Certe mattine di pioggia e di fango

Mabel Morri | Play du jour |

Prima parte

La frase vera, tratta dal racconto di Cesare Pavese Il compagno, è «certe mattine di nebbia e di sole». La parafraso mentre mancano 40 chilometri alla conclusione della gara ciclistica Le Grand Prix de Denain, una semi classica che si corre nel nord della Francia e che comprende nel percorso, oltre la strada, almeno 32 chilometri di ciottolato, di pavé per dirla alla francese.

Casette basse, tetti spioventi, lunghe strade che attraversano campi coltivati, pale eoliche che spiccano nel verde della stagione, un sole in realtà flebile e che spostandosi nei 200 chilometri e passa del percorso diventa anche coperto da nuvole grigie, come ci si aspetta dalla regione dell’Alta Francia.

Febbraio e marzo rappresentano di solito il grande ritorno, il grande risveglio, per gli spettatori e le spettatrici, del ciclismo femminile e maschile. Aprile ha una sua narrazione, diversa, dovuta a gare che nel frattempo hanno riempito gli occhi. Vero anche che la stagione inizia a gennaio, quando le temperature calde portano le squadre a disputare gare in Argentina, negli Emirati Arabi Uniti o anche in Gabon e in Ruanda – con due corse che da qualche anno stanno davvero portando i riflettori su di loro, rispettivamente La Tropicale Amissa Bongo (bellissima) e il Tour du Rwanda -, ma è verso metà febbraio che, in contesti piovosi e freddi (gare in Spagna e Portogallo a parte), si iniziano a vedere le scintille di ciò che sarà la stagione, o almeno i primi ruggiti di chi sarà protagonista.

In questo contesto di semiclassiche e prime storiche classiche, molte corse a tappe altrettanto storiche si sono già disputate, vedi la Tirreno-Adriatico, la Parigi-Nizza, la Volta ao Algarve em Bicicleta, la O Gran Camiño – The Historical Route, l’Istarsko Proljeće – Istrian Spring Trophy, tra quelle che mi piace seguire.

Kuurne – Bruxelles – Kuurne, lunedì 26 febbraio 2024

A differenza della tradizione (vedi gara sotto), la mia “prima” col ciclismo della stagione 2024 esordisce con la Kuurne – Bruxelles – Kuurne, gara belga spesso di pioggia e fango.

Vengo smentita alla prima inquadratura mentre da dietro lo schermo dell’ipad con cui guardo lo sport un incantevole panorama di cielo terso e mare limpido si staglia dalla finestra del mio studio.

Di solito c’è una sottile emozione di scoperta: il ciclomercato, chi ha cambiato squadra per andare in quale altra, le nuove maglie, le nuove borracce, le nuove biciclette, i nuovi nomi delle squadre sulla base dello sponsor di maggioranza. C’è sempre un po’ di curiosità, soprattutto in stagioni che iniziano a essere le ultime per qualche corridore a cui ci si è nel tempo affezionati (dopo Vincenzo Nibali, Alejandro Valverde, Niki Terpstra e tanti altri, il ritiro di Thibaut Pinot è ancora doloroso) e a conoscere i nuovi corridori e a diventarne tifosi.

Al muro numero 9 che altro non sono i tratti in pavé a prescindere dalla percentuale della salita, a 87 chilometri dall’arrivo, c’è l’ennesima selezione, cioè quei ciclisti che reggono allo sforzo e non perdono il gruppo dei migliori.

Per me è l’esordio per vedere il belga Wout Van Aert, inconfondibile nonostante giubbottini e manicotti sia per il colore giallo della squadra, la Visma non più Jumbo ma Lease a bike, sia per il caschetto sponsorizzato Red Bull, un corridore che nella sua rivalità con l’olandese Mathieu Van der Poel, dal ciclocross alla strada, ha regalato momenti altissimi di ciclismo.

E poi il sole.

In questi passaggi continui tra i confini, dalla Vallonia alle Fiandre occidentali, in zone che ci hanno abituato annualmente alla pioggia e al vento, c’è incredibilmente il sole nonostante un freddo pungente.

