Una cosa è certa: Piazza della Repubblica a Milano, da quando è stata creata, è sempre stata dov’è. Solo che mica si è sempre chiamata così. L’Italia una volta… cioè, la prima volta, quando è nata come forma statale, è stata un regno; durato, per nostra fortuna – visto che la mala razza dei Savoia, che ne reggeva le sorti, in quel lasso di tempo è riuscita a precipitare gli italiani in tre guerre coloniali, due guerre mondiali, una dittatura fascista e l’abominio delle reggi razziali- solo 85 anni.
Chiamare una piazza con un nome dedicato a un’organizzazione statale diversa e antitetica a quella che vigeva nel 1865, quando la piazza fu aperta per la prima volta, non solo sarebbe stato un po’ contraddittorio e situazionista ante litteram, diciamo che non era proprio ammissibile. Per questo le fu dato il nome di Piazza Stazione Centrale.
Adesso non guardarmi così, lo so che la Stazione Centrale è mezzo kilometro più avanti, alla fine di via Vittor Pisani, in Piazza Duca D’Aosta, ma sta lì dal 1931, prima stava in quella piazza in cui abbiamo raggiunto Duca Lamberti, che adesso tu conosci come Piazza della Repubblica, ma che quando venne aperta sull’asse viario dei bastioni (un anno dopo l’inaugurazione della stazione) fu chiamata con il nome stesso della stazione e poi, quando la stazione venne spostata 500 mt più avanti, nel Campo Trotter (era lo stadio di Milano e stava dove adesso c’è Piazza Duca D’Aosta, ma nel 1925 fu spostato, per volontà di Piero Pirelli, l’allora presidente del Milan, e su progetto dell’architetto Ulisse Stacchini, in zona San Siro) le diedero il nome di Piazza Fiume. Il nome con cui la conosci tu le fu dato nel 1946 quando, dopo il referendum, i tuoi bisnonni si liberarono della vile e criminale dinastia sabauda.
La stazione non fu spostata per un capriccio, ma perché non era più sufficiente. Alla nascita del Regno d’Italia, Milano ha circa 150.000 abitanti, ma vent’anni dopo, nel 1881, gli abitanti sono cresciuti a 350.000, nel 1908 (in cui la città assorbe la punta immigratoria che riprenderà, triplicandosi, solo dopo la Seconda guerra mondiale) ammontano a 500.000. Il traffico dal resto d’Italia verso il capoluogo lombardo richiede una nuova infrastruttura ferroviaria. Lo spostamento e l’ampliamento della stazione più importante di Milano viene quindi già prevista dal piano regolatore di Cesare Beruto del 1889, ma il bando per il progetto della nuova stazione viene emesso solo nel 1906. Lo vincerà Ulisse Stacchini (uno che su Milano ha lasciato l’impronta: sì, quello che progetterà San Siro, ma suo è anche il ristorante Savini). Se in quello stesso anno viene posta la prima pietra al Campo Trotter, dovremo aspettare il 1911 perché i lavori prendano l’avvio, sospesi nel 1915 per la guerra, riprenderanno solo nel 1924, per essere terminati nel 1931.
Il 1° luglio 1931 la nuova monumentale Stazione Centrale di Milano viene inaugurata dal Ministro delle Poste e del Telegrafo, Costanzo Ciano. Dalle sue scale di marmo scivoleranno dentro la città centinaia di migliaia di migranti che nel giro di quarant’anni (sicuramente meno, considerando l’interruzione per la guerra) porteranno la sua popolazione a 1.750.000 abitanti.
Ora. Noi abbiamo appena raggiunto Duca Lamberti in Piazza della Repubblica, lui sta andando verso Piazza Leonardo da Vinci. Quindi prenderà Viale Tunisia (importante via di scorrimento costruita, guarda caso, sull’asse della vecchia stazione) e dato che dobbiamo tenere il suo passo, in Centrale non ci passiamo. Però, la vedi da qua… a proposito, una piccola curiosità: Via Vittor Pisani, progettata nel 1927 è un errore di prospettiva emblematico, la Stazione – lo vedi? – è completamente fuori asse rispetto al viale. È così da quando aprirono la fermata della linea 2 della metropolitana, nel 1969.
