Seconda parte
La frase vera, tratta dal racconto di Cesare Pavese Il compagno, è «certe mattina di nebbia e di sole». La parafraso mentre Il cielo terso rende la domenica di mare quasi estiva.
Un circolo ARCI in collina, di quelli che diventano il faro della comunità e fulcro del paese che invecchia e dei giovani che se ne vanno, il Sindaco di Senigallia lo ha fatto chiudere per semplice motivazione politica: da sempre la destra fa questo, elimina i luoghi di dissenso e appiattisce la cultura, anche del luogo. Ma chi lo ha gestito fino all’ultimo vuole festeggiare i settanta anni di attività e di storia.
Spengo la Roubaix con molta poca poesia e vado a Scapezzano.
Quando arrivo, il vino rosso è finito.
Accidenti.
Trofeo Binda, domenica 17 marzo 2024
Ha una storia tutta sua, il Trofeo Binda.
Nato per onorare Alfredo Binda, ciclista degli anni Venti e Trenta, da subito fu dedicato al ciclismo femminile. Negli anni è diventata una classica, che si differenzia dalle gare maschili per cui l’evoluzione ha portato agli omonimi, dal Giro Donne al Tour Femmes. Il Binda invece ha sempre mantenuto il suo fascino, la sua dignità e il suo essere unico, come solo certe unicità, spesso solo femminili, riescono a essere.
Ovviamente privo di copertura televisiva per anni se non in differite alle 23 di sera, oggi, in quest’oggi del 2024, finalmente riesce ad avere la diretta delle 14:20 di domenica pomeriggio.
Cittiglio è un piccolo comune in provincia di Varese che conta 3.829 abitanti e dista 15 minuti dal Lago Maggiore nello sbocco Laveno – Mombello. È il lato lombardo del lago, quello dell’estensione milanese in zone industriali e case basse di piccole frazioni attraversate dalle strade provinciali e statali, terre di leghisti che hanno radicato nel varesotto un sistema economico e strutturale specifico che, da lontano, sembra funzionare. Abituati alla pianura milanese, si pensa che quell’estensione sia altrettanto piatta, come notare il luccichio della Madonnina del Duomo di Milano in certe giornate terse da Bergamo Alta insieme a una distesa impressionante di agglomerati urbani. Non si pensa mai che la Lombardia abbia una planimetria altimetrica, per cui quando si pensa al ciclismo intorno ai laghi, l’immaginario collettivo è quello che porta alle colline e alle montagne come salendo dal Lago di Como durante il Lombardia e che porta al Colle del Ghisallo nel quale c’è il Santuario omonimo con il monumento di Fausto Coppi e Gino Bartali, ormai luogo di culto e di pellegrinaggio per i ciclisti professionisti e amatoriali.
Per cui l’immaginario fomentato dall’epica del ciclismo fa venire in mente le grandi montagne, a maggior ragione se quelle montagne sono qualcosa di geografico per quanto incantevoli dalla pianura ma, per chi come me nasce e vive in città di mare, è il mare la bussola per orientarsi rispetto alla collina, le montagne sembrano tutte uguali e perdere l’orientamento è facilissimo. E per i marinai come me osservare, dal basso del lago, i monti intorno che salgono in ogni direzione, circondati da dolci colline verdi ovunque, è destabilizzante. Ricordo una conoscente di Torino: se per me il mare era il punto di riferimento per lei lo erano le montagne, tanto è vero che per lei andare al mare era una tortura perché si perdeva sempre. Mi ha dato sempre da pensare questa analogia, di come i luoghi e la società in cui cresciamo e impariamo a muoverci modifichino il nostro essere, i nostri gusti e le nostre fobie.
Al foglio firma di Maccagno con Pino e Veddasca il cielo è coperto, nuvole altissime più da foschia che non da minaccia di pioggia.
Sono cinquant’anni che esiste il Binda e sono cinquant’anni di un’epoca ciclistica femminile che ha sempre visto le migliori cicliste del mondo, anche quando il ciclismo femminile era un movimento piccolo e per lo più sconosciuto al grande pubblico, il quale eventualmente conosceva qualche nome solo per le medaglie alle Olimpiadi degli anni novanta. Dal 1974 in Italia abbiamo una gara nostra, solo nostra, per la quale essere orgogliosi.
La campionessa del mondo, l’olandese Lotte Kopecky, è presente nonostante avesse dichiarato che non avrebbe partecipato, salvo che poi non aveva voglia di allenarsi da sola e ha deciso all’ultimo di gareggiare, mentre manca la campionessa italiana Elisa Longo Borghini che ha scelto l’allenamento in altura sacrificando il Binda che è sempre stata la “sua” corsa.
