Gli anni di apprendistato di Italo Filone

Boris Battaglia | (Quasi) un premio 2024, Affatto |

Ma niente canzoni d’amor
Mai più mi prendano il cuor
La notte è passata e le nuvole
Gonfiano schiuma di Baltico e cenere
E cenere avrò

Bardamu, Vinicio Capossela

Sembrerebbe, a fidarsi dei filologi, che il termine «modernità» sia stato usato per la prima volta da Charles Baudelaire in un testo critico del 1863 dedicato all’incisore Costantin Guys. Per quanto le incisioni di questo olandese, dedicate agli intrattenimenti della vita borghese parigina, siano molto belle, non sono loro il vero interesse di Baudelaire quando pubblica sul “Figaro” il saggio intitolato: Il pittore della vita moderna. Le incisioni di Guys sono solo un pretesto che permette al grande poeta dei Fiori del Male, di elaborare una riflessione teorica sulla propria arte all’interno del proprio tempo. La modernità è il costrutto culturale e temporale, nello specifico baudelairiano anche metropolitano, nel quale l’artista vive e nel quale fa esperienza della sfuggevolezza della vita. L’inesausta ricerca di strategie per affrontare l’angoscia che deriva dalla modernità e resistervi, sarebbe sempre secondo baudelaire, ciò che caratterizza l’arte.

Nel secolo scorso i sociologi presero di peso questa definizione per applicarla al periodo storico successivo alla Seconda Rivoluzione Industriale. Periodo in cui il mutamento sociale, nel bene e nel male, diventa inarrestabile. In realtà il mutamento sociale si era fatto sempre più rapido già a partire dalla Rivoluzione Francese e i letterati, quasi tutti di estrazione borghese, avevano adottato le loro strategie per reagire allo spavento che causava loro l’assistere al crollo delle certezze del loro mondo.

La spinta decisiva in questa direzione la diede Johann Wolfgang Goehte fissando, tra il 1795 e il 1796, i paradigmi della reazione all’angoscia del mutamento in un romanzo, il Wilhelm Meisters Lehrjahre (in italiano Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister), con cui dava vita a un genere del tutto nuovo: il Bildungsroman.

In cosa consiste la rivoluzione goethiana? Tutto sommato in una formula semplice, l’apprendistato del proprio protagonista, nello specifico Wilhelm Meister, non è più il lento percorso del protagonista sulle orme del padre per riprodurne nell’immutabilità del tempo le gesta…

(piccolo spoiler su dove sto per arrivare: a un certo punto, circa a metà del Saraceno, Italo Filone dice al sé stesso bambino o forse al proprio figlio, suscitando, per questa incertezza, nel lettore un moto di agghiacciato terrore:

«il tempo non passa ma si accumula»)

…bensì l’incerta esplorazione del proprio tempo e del proprio spazio che esorcizza la modernità in una forma simbolica.

Per tutto il XIX secolo questa formula rivoluzionaria rispetto alla tradizione narrativa, ma reazionaria rispetto agli sconvolgimenti sociali, ci darà personaggi indimenticabili. Da Elizabeth Bennet a Eugenij Onegin, da Julien Sorel a Bel-Amì, da David Cooperfield a Renzo Tramaglino.

Poi però succede una cosa. Arriva un certo Ferdinand Bardamu e fa saltare tutte le carte in tavola. Alter ego di Louis-Ferdinand Destouche (in arte Louis-Ferdinand Céline), Bardamu porta con violenza dentro la struttura reazionaria del romanzo di formazione la bomba dell’autobiografismo, e tutto esplode. Uomo profondamente contraddittorio, spesso più in bilico verso l’abiezione (avido, ferocemente antisemita, filonazista, collaborazionista, ma soprattutto vigliacco e delatore) che verso la virtù (anticapitalista, antimilitarista e pacifista, e – aspetto che mai viene evidenziato- tenero cantore del corpo femminile e della danza), la sua opera è una delle più rivoluzionarie della storia dele letteratura del Novecento. Prende il romanzo di formazione goethiano, che da un secolo abbondante ci rompeva i coglioni e ne mostra tutta l’intrinseca debolezza reazionaria riscrivendone i paradigmi nel pieno della presa di potere fascista su tutta l’Europa.

