Qualche giorno fa la professoressa Donatella Di Cesare, studiosa e titolare di cattedra alla “Sapienza” di Roma, alla notizia del decesso di una brigatista che aveva fatto parte della cellula del rapimento Moro e l’uccisione dei componenti della scorta, le aveva reso tributo nel nome di un comune sentire, in pieni Settanta, per pulsioni di rivoluzione nella società come in qualsiasi altro luogo e situazione. Naturalmente i mezzi busti televisivi e le mezze seghe della politica si erano strappate le vesti.
Mi viene di richiamarla all’attenzione ora che apprendo del decesso di Max Capa a Parigi. Max, così apparentemente lontano da me, ma anche così vicino, sempre in quegli stessi anni Settanta, io con le matite nonviolente di Matteo Guarnaccia, Luciano Pradella e Stefano Tamburini, per dirne alcune, oltre a quelle ben motivate dei controinformatori, lui con la sua matita col caricatore e i colpi in canna pronti a partire e colpire conformismo, autoritarismo e fascismo.
Nel richiamarlo alla memoria e al recupero della sua identità non posso rimuovere il ricordo di alcuni rapidi incontri milanesi e delle pulsioni che mi inoculò, motivandole per allargare il mio orizzonte ideale e operativo verso quella sua matita così apparentemente diversa dalle mie: l’afflato era di fratellanza.
Lo ricordo oggi perché mi appaiono nitide le sue fascinazioni, perché di questo si trattava.