«Ciò che viene chiamato “normale” è un prodotto di repressione, negazione, scissione, proiezione, introiezione e di altre forme di azioni distruttive operate contro l’esperienza. Esso è radicalmente estraneo alla struttura dell’essere…»
R.D.Laing
Il mio contributo non intende essere un’agiografia o un ricordo spassionato di Max Capa; altri avranno senz’altro molte più competenze, ricordi e aneddoti di me in proposito. Neppure intendo ripercorrere storicamente una carriera tanto ricca quanto ancora in gran parte da riscoprire e far conoscere. Quella che mi interesserebbe proporre in queste righe è una provocazione che può essere vista anche come un a sorta di invito.
Il brano riportato in apertura, scritto da Ronald David Laing, lo troviamo citato in testa al numero 3 di “Puzz” del luglio1971, la creatura cartacea più conosciuta di Max Capa, e mi piace prendere avvio da queste poche sferzanti parole per il mio breve contributo su questo autore tanto importante quanto (ahimè) sconosciuto, per lo meno in Italia, al di fuori degli studiosi e amanti del fumetto, specialmente underground.
La politica dell’esperienza e L’uccello del paradiso è il titolo completo di un libro pubblicato per la prima volta nel 1967 dallo psichiatra scozzese Ronald David Laing, composto da due saggi. In questo testo viene criticata radicalmente l’idea di “normalità” che veniva regolarmente proposta e diffusa dalla società del tempo, anche se appare essere assai attuale ancora oggi. Laing, nei suoi due scritti, cerca di dimostrare che non sono le persone irregolari e non incasellate nei ruoli che la stessa società ci propone a essere malate o deboli, quanto invece proprio la società in cui ci troviamo a vivere. Da qui il passo successivo di Laing che ci propone di mutare radicalmente atteggiamento e definire la “psicosi” non come un segno di malattia clinica, né come sintomo di fragilità esistenziale ma addirittura come «un viaggio psichedelico di scoperta in cui i confini della percezione e la consapevolezza sono allargati».
In questa breve citazione, così come in tutta la produzione editoriale di Capa, risuona forte quello che a mio avviso è un grido di dolore, una sirena di allarme che ancora oggi, sia pur da località sempre più isolate e mai in definitiva in grado di coagularsi reciprocamente, si alza al vento interessando ognuno di noi e che noto essere in perfetta coerenza da quanto espresso da Laing. Torna così alla mente quella che lo stesso Laing e poi Deleuze, sulle tracce di Burroughs e Foucault, definivano come “la società del controllo” che oggi possiamo sostenere con una certa tranquillità, sia giunta alla sua definitiva maturazione.
È proprio a partire da queste poche suggestioni che credo sia interessante pensare ad un’analisi dettagliata del lavoro di Max Capa; un lavoro certosino, che sappia prendere avvio non solo dal personalissimo gesto grafico che lo caratterizza, ma che sappia districare il discorso a partire dal senso ultimo delle sue storie e dall’utilizzo sofisticato, a volte quasi violento, sempre irrisorio, che lo stesso Capa fa del linguaggio. I suoi lavori li ritroviamo infatti spesso come integrazione grafica di testi come Terrorismo o rivoluzione di Raoul Vaneigem[1], oppure introdotti da titoli apparentemente privi di senso o, al contrario, intrisi di doppi o triplici significati. Ma, se restiamo ancora sul misterioso codice linguistico utilizzato da Capa, è del tutto normale sfogliare i suoi fumetti e imbatterci in titoli come, solo per citarne alcuni: L’ignoranza è quello stato della colonizzazione che riduce i segni alla loro lettura ideologica; Alla mineralizzazione della natura corrisponde la reificazione dell’uomo; La critica radicale come spettacolo e come merce; Il piacere della negazione; L’evasione dal lavoro nel lavoro dell’evasione; Autonomia, radicalizzazione, aggregazione informale; Soggettività critica e così via…. Ciò che a prima vista appare un gioco di parole, in Capa è un tesoro tutto da scoprire, sbrogliare e poi ricostruire alla ricerca del senso reale e definitivo dei suoi pensieri.