Il ciclismo femminile è forse lo sport che negli ultimi anni ha visto una trasformazione velocissima nel passaggio da amatoriale a professionistico con l’apertura delle squadre maschili alla squadra femminile, molto più del calcio nonostante il meccanismo sia stato lo stesso. Non a caso nel ciclismo le squadre ricche hanno nel corrispettivo femminile le campionesse – in un sistema che purtroppo non permette a squadre storiche di sopravvivere e quindi a chiudere i battenti -, nel calcio, dopo un iniziale dominio della Juventus dovuto a una canalizzazione del gruppo storico che fu Brescia più qualche altro innesto e che fu l’ossatura della Nazionale femminile del Mondiale 2019, quello delle Ragazze Mondiali, oggi è la Roma la squadra più forte, che vince il suo secondo scudetto, frutto di una visione, di una prospettiva in un progetto che non doveva esaurirsi con un ciclo di giocatrici ma che andava integrato e fatto respirare, permettendo un naturale passaggio tra le senatrici e le giovani.
A meno 38 chilometri del Binda è la francese della FDJ Nouvelle – Aquitaine Futuroscope Jade Wiel che scatta e rompe la situazione piuttosto attendista ma è ripresa quattro chilometri dopo con però il merito di aver animato la gara. E infatti la gara si anima e il gruppo si allunga, le squadre con le campionesse fanno i treni per loro e accelerano cercando di prendere per prime le salite. Attraversando Casale, sono i capelli rossi della campionessa di ciclocross, l’olandese Puck Pieterse, a sfrecciare staccando il gruppo: un’atleta giovane, evidentemente giovane nei muscoli asciutti e nella magrezza del corpo non ancora del tutto arrivato alla maturità del fisico, vedi i loro volti senza caschetto e senza gli occhiali e la fanciullezza del sorriso è quasi commovente.
Sulla salita di Orino la gara si accende davvero, le atlete intensificano il ritmo e la velocità aumenta tra scatti e contrattacchi in una tattica che può vedere una ciclista che parte e tiene la distanza macinando strada, allungando su una salita decisiva del percorso che va a fare selezione o decidere di arrivare insieme aspettando la volata finale.
All’ultimo giro è la prima opzione che viene tentata da sei atlete sulla salita di Casale. Giada Borgato, passista e campionessa italiana nel 2012 prima di ritirarsi nel 2014, commentando in telecronaca, si stupisce che sia la salita di Casale a fare tanta selezione quando di solito il Binda si decide sulla salita di Orino. Si formano così due gruppi, cinquanta metri l’uno dall’altro che si ricongiungono prima dei meno 10. Ora è solo tattica nonostante qualche affondo provato sulla salita di Orino.
Elisa Balsamo è in poco tempo diventata esplosivamente una delle migliori cicliste italiane. Sia su strada sia su pista ha avuto picchi di forma che hanno reso le sue prestazioni straordinarie vincendo anche il Mondiale nel 2021 con la quale maglie ha vinto l’anno dopo proprio il Trofeo Binda.
In tutte le accelerazioni, tutti gli attacchi, tutti i recuperi dei buchi, Balsamo è stata lì, nel gruppo delle migliori: la sua treccia che esce dal casco oscilla a ritmo, a destra e a sinistra, a sinistra e a destra, sopra ai colori rosso, blu e gialli della casacca della LIDL – Trek.
Nei serpentoni della discesa da Orino, ai meno 4 dal traguardo, di nuovo se il gruppo rimane compatto è la tattica che decide le gare e può capitare in ogni punto del percorso una ciclista che parte e tiene la distanza macinando strada, allungando su una salita decisiva del percorso che va a fare selezione o decidere di arrivare insieme aspettando la volata finale.
Negli ultimi due chilometri è invece questa seconda opzione che si verifica.
Dopo la curva, il rettilineo dell’arrivo a telecamere fisse vede partire a manetta un nugolo di cicliste da cui si staccano Lotte Kopecky ed Elisa Balsamo. Quando Elisa Balsamo alza le braccia al cielo, sorridente e vincente, i telecronisti RAI Andrea De Luca, Giada Borgato e il C.T. della Nazionale di ciclismo femminili, Paolo Sangalli, urlano di gioia nei microfoni.
Giro delle Fiandre, domenica 31 marzo 2024
Scherzano i telecronisti RAI che fanno il toto date: di solito o l’una o l’altra capitano per Pasqua, se non è il Fiandre è la Roubaix. Nel 2024 capita al Fiandre cadere nella domenica di festa. Cambia poco, il Fiandre è bello tanto quanto la Roubaix, per quanto le differenze siano notevoli: tanto ordinati e birraioli i belgi, tanto polverosi e apparentemente disorganizzati i francesi.