In questo inizio di stagione le chiacchiere dei telecronisti sono principalmente sulla polemica tra il dirigente padre padrone della belga Quick Step Soudal, Patrick Lefevere, e il ciclista francese Julian Alaphilippe che tra 2019 e 2022 ha vissuto annate superbe, interrotte da una bruttissima caduta in un dirupo durante la Liegi-Bastogne-Liegi finita contro un albero e salvato solo dall’intervento del francese Romain Bardet che, scendendo prontamente dalla bicicletta, lo ha soccorso aiutandolo a respirare. Alaphilippe riporterà la rottura di diverse costole, una scapola fratturata e uno pneumotorace, non riuscendo poi più a tornare ai livelli che avevano fatto sognare il ciclismo francese. Dirà Bardet alle domande dei giornalisti sul fatto di aver deciso di abbandonare la gara per aiutare Alaphilippe: «Non esiste competizione di fronte all’integrità fisica in pericolo».

Lo si rivede in questo 2024, Alaphilippe, che prova a riprendere forma, gamba e convinzione, nonostante Lefevere continui a dire che, con quello che viene pagato, il suo stile di vita dissoluto (è sposato con la ciclista Marion Rousse, volto sportivo e opinionista in studio durante il Tour de France, hanno avuto un figlio e sono una coppia molto paparazzata e commentata in Francia) non gli permette di tornare ai livelli per cui ha conquistato vittorie e successo.

Mentre Alaphilippe in gruppo pedala cercando la gamba, scatta Van Aert al chilometro 69.

È un continuo cucire e ricucire i buchi fino all’ultima selezione nella quale rimangono in tre: il belga Wout Van Aert della Visma, il belga Tim Wellens della UAE Emirates, lo spagnolo campione nazionale su strada Oier Lazkano della Movistar.

Continuerà così fino all’ultimo chilometro nel quale, tra finte di scatto e occhiatacce, Van Aert allunga imperioso e va a vincere in una Kuurne che torna a essere grigia e uggiosa.

Trofeo Laigueglia, mercoledì 28 febbraio 2024

Per motivi di affetto ma banalmente perché mi rendo conto che è ripreso il ciclismo solo verso quella data – un po’ come il calcio ad agosto, non mi entra in testa -, rivedo nelle immagini RAI le strade liguri che conosco e che spesso mi è capitato di percorrere andando verso Nizza dai parenti.

Il minuto di silenzio per Bruno Zenoni, storica maglia nera del Giro d’Italia e che a Laigueglia aveva conosciuto la moglie durante i frequenti ritiri della squadra, fermandosi poi, quando non correva per sposarsi, apre l’edizione numero 61 del Trofeo Laigueglia.

Il cielo appare come in quelle giornate tipicamente liguri: se piove, non ce n’è, se laggiù però, sul mare, c’è qualche sprazzo, per il pomeriggio si può uscire per la passeggiata quotidiana.

Il percorso inizia a essere abbastanza definitivo nel corso degli anni, con dei punti che stanno diventando dei classici e altri che cambiano per ravvivare i chilometri pedalati.

Alassio viene attraversata ai meno 48 dal traguardo dopo un paio di gran premi della montagna e con i cinque battistrada già ripresi.

Se nelle semiclassiche belghe e francesi si inizia ad avere confidenza con i nomi e soprattutto con le squadre che quelle gare le corrono annualmente, così è anche al Laigueglia difficilmente mancano la Polti Kometa, la Bardiani, la Corratec Vini Fantini e, se non fosse stato per la mancata licenza della  denominazione Professional nel 2023, ci sarebbe presumibilmente stata ciò che è rimasto della fu Sidermec Androni ora Drone Hopper Androni di Gianni Savio, un grande giovane vecchio che bisognerebbe ascoltare per l’esperienza, per l’impegno economico e per la passione che ha portato nel ciclismo facendo crescere e costruendo corridori che poi – vedi a suo tempo Michele Scarponi che veniva dalla brutta esperienza spagnola in una squadra che dopava i suoi atleti – ha rilanciato nel grande ciclismo.

