di Paolo Bacilieri
I premi, di per sé, sono una bella cosa. Lo so, sono il riconoscimento del tuo lavoro, del fatto che perlomeno qualcuno (dei giurati) legge e apprezza i tuoi fumetti.
Ma in Italia vi sono così tanti premi per i Fumetti – nella stragrande maggioranza dei casi degli oggetti di dubbio gusto e di totale inutilità, nel senso che non spostano nulla in termini di diffusione e promozione, ossia non ti fanno vendere neanche una copia in più – che pure un mediamente attivo fumettista di mezza età o quasi anziano, come me, può arrivare ad averne vinti già un numero sufficiente per ritrovarsi a sviluppare un emozione nuova, inedita (sì, non si tratta di calcolo snobistico ma proprio di una cosa emotiva, salire sorridenti su un palco, stringere mani, ringraziare la giuria eccetera) che ti porta, una volta selezionato tra i possibili vincitori, a sperare di NON vincere.
Tuttavia, sono d’accordo su questo premio a Filosa per almeno tre motivi:
1. Ha senso quello che scrive Boris citando il Dottor Destuches, meglio noto come L F Céline, che Filosa qui, come già ha fatto con Viaggio a Tokyo, Figlio unico e Italo, riesce a processare l’autobiografismo meglio di chiunque, rendendolo necessario, pubblico, politico, vitale. Grazie alla sua chirurgica precisione, la spietata oggettività di un cofano di macchina aperto su un motore, di un orologio Rolex o di un non finito calabrese, ci si ritrova immersi in una altrettanto spietata ricostruzione di dinamiche familiari e sociali, grazie anche a un montaggio, un décupage, mozzafiato, doppio e anche triplo alternato, che scava nei sensi di colpa, nel disagio, nel marciume dei sentimenti, che ti fa perfino sembrare un sedicesimo del libro doppiato per errore (la mia copia acquistata su Amazon è così) una cosa voluta. Filosa sa che l’essenza del racconto a fumetti è in questa fusione nucleare, lineare o contraddittoria di immagini e parole, il suo istinto di mangaka italiano sa declinarla in infiniti modi, sa denudarsi oltre ogni imbarazzo e sa sparire meglio di Bilbo Baggins anche senza anelli. Sa cos’è il fumetto, quello vero, quello che non vince premi, anzi è specializzato nel raccontare una battaglia quotidiana dalla quale esce quel contraddittorio campione di umanità e concretezza, vero homo italicus che risponde al nome di Ciccio Filone, u professore. Credetemi, lo conosco; come conosco la mamma Filomena, sono la prova che la mela non cade lontano dall’albero.
2. Filosa riesce a trasformare la provincia più gretta e degradata nel centro del mondo. Esemplare quella sequenza iniziale che ci porta giù per la ss 106 fino a Torre Melissa, mentre vediamo scorrere un paesaggio calabrese congelato, orrori cementizi che l’infinito amore e talento visionario di Filosa trasforma in tavole stupende ed esilaranti e che si conclude tra le crepe d’asfalto bruciate dal sole, dove in una pozzanghera residua c’è il riflesso di un aereo che va a Tokyo. Ciao!
3. Italo e Filosa sanno bene che l’eroina è meglio dei fumetti, che sarebbe falso e ridicolo affermare il contrario, ma che è proprio attraverso questa come mille altre sconfitte che i fumetti, la vita stessa, acquistano senso, verità e bellezza.