passione, alla frenesia di fare una cosa e l’altra, di creare disegnare, parlare, incontrarsi, scoparsi, lanciare idee, aprendo finestre da per tutto. Delle fiamme del passato restano sovente soprattutto le bruciature…
Per altro, non credo di sbagliarmi nel confessare che in tutto ciò vi fu molto di datato, di caduco, di cascami di un periodo e che pure quel che resta di qualitativo sia poco comprensibile per le mentalità di adesso.
Resta, mi pare, quel che abbiamo disegnato, il segno non mente anche se ha un’aria vecchio stile, una patina suggestiva per “ragazzotte” di cattivo gusto…


Gianluca Umiliacchi: esperto e attento ricercatore dei linguaggi giovanili, filologo e storico delle fanzine italiane, presidente e fondatore dell’Associazione Fanzine Italiane nonchè uno dei massimi conoscitori in Italia del lavoro di Max Capa.

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