Sono molti infine i rimandi e le citazioni che Capa rivolge verso artisti quali per esempio René Magritte o Max Ernst che ebbe a definire il Surrealismo con la celebre frase del poeta Isidore Ducasse: «bello come l’incontro fortuito su un tavolo di obitorio di una macchina da cucire e di un ombrello» che, fra le mani di Capa, diventa il titolo di un numero di “Puzz”: Lampi d’amore di una macchina da cucire per un ombrello rosso su un tavolo anatomico coperto di fiori[2].
Attraverso questa ricerca linguistica che trae origini dalle avanguardie artistiche di inizio Novecento, che trovò il proprio terreno naturale nel cosiddetto Movimento del Settantasette, Capa intendeva porre l’attenzione del lettore sui mali che a suo avviso torturavano le vite dei giovani del tempo rendendole più simili ad una nuova forma di schiavitù che alla tanto sbandierata società dei consumi che l’Italia aveva abbracciato fin dagli anni Sessanta.
Lanciando in queste poche righe un invito a tutti gli ammiratori di Capa, ma soprattutto a coloro che studiano il mondo della comunicazione e della storia dell’arte, ritengo possa essere utile mettere in evidenza alcune analogie fra il mondo disegnato da Capa e quello descritto nei testi di un pensatore contemporaneo come Mark Fisher. Proprio Fisher infatti, capisce come nonostante molti individui e gruppi sociali abbiano disdegnato o schernito il linguaggio competitivo, imprenditoriale e consumistico installatosi nelle istituzioni a partire dagli anni Ottanta, la generale adesione ritualistica a tale terminologia è servita a neutralizzare ogni opposizione a esso e, così facendo, ha contribuito a estremizzare il disagio tipico delle nostre società occidentali. Un disagio tutto individuale, solitario, spesso tenuto nascosto e spesso in attesa di esplodere in turbolenze sociali senza un’apparente direzione piuttosto che in ben più silenziosi drammi personali.
Uno dei punti che a mio avviso uniscono le due figure di Capa e Fisher, in verità assai distanti in ordine sia di tempo che di spazio, è infatti proprio il tema del dolore e del disagio diffuso. Si tratta di un dolore che – questo Capa non poteva o forse non voleva prevederlo – non è stato sperimentato a livello collettivo, ma che al contrario, ha assunto la forma di una decomposizione delle collettività attraverso nuove forme di atomizzazione. Stiamo male perché ci sentiamo soli e ci sentiamo soli perché stiamo male. A questo proposito sono infiniti i lavori di Capa in cui emerge un desiderio – oserei dire una necessità impellente – di condividere le nostre esperienze con gli altri proprio al fine di superare questo destino apparentemente già scritto. Molti sono infatti i lavori che l’artista Capa – al secolo Nino Armando Ceretti – propone ai suoi lettori invitandoli a stare uniti, a dismettere le differenze in favore di varie forme di lotta unificanti e collettive. Lotte che, se al tempo venivano avvertite come in fase di costruzione, oggi appaiono come fiori appassiti a cui nessuno presta più attenzione. Le lotte operaie dell’autonomia, le lotte studentesche, le lotte per i diritti civili e tanto, tanto altro. Quello che Capa capì e che Fisher svariati decenni dopo torna a sottolineare con straziante lucidità, è che nonostante fosse già ai suoi giorni riconosciuta l’esistenza di vincoli indissolubili fra la felicità individuale, la partecipazione politica e i legami sociali (oltre che ovviamente una distribuzione equa del reddito), è «raro che si consideri la risposta pubblica alla sofferenza privata come prima soluzione»[3]. Ed ecco quindi che torna da un lato il tema del disagio individualizzato che la società scarica sul singolo individuo come se il male appartenesse in toto alle sue fragilità, dall’altra il tema della sfera pubblica, di ciò che, volenti o nolenti, ci riguarda tutti, nessuno escluso, e per cui, da Capa a Fisher, risulta necessario, impellente, doveroso, unire le forze per ricercare una qualche forma di via di uscita condivisa, pena quella perdita di fiducia nelle nostre stesse esistenze e soprattutto nel prossimo futuro che negli ultimi assurdi anni stiamo imparando a conoscere bene e che Mattia Salvia ha definito la Timeline sbagliata[4].