Viaggio al termine della notte e Morte a credito (con buona pace del mio amato Hanns-Erich Kaminsky e dei, da me molto meno amati, Pier Paolo Pasolini e Patrick Lepetit – gente che, per prendere le distanze da un “mostro” umano devono anche dimostrarne (Pasolini – che poi non era questo gran spettacolo dal punto di vista umano- più di tutti in modo imbarazzante) l’intrinseca bruttezza dell’opera, perché nel loro pensiero lineare la bellezza è una coordinata etica e un gran figlio di puttana non può darcene) sono due assoluti capolavori di bellezza lancinante.

Nel Viaggio (rifiutato da Gallimard e pubblicato da Denoël nel 1932) attraverso la figura di Bardamu, racconta la propria formazione di uomo, mentre in Morte a Credito, racconta – avendo sempre come filtro la figura di Ferdinand Bardamu – la propria infanzia e adolescenza.

Al di là della grandezza dello stile, l’azione rivoluzionaria che Cèline inietta, con l’autobiografia, nel genere del romanzo di formazione produce in quella barriera simbolica che Goethe, e tutti i romanzieri che per un secolo e mezzo gli hanno tenuto dietro, aveva eretto a propria difesa dagli scombussolamenti della modernità, una crepa insanabile. La struttura collassa e mostra che, si fottano i romantici, avevano ragione i classici e gli illuministi: il nostro percorso esistenziale è solo un cammino obbligato sulle orme dei nostri padri, costretti a ripetere i loro errori, fino alla riscossione dell’unico credito che in tutta la vita ci è dato accumulare, quello della morte.

Fatte le doverose proporzioni, Vincenzo Filosa è, a mio avviso, il narratore italiano che, nell’ultimo decennio, ha fatto l’operazione stilistica e teorica più simile, ma in parte contraria, a quella operata da Céline negli anni Trenta del secolo scorso. Se nel decennio precedente Vincenzo aveva pubblicato, quasi in sordina (con Canicola credo sia impossibile fare diversamente) due libri (Viaggio a Tokyo e Figlio unico) necessari a creare il proprio immaginario, è nel 2020 (sì, certo il libro è uscito a dicembre del 2019, ma è ascrivibile in pieno al nuovo decennio) che sforna il suo primo vero capolavoro: Italo. Educazione di un reazionario.

Se mi hai seguito fin qui, sai dove voglio arrivare.

In Italo Filosa ci racconta, attraverso il filtro del suo alter ego Filone, la cronaca della propria empasse di uomo adulto, come – ripeto, fatti tutti i distinguo- Céline faceva nel Viaggio. E lo fa con una crudezza céliniana e un’onestà intellettuale che non ha eguali nel panorama dei narratori italici. Non è un caso, in questo senso che il protagonista dia, con il suo nome, il titolo al libro. Ma non trascuriamo il sottotitolo: Educazione di un reazionario. È una dichiarazione di piena consapevolezza dell’uso che l’autore sta facendo del genere “romanzo di formazione”, inventato da Goethe, come abbiamo visto, quale reazione ottocentesca ai mutamenti della modernità.

Il discorso di Italo, che è una resa dei conti con se stesso, restava però in sospeso. Quanto Filosa si inserisca nell’ottica céliniana e tiri le conseguenze del suo agire narrativo, lo scopriamo leggendo Il Saraceno, sorta di prequel (si direbbe adesso) a Italo – come Morte a credito lo era al Viaggio– in cui Filone/Filosa fa i conti con le proprie infanzia, adolescenza e giovinezza, ma soprattutto con suo padre.

Pur restando nei parametri dell’autobiografismo, Filosa riesce a universalizzare questo rapporto, la cui lenta costruzione ha come risultato di quello che è (che siamo) adesso.

E quello che è adesso è prefigurato in quella tavola epifanica in cui si incontrandosi con un randagio descrive ciò che siamo: una consapevolezza che terrorizzava Goethe.

«Sono come quei sorbetti che arrivano al tavolo per sbaglio. Nessuno li ha ordinati, però “visto che ci siamo”…»

Da nessuna parte potrai trovare una definizione più azzeccata di quello che siamo. Non figli di Annibale, ma figli di Ulisse. Tanti Telemaco condannati a ripercorrere le orme, gli errori e l’errare di nostro padre. Nient’altro che un’ombra senza volto tra un padre e un figlio.

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