A un certo punto i belgi hanno la brillante idea di far partire la gara femminile dopo quella maschile quando di solito le due corse, una al mattino e una al pomeriggio, avevano sufficiente tempo di respiro l’una dall’altra. Per cui mentre Mathieu Van der Poel ha già vinto, la sovrapposizione del femminile non permette di vedere la premiazione dell’olandese, nel frattempo intervistato dal giornalista Stefano Rizzato, se non, in alcuni frangenti, nello schermo diviso in due in diretta in punti diversi della stessa regione.
E accade ciò che non ci si aspetta, o che si sperava accadesse ancora dal 2014.
Già il Fiandre vinto da Van der Poel è una lenta accrescente emozione, dal gruppo compatto alla selezione dei muri, dall’evidente fatica di fango e pioggia che però nel maschile salva molti corridori (scrosciando invece su quella femminile) all’accelerazione dell’olandese che scatta a 45 chilometri dall’arrivo sul muro del Koppenberg (il ciottolato tipico belga) e va a vincere, rallentando e persino alzando al cielo la sua bicicletta, quando le telecamere saltellano sulla gara delle donne, la pioggia scroscia impietosamente.
Per quanto la diretta parta a meno 35 chilometri dall’arrivo, la situazione in gara vede le migliori, tra cui la nostra Elisa Longo Borghini, pedalare faticosamente sulle strade fiamminghe. Elisa Longo Borghini, dicono gli esperti in telecronaca, non è velocissima, sa fare tutto e benissimo, sa anche fare le crono, ma al momento delle volate non è sempre certa la sua vittoria: al contrario, è una che in queste condizioni di gara, ora che sono in otto in testa, le migliori della gara, potrebbe pensare di scattare e fare il “buco”, lei che di certo ha una resistenza fisica importante.
È presumibile pensare che sia stata proprio questa resistenza e una lucidità clamorosa, nella pioggia a quel punto scrosciante e nel fango, che permette a Longo Borghini di allungare sull’ultimo muro, il micidiale Paterberg, le cui caratteristiche sono un dislivello di 47 metri su 400 metri di lunghezza con una pendenza media del 12,9. Praticamente parte un polmone a farla a piedi, figurarsi in bicicletta. L’allungo funziona e le otto diventano tre, arrivando a dare 21 secondo alle inseguitrici.
Quando l’urlo di Longo Borghini in una di quelle volate che non vince quasi mai secondo gli esperti si sente nonostante la telecronaca emozionata del giornalista RAI Andrea De Luca, nella foto di Eurosport che vuole i due vincitori sul palco, Van der Poel in maglia arcobaleno, sorride con il trofeo del Fiandre tra le mani insieme a un altrettanto sorridente e premio in mano la straordinaria piemontese Elisa Longo Borghini in maglia tricolore.
Parigi-Roubaix, domenica 7 aprile 2024
Lo dice Stefano Rizzato: l’eco delle rovinose cadute al Giro dei Paesi Baschi arriva fino a Parigi e riapre la questione sicurezza dei ciclisti. Sicurezza zero, si analizza, perché le varianti e le variabili per cui un ciclista può rovinare fragorosamente a terra anche a velocità ridotte sono così tante che non si possono prevedere tutte. Uno può anche cadere in allenamento, farsi male in mille modi diversi che non sia la sola gara, non si può prevenire al cento per cento l’incidente.
Recap.
La Parigi-Roubaix arriva all’edizione 2024 con una chicane inserita all’ingresso di uno dei tratti più veloci e pericolosi: la foresta di Arenberg, lo sterrato più romantico ed epico della corsa. Viene inserito all’ultimo perché qualche gara prima, in diverse gare, cadono a terra facendosi parecchio male Wout Van Aert tra gli altri e, al Giro dei Paesi Baschi, a causa di una cunetta di asfalto in mezzo a una curva, in discesa, attorniata da campi con il canale di scolo, qualche albero e qualche masso tipico della zona, Jonas Vingegaard, Primoz Roglic, Remco Evenepoel tra gli altri. Wout Van Aert, cadendo in un punto piano di strada a più corsie, teoricamente privo di pericoli, riporta fratture a clavicola, costole e sterno oltre che una contusione a un polmone. Roglic ha ematomi intramuscolari ma va via dal luogo dell’incidente sulle sue gambe, come Evenepoel la cui diagnosi salendo in ambulanza è frattura di una clavicola e di una scapola. Vingegaard rimane a terra, in posizione supina fino a che non arrivano i paramedici: oltre alla frattura di diverse costole e di una clavicola, ha anche una contusione polmonare e pneumotorace.
Nel ciclismo moderno, cadute come queste non sempre sono viatico di guarigione tale da far tornare ai livelli precedenti.