Lorenzo Rota è un buon ciclista: spesso battistrada, corre per la belga Intermarché-Wanty i cui colori giallo evidenziatore, blu e bianco saltano subito agli occhi nel riconoscimento da lontano. Ci prova, ad andarsene via, viene ripreso ai meno 32 chilometri dal traguardo.

Curve, salite, discese, fatica, gamba da ascoltare considerato che per molti ciclisti è l’esordio stagionale italiano dopo le svernate nei paesi caldi.

Il cielo grigio segue la gara fino all’arrivo, alcuni tratti con la strada bagnata mettono in difficoltà gli atleti nelle discese.

Lenny Martinez è un corridore francese della francese Groupama-FDJ. Il padre è un ex campione della mountain-bike e del ciclocross, è niente che la bicicletta sia la sua migliore compagna di gioco. Vivono per un po’ in Veneto per via della carriera del padre, Lenny cresce, pedala e osserva. E come ogni ciclista che trova la sua condizione prima presumibilmente del tempo (si dice che i ciclisti abbiano uno o due picchi di forma nell’arco della stagione, ma dipende molto dall’allenamento e dagli obbiettivi che a volte sono più verso l’estate che non all’inizio), si era già fatto notare a una nuova gara ciclistica, la Classic Var, che si arrampica sulle Alpi Marittime nel sud della Francia nel dipartimento omonimo.

La sua vittoria è diventata il meme di inizio stagione ciclistica: sul durissimo arrivo del Mont Faron stacca e va a concludere il norvegese della UnoX Tobias Johannessen che esulta prima dell’arrivo. Se non che il mai vinto Martinez che inseguiva, non demorde, e con un colpo di reni continuando a pedalare fino all’ultimo lo beffa proprio sul traguardo.

Johannessen, incredulo, si volta,come a dire: e questo da dove sbuca?

Ma arriva secondo, inanellando una serie di sfottò per i quali non si fa vedere alle interviste di rito finali.

Al Laigueglia, senza beffare nessuno ma mantenendo la pedalata dei battistrada e poi staccando lo svizzero della UAE Jan Christen in discesa, chiude solitario e primo Lenny Martinez che, probabilmente, per giovane età, per spazio, per gavetta, difficilmente avrà altre occasioni nelle quali mettersi in mostra e andare a vincere di tigna come alla Classic Var (e poi perché l’aspettativa altissima sul capitano David Gaudu è crollata quasi subito, alla prima salita, aspetto che ha dato il la al giovane francese volato a vincere).

Milano – Torino, mercoledì 13 marzo 2024

I titoli scorrono ancora: il rosa della maglia dell’americana EF di Alberto Bettiol, toscano di 30 anni, nelle striature dovute alla velocità, è ancora negli occhi.

Non si è mai voltato nei 30 chilometri in cui, faccia al vento, ha staccato il gruppo.

Una giornata di sole bellissima, le alpi imbiancate nelle panoramiche dall’elicottero da Favria, i campi verdi e il fascino delle frazioni ai piedi dei monti, tanto belle in cartolina non so quanto a viverci.

I telecronisti Luca Gregorio e l’ex ciclista Riccardo Magrini su Eurosport parlottano e analizzano il Bettiol che dalla vincente Fiandre del 2019 (per cui ogni volta che va da quelle parti viene applaudito e accolto come un eroe) è sempre stato, in molte gare, lì lì, anche in buone condizioni ma discontinuo, a volte non risoluto e quindi ripreso, perdendo corse che erano nelle sue corde e alla sua portata. Gregorio dice: «Ha vinto troppo poco per il motore che ha», con motore sottolineando il livello del toscano, che è uno dei migliori ciclisti italiani.

Nel tempo, vedendolo, mi viene più da credere che sia semplicemente un ottimo ciclista che, come Thibaut Pinot, ha costruito ogni sua vittoria: con la fatica, con quella magia che una buona condizione di quel preciso momento può dare, con il sudore di chi è umano e conosce il suo corpo, le sue gambe, e le sa ascoltare.