Nel momento che ti dico di guardare via Vittor Pisani per tutta la sua lunghezza per vedere quanto è storta, questa mia strategia narrativa – quella cioè di far finta di seguire un personaggio letterario come Duca Lamberti mentre, uscito dalla questura, se ne va verso casa- rivela la sua debolezza: non può non fare i conti con una dicotomia temporale: I milanesi ammazzano al sabato esce nello stesso anno in cui inaugurano la Metro Verde, nel 1969, quindi Scerbanenco lo ha scritto, quanto meno, l’anno prima. Quando Duca Lamberti si trova lì, al semaforo, nel pieno della notte, pronto a imboccare Viale Tunisia, è il 1968. Nella migliore delle ipotesi Via Vittor Pisani è devastata dai lavori per la metro. Non è quella che vedi tu (se mi hai seguito fino a qui), ma non è nemmeno la via alberata con il tram che ci passava in mezzo dell’inizio degli anni Sessanta.
Immaginati però che sia ancora così, e che oggi sia il 17 settembre del 1957, e che siano più o meno le tre e mezza del pomeriggio. Lo vedi quel tipo che sembra un impiegato dell’Istituto Nazionale di Previdenza e Credito delle Comunicazioni, che tiene quella borsa di pelle nella mano sinistra e che sta attraversando Piazza Duca D’Aosta verso Vittor Pisani? Bene, è proprio un impiegato di quell’istituto di credito (nel 1995 se lo è mangiato Banca Intesa), si chiama Romilio Frattini e tutti i giorni va dall’Associazione Nazionale Ferrovieri, che ha sede in Centrale, alla vicina agenzia di cui è dipendente per versare i contributi dei ferrovieri. Oggi in quella borsa che stringe nella sinistra ha 19 milioni di lire, nella destra, che tiene in tasca, stringe una rivoltella che gli è stata fornita per difendersi in caso di rapina.
In questo preciso momento tre uomini mascherati, armati di mitra, lo accerchiano. Da dove cazzo sono sbucati? si chiede Romilio, mentre sta per estrarre di tasca la pistola. Un colpo fulmineo e ben assestato dato con il calcio del mitra, lo stende sul marciapiede. Mentre cade per terra, una Fiat 1100 verde arriva sgommando da via Boscovich si ferma per caricare i tre uomini che hanno afferrato la borsa con i soldi, e riparte velocissima verso Piazza della Repubblica, gira in Viale Tunisia e scompare, forse in Regina Giovanna o in Buenos Aires, vallo a sapere.
Quello che sappiamo è che quella 1100 verde, di cui ogni volta cambiava la targa (quella rilevata dai testimoni in Via Vittor Pisani apparteneva a una Fiat Balilla 508 fuori produzione dal 1939), era stata segnalata in tutte le più recenti rapine accomunate da una rapidità di esecuzione legata a un paziente appostamento per calcolare tempi e consistenza del bottino. Il giorno dopo “Il Corriere d’informazione” attribuì a questa banda le ultime 4 rapine stradali, pubblicando uno specchietto in cui venivano evidenziate molte analogie, troppe, tra le diverse rapine che, nel giro di 5 mesi, avevano visto come scenari Corso Lodi, Via Solferino, Piazza Wagner, e Vittor Pisani.