Da qui emerge l’irruenza verbale e estetica dei fumetti di Capa, i suoi perentori inviti a mollare i freni inibitori e inseguire il desiderio, la ricerca della costruzione di comunità, lo sberleffo contro ogni forma di potere istituzionale e non. È proprio questa urgenza ad alzare il tono dei suoi fumetti, a renderli spesso di difficile comprensione, a farceli sembrare una chiamata alle armi corrosiva ma sempre ben calibrata.
Il punto di contatto fra i due lo troviamo ancora nelle parole di Mark Fisher quando sostiene che: «La privatizzazione dello stress fa parte di un progetto che mira alla quasi totale distruzione del concetto di pubblico, esattamente ciò da cui dipende in modo sostanziale il benessere psicologico»[5]. Uno stress individuale e colpevolizzante che discende irrimediabilmente dal tipo di società che, primo fra tutti, svuota di senso e dignità il lavoro come proprio Capa aveva capito e più volte sottolineato nei suoi fumetti.
La ricerca costante e se volete romantica di una via d’uscita è un qualcosa che per Capa è ancora possibile, un ultimo barlume di speranza da cogliere con divertimento ma mai con banalità, che proviene però da un mondo oramai lontano e da anni rimessi colpevolmente in discussione, un mondo a cui ha fatto seguito ciò che sempre Fisher ha definito, senza più alcun barlume di speranza, come Realismo capitalista, esattamente quel sentire comune che annienta ogni speranza e che ci piega sotto il giogo dell’attuale sistema iper capitalistico anch’esso già intravisto da Capa in molti dei suoi lavori.
Se per il compianto autore inglese siamo dunque costretti a fare i conti con una strada segnata, con un indirizzo contro cui nulla appare oggi utile contrapporre, è forse necessario tornare a leggerci qualche striscia di Max Capa in cui è proprio nella ricerca ostinata di tale percorso, e non nel suo raggiungimento, che viviamo e ci alimentiamo tutti di felicità e di bellezza. A questo proposito mi risuonano nella mente alcune parole scritte da un altro grande pensatore scomparso recentemente a cui spesso è toccata la medesima sorte oscurantista, ovvero Toni Negri, che nel suo Arte e moltitudo ebbe a scrivere: «L’arte è una dimostrazione perenne dell’irriducibilità della libertà, dell’azione sovversiva, dell’amore per la trasformazione radicale»[6]. Un insegnamento che sa di invito, una granitica certezza che continua a risuonare ancora oggi come attuale, necessaria e che ci costringe a non abbandonare la strada che Max Capa ha indicato con i suoi fumetti senza tempo spingendoci a capirlo come forse ancora non abbiamo saputo fare.
[1] Terrorismo o rivoluzione, Roul Vaneigem, condizione Edizioni Puzz, Milano e Il Buco, Bari, Luglio 1972.
[2] Max Capa, Lampi d’amore di una macchina da cucire per un ombrello rosso su un tavolo anatomico coperto di fiori, Edizioni Puzz club delle mamme di famiglia, Milano, gennaio 1973.
[3] Mark Fisher, Il nostro desiderio è senza nome, minimum fax, Roma, 2020, p.88.
[4] Mattia Salvia, Interregno. Iconografie del XXI secolo, NERO, Roma, 2022.
[5] Mark Fisher, Il nostro desiderio è senza nome, minimum fax, Roma, 2020, p.89.
[6] Toni Negri, Arte e moltitudo, DeriveApprodi, Roma, 2014, p.18.