A 17 chilometri dalla conclusione Bettiol ha un +12 secondi di vantaggio sugli inseguitori.

Da cardiopalma, con questo esiguo vantaggio che varia, senza mai diventare quel distacco decisivo da vittoria sicura e senza mai diventare un reale pericolo di essere ripreso.

Continuerà così, voltandosi solo negli ultimi 50 metri, alzando le braccia sotto il traguardo di Torino, facendoci esultare tutte e tutti nel sole piemontese.

Le Grand Prix de Denain, giovedì 14 marzo 2024

Pozzanghere ai lati del pavé e strade non del tutto asciutte caratterizzano, insieme alle frequenti cadute e successivi abbandoni, questa gara che vede, ai meno 14 chilometri i corridori pieni di fango ormai secco su gambe, scarpe, volti e biciclette. Una mini Roubaix la chiamano i telecronisti, ma sempre fango c’è, nella mini e nella originale.

Non sono mai percorsi facili, questi del nord della Francia: faticosi, dispendiosi, estenuanti e francesamente affascinanti con quell’epica che solo queste zone regalano al ciclismo.

Dopo due azioni solitarie, di quelle che fanno sognare chi segue il ciclismo, dello svizzero Stefan Kung della francese FDJ-Groupama e dell’italiano Filippo Baroncini dell’araba UAE Emirates che annullano o appare tale il distacco dei fuggitivi, entrambi vengono ripresi in un gruppetto che insegue i primi quattro, diventati tre, in testa.

Erano il belga Cériel Desal della Bingoal, il tedesco Jannik Steimle della Q36.5 e il francese Maxime Jarnet della Van Rysel Roubaix, quest’ultimo poi staccatosi e ripreso in un successivo gruppetto formato da chi si è salvato da un incredibile errore di Kung, capofila, che scivola sull’ultimo tratto di pavé portandosi giù tutti gli inseguitori.

Ecco quindi che Desal e Steimle rimangono soli, ad alternarsi a fare il ritmo, attraversando la periferia dalle case basse e rosse dai tetti spioventi di Porte du Hainaut entrando poi verso ciò che si può considerare il centro cittadino.

Ecco quindi che gare come questa non fanno altro che far conoscere ciclisti di cui si ignorava l’esistenza e farli vedere vincitori.

Ecco quindi spesso queste gare mostrano l’abisso non solo di condizione ma di potere, un po’ come la differenza tra squadre di Serie A e di Serie B e di alcuni ciclisti che sembra proprio arrivino quasi da un altro pianeta.

Ecco quindi che arrivando alla flamme rouge, l’ultimo chilometro, quasi si fermano e si osservano: chi parte per primo, chi rompe gli indugi, chi ha ancora gamba per l’ultimo scatto, quasi che da dietro li riprendono da quanto pedalano piano.

Parte Steimle con il suo crocefisso penzolante sul collo, vince la Q36.5 Pro Cycling Team, una squadra belga di nuova costruzione, esulta il tedesco col fango secco sul volto mentre le immagini dell’elicottero e l’inconfondibile rumore di fondo dell’elica mostrano la città dall’alto salutandoci alla prossima edizione del Grand Prix du Denain.

Milano – Sanremo, sabato 16 marzo 2024

E poi c’è la Milano-Sanremo.

È sabato. Un sabato privo di colpi di coda del lavoro o di impegni associazionistici, un sabato di sole nel quale riversarsi nei locali sul mare che stanno aprendo la stagione o quelli che non hanno chiuso mai per l’inverno, un sabato da aperitivo in piazza e il giornale comprato in edicola da sfogliare con birra o vino sul tavolino, un sabato di lavatrici e di profumo di ammorbidente sul balcone dedicato alla lavanderia, un sabato di posticipo della Serie A e di divano.

È il sabato della Milano-Sanremo, la classica della primavera, quella che “apre” a tutte le altre classiche di aprile, dal Fiandre alla Roubaix, dalla Liegi all’autunnale Lombardia.