Questi discepoli di Ezio Barbieri… lo sai vero chi era Ezio Barbieri? No? Dai… te lo racconto in velocità. Ex impiegato comunale Ezio si dà, negli anni della guerra, al mercato nero. Per difendere la propria mercanzia, in uno scontro a fuoco, uccide un milite della “Ettore Muti” e deve darsi, suo malgrado, alla clandestinità. Subito dopo la Liberazione (approfittando del fatto di essersi dato alla macchia millanterà per tutta la vita legami con la Resistenza, sempre disconosciuti dai rappresentanti dell’ANPI) si lega d’amicizia con l’ex-pugile Sandro Bezzi, conosciuto nella balera“Il Pulverun”, aperta in quegli anni proprio nei locali sotto la Stazione Centrale (si chiamava così, perché quando i treni entravano in stazione l’intonaco del soffitto buttava polvere e calcinacci sui ballerini). Il loro incontro ebbe una di quelle reazioni catalizzatrici che portò alla nascita di una grande idea (per quanto criminale): importare per le strade della Milano ancora ingombre delle macerie della guerra, il metodo Jules Bonnot (se il nome dell’inventore delle rapine in automobile non ti dice nulla, puoi scoprire la sua vita incredibile e dolorosa affidandoti a Pino Cacucci e alla lettura del suo In ogni caso nessun rimorso). Velocissime rapine in auto, eseguite con una Lancia Aprilia targata, a spregio, 777 come il numero da comporre per chiamare, allora, la questura. L’avventura imprenditoriale della “Bezzi & Barbieri, Furti e Rapine” si esaurisce alla fine del 1946, con la morte di Sandro in uno scontro a fuoco e l’arresto di Ezio, ma la loro impresa e il loro metodo fecero scuola.
I tipi della Banda della 1100 verde ne sono un esempio. Ti dicevo: questi discepoli di Ezio Barbieri non furono mai beccati, ma è mia personale convinzione che, se non tutti, alcuni di loro confluirono in quella banda che nel febbraio dell’anno dopo mise a segno un colpo storico. Quello di Via Osoppo.
Ma te ne racconto nel prossimo capitolo. Adesso torniamo a noi. Dove eravamo rimasti? Ah, sì. Stavamo guardando quanto è sbilenca la Centrale se la guardi dritta da Piazza della Repubblica. La prima volta che ti capita di andare in Centrale a prendere un treno, facci caso: nel 2010, alla presenza del più insulso sindaco che questa città abbia avuto (un vero peccato che fosse il primo donna), sul lato sinistro dell’ingresso principale è stata posta una targa ottusamente retorica con cui la stazione è stata intitolata a una delle tante sante della mitologia cattolica: tal Francesca Cabrini.
Recita la targa:
«Da questi binari tante volte si avventurò per le strade del mondo Francesca Cabrini. Santa per fede cattolica, apostola di solidarietà per tutte le genti in cammino».
Peccato che la santa è morta nel 1917, 14 anni prima che quei binari fossero posti. Raccontano che questa Cabrini andasse spesso negli Stati Uniti a rompere i coglioni con le menate religiose agli immigrati italiani. Dubito ci andasse in treno, ma anche le servisse solo per raggiungere Genova, lo prendeva alla stazione di Piazza della Repubblica.
Era lì che prima del 1931 arrivavano i migranti. È qui che il sedicenne Dzorzo Volodymir Valerianovic Scerbanenko, figlio dell’ucraino Valeriano Scerbanenko (professore di letteratura all’università di Kiev che morirà fucilato durante la rivoluzione bolscevica) e dell’italiana Leda Giulini, scende con sua mamma dal treno arrivato da Roma in un giorno d’estate del 1927. Quando il 27 ottobre 1969 morirà al civico numero 25 (dove dall’inizio degli anni Sessanta viveva alternandosi con Lignano Sabbiadoro) di quella stessa piazza che lo aveva accolto al suo arrivo a Milano, all’anagrafe era registrato da 34 anni come Giorgio Scerbanenco.
Mentre Duca Lamberti aspetta che il semaforo diventi verde per imboccare Viale Tunisia, vieni con me, facciamo un salto veloce davanti a quel numero civico. Lo vedi questo palazzone razionalista? Abbastanza anonimo in questa piazza anonima, vero? Però non trovi ingiusto che in questa città che dedica targhe e statue a sante e porci (se di porco te ne è venuto in mente in particolare uno del Valdarno inferiore, non ti dirò che hai sbagliato), non ve ne sia una su questo brutto palazzo a ricordare dove il più grande scrittore italiano (e milanese) del secolo scorso ha trascorso gli ultimi anni della sua vita.
Abbiamo seguito Duca Lamberti, il suo personaggio più riuscito, fino a qui e guarda, adesso sta per attraversare e imboccare Viale Tunisia. Sbrigati, stammi dietro, che dobbiamo precederlo. Al civico 15 ho una cosa da raccontarti, lo aspettiamo lì.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.