Chris Froome è un sudafricano naturalizzato inglese che vive il periodo di passaggio tra il ciclismo di una volta e quello del computerino e delle radioline; vince i Tour de France come fossero shottini di vodka alla menta, alcuni senza mai vincere nemmeno una tappa. È il ciclista numero 1 della Sky, squadra cannibale e ricchissima che cambia a modo suo il ciclismo, accusata naturalmente di aver tolto poesia a questo sport, senza considerare che arriva sempre un momento radicale di cambiamento e c’è sempre qualcuno che finisce per esserne colpevole. Molti, anche negli anni successivi, non hanno dubbi: si è sempre drogato e vinceva per questo, perché allora se era così forte non vinceva anche “dopo”? Il dopo è riferito a quel muro di una casa che si è ritrovato di fronte nel 2019, in gara al Giro del Delfinato, gara usata per allenarsi per il Tour de France di quell’anno. La può raccontare, ma lo schianto è stato talmente fragoroso che la domanda, quel dopo, è davvero infelice: mai più tornato ai livelli di quando era in Sky.
Egan Bernal, colombiano della Ineos Grenadier, new best thing del ciclismo mondiale e vincitore del Tour de France 2019 e del Giro d’Italia 2021 cade in allenamento finendo contro un camion nel 2022: non si è mai ripreso.
Julian Alaphilippe, campione del mondo nel 2020 e nel 2021 e vincitore di classiche monumento nell’anno d’oro 2019 tra cui la Milano-Sanremo, la Freccia Vallone e le Strade Bianche, cade in gara nel 2022 nella Liegi-Bastogne-Liegi: mai ripreso.
Thibaut Pinot, ciclista simbolo della Francia che sa sudare le vittorie, amatissimo anche oltre confine, appende la bicicletta al chiodo nel 2023, tuttavia gli è sempre rimasta la paura nelle discese quando cadde in gara in anni giovanili: gli rimase per tutta la carriera quella paura che non gli permise mai di diventare “completo”.
Immaginate.
“L’Inferno del nord” come viene chiamata la Parigi-Roubaix, la gara delle pietre e del pavé, una delle gare più amate, che inizia con queste nubi nere che aleggiano intorno alla narrazione. Una narrazione che vorrebbe essere romantica, come sempre quando si tratta di questa corsa.
Giovanni Battistuzzi, giornalista de Il Foglio, scrive presentando la Roubaix:
«Non ha nulla a che fare con il razionale la Parigi-Roubaix. Ha molto, tutto?, a che fare con il magico la Parigi-Roubaix, o ancor meglio con l’immaginario, con il visionario. È una corsa piana, un vagare tra pianure che sono più pianura che altrove, perché in Francia la pianura è diversa da quella che conosciamo qui, è un seguirsi e inseguirsi di piccole collinette, dove i metri di dislivello si accumulano nelle gambe senza accorgersene. È diverso nella Fiandra francese. Lì la pianura è più pianura che altrove e proprio perché più pianura ha ricercato le pietre per sembrarlo di meno. È un, apparizione la Parigi-Roubaix, è un luogo dove il razionale lascia il posto ad altro, a un luogo dove nulla è ciò che sembra, o forse nulla sembra ciò che è.»
Ci si prova, a sognare.
Per cui quando ai meno 60 e rotti parte Mathieu Van der Poel, olandese della Alpecin-Deceunick e nipote dell’amatissimo francese Raymond Poulidor, quando inizia a dare 2 minuti agli inseguitori, gli ultimi 50 chilometri sono chiacchiere alla Nicolò Carosio: in attesa del secondo mandiamo musica da camera.
Van Der Poel nell’arco di quindici giorni vince il Giro delle Fiandre e la Parigi-Roubaix.
Uno dice boh.
Nel 2023 sono due olandesi che vincono il Mondiale e indossano la bellissima maglia iridata, arcobaleno su bianco: nel femminile, Lotte Kopecky (terza la nostra Elisa Balsamo) e, nel maschile, Mathieu Van Der Poel.
Entrambi, nell’aprile 2024, vinceranno con quella splendida maglia la Parigi-Roubaix.
Aspettando il Giro d’Italia e il Tour de France che arriva nella mia Rimini nelle cui vicinanze io e mio babbo abbiamo già iniziato a fare sopralluoghi per piazzarci nei punti ideali in cerca di borracce lanciate dai ciclisti, o peggio pure: stazionare nelle green zone.
Rimini 1975, disegnatrice di fumetti, fumettara, illustratrice. Pubblica dal 1999. Qualche titolo: la fanzine “Hai mai notato la forma delle mele?”, le graphic novel Io e te su Naboo e Cinquecento milioni di stelle, il fumetto sociale Dalla parte giusta della storia, il reportage a fumetti scritto dalla giornalista Elena Basso Cile. Da Allende alla nuova Costituzione: quanto costa fare una rivoluzione?.