E poi c’è la Milano-Sanremo che arriva alla 115ma edizione.

E poi c’è l’emozione, l’aspettativa, l’inebriante brezza commovente della Milano-Sanremo, sulla quale storie e aneddoti sulla classicissima sono innumerevoli e leggendari.

E anche qualche polemica: come quella che vede ormai da qualche anno la gara partire da Pavia e non più da Milano, per dirne una.

È il 1946, il 19 marzo per la precisione, appena sei giorni prima di un’altra data passata alla storia: il 24 marzo infatti ci sono le comunali ad Ancona e le marchigiane votano lì la prima volta, prima del voto storico nazionale del 2 giugno successivo per scegliere nel referendum tra monarchia e Repubblica.

Il 1946 è anche l’anno della “rinascita” se vogliamo, una strana forma di ritorno, dopo la guerra e il ventennio fascista, ed è uno sport come il ciclismo che “unisce” l’Italia, sono le imprese di Fausto Coppi e Gino Bartali, la loro presunta rivalità e il loro gossipparo orientamento politico, a far sognare la nazione non più fascista.

Nicolò Carosio, il conosciutissimo radiocronista che in scienze delle comunicazioni viene raccontato come l’innovatore della radiocronaca, a fronte del vantaggio di 15 minuti di Fausto Coppi su tutti gli altri corridori, annuncia: «Primo Fausto Coppi, in attesa del secondo trasmettiamo musica da ballo».

Il linguaggio è ovviamente frutto dell’epoca, un linguaggio che non può essere cambiato dopo vent’anni di dittatura, che ancora nel 1949 durante la iconica Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia di quell’anno pronunciata da un giovane Mario Ferretti (il famoso «Un uomo solo e al comando, veste di bianco d’azzurro e il suo nome è Fausto Coppi»), seppur nell’epica di ciò che significava correre in bicicletta in quegli anni, non cambia di una virgola il fatto che «quell’uomo solo al comando» è il ritornello di quel ventennio, che ahimè non sembra molto cambiato 100 anni dopo.

Quando mi collego le prime immagini nel verde lombardo sono un gruppo di caprioli che, spaventati dalle auto e dal rumore dell’elicottero delle riprese, scorrazzano nei campi verdi decidendo la direzione al momento.

Nella prima parte, in diretta su Rai Play, come telecronisti ci sono l’ex corridore della Mercatone Uno, compagno di Marco Pantani, Stefano Garzelli e il giornalista Andrea De Luca, che commenta: «Almeno loro sono in gruppo», indicando un momento della corsa sfilacciato e di ciclisti tutti in fila.

Nel tempo, i luoghi che diventano anche punti di ritrovo e di snodo della corsa sono diventati diversi.

Uno è Masone, che venendo dalla Liguria è la prima città del Piemonte che si incontra, almeno in autostrada, e di solito sono sempre madonne perché lavori in corso, corsie chiuse, deviazioni, gallerie che gocciolano, in un disastro continuo di manutenzione strade, rallentano il traffico. Eppure Masone alla Milano-Sanremo è un punto pazzesco, inizia la salita al Monte Turchino che già fa selezione ed è diventato luogo di momenti indimenticabili.

Per esempio molti cronisti dell’epoca, come un giornalista del “Corriere della Sera”, si inventò la pausa pranzo con il risotto sotto un tendone, oggi stand e che è diventato molto folkloristico per chi osserva la gara nella cittadina piemontese. Erano gli anni dei cronisti su strada, quelli che le notizie le inseguivano davvero, quelli che se potevano si fermavano anche in trattoria e non pochi, alticci, facevano talmente tardi a tavola che perdevano gli arrivi delle gare. O come quei corridori, quando esisteva la maglia nera (che comunque prevedeva un premio in denaro), che si infrattavano nelle osterie e con tutta calma, avute le informazioni giuste sul gruppo già lontano, risalivano in bicicletta e, con andatura da crociera, arrivavano con tutta calma, digerendo pure.

Quando la gara arriva a Genova è un tuffo al cuore.

E che bella la Liguria in bicicletta, che bella.

Nonostante Voltri, è una Genova che conosco.

Nonostante le “lavatrici” di Voltri (i condomini con gli oblò che si vedono dall’autostrada e che sono diventati anche set cinematografici, per esempio, di un episodio della serie di film Sky Petra con Paola Cortellesi pre C’è ancora domani e l’attore veneto Andrea Pennacchi), comune inglobato, come Nervi,  nell’allargamento della giurisdizione di Genova capitale, sono luoghi che conosco.

In questa edizione del 2024 ci sono molti dei campioni per cui si corre a bordo strada per vederli sfilare: gli italiani Filippo Ganna, Alberto Bettiol, Jonathan Milan, il danese Mads Pedersen, gli sloveni Tadej Pogačar e Matej Mohoric, l’olandese campione del mondo Mathieu van der Poel, il francese Julian Alaphilippe e, soprattutto, i gregari, che io adoro.

Ancora ai meno 31 chilometri dall’arrivo, gli stessi Francesco Pancani e l’ex ciclista Alessandro Petacchi non hanno indicazioni su chi possa attaccare sulla Cipressa, salita (e discesa) che insieme al Poggio fa ulteriore selezione. Il gruppo dei battistrada crolla verticalmente da quasi 2 minuti di vantaggio ad appena 26 secondi. Naturalmente, nel mentre della telecronaca, i nomi dei possibili vincitori sono stati pronunciati, da quelli che potrebbero davvero essere agli insospettabili, che poi a detta anche di Giada Borgato e Stefano Rizzato, gli inviati in moto, indovinare il vincitore della Sanremo è impossibile.

A meno 23 vado a riempirmi il bicchiere di vino: la suggestione delle voci televisive fomenta il pathos.

Nella discesa cadono in due tronconi su due curve diverse, mescolando i battistrada, ripresi dal gruppo dei migliori o quantomeno da ciò che è rimasto del gruppo dei migliori.

Quando si arriva ad Arma di Taggia, conosciuta principalmente come località di produzione delle squisite olive taggiasche, è Davide Bais della Polti Kometa che cerca di prendere la salita del Poggio per primo rilanciandosi fino a oltre 12 secondi, nell’ennesimo attacco della sua notevole giornata. Attacco sfumato a 1,6 chilometri dalla salita a 10 chilometri dalla conclusione.

L’inizio del Poggio vede la Tudor con Matteo Trentin in seconda posizione e tra i primi Pogačar, van der Poel e Bettiol che poi prendono il comando, pilotati dal gregario di Pogačar dell’araba UAE. E infatti poi sono loro con Ganna e Pedersen che scattano, salvo che poi rilancia Pogačar in discesa seguito dal prima solo van der Poel e poi da tutti gli altri.

All’improvviso Sobrero, l’italiano della Bora Hansgroove, il nome che non ti aspetti, che scatta, facendo sognare per una frazione di secondo.

Ci si aspetta sempre che la Milano-Sanremo possa essere la gara di chi scatta in discesa dal Poggio e arriva solitario: Vincenzo Nibali fece così, Matej Mohoric fece altrettanto e tantissimi altri. Immaginare che invece chi ha più gamba arrivi persino a fare la volata, è tattica purissima.

Ed è infatti Jasper Philipsen, il velocista belga della Alpecin-Deceunick che nel finale della scorsa stagione si è fatto notare vincendo gare su gare, che, accompagnato da un grandissimo van der Poel in veste di gregario ha lanciato il compagno, vince la 115ma edizione della Milano-Sanremo.

Annalisa, la cantante spesso prima in classifica alternata ad Elodie, è originaria di un paese in provincia di Savona, da cui passa la gara. Nell’aspettare le premiazioni la sua «Sicuramente» nel ritornello «quando, quando, quando» suona dagli altoparlanti. Qualche malizioso sussurra «quando quando quando» tornerà a vincere un italiano la Sanremo dopo Nibali nel 2019.

Quando quando quando chissà.

1-continua

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