Lettura estetica e ideologica del secondo volume di La Parte Meravigliosa di Ruppert e Mulot
Non me ne vergogno e lo ammetto: sono uno snob. Anzi, come cantava Boris Vian, un gran cazzo di snob. Una delle mie snobberie preferite è quella di leggermi i fumetti che mi interessano nel momento in cui escono, nella lingua in cui escono (una delle tre che, oltre all’italiano, riesco a capire con maggiore o minore facilità… che poi son fumetti, e dato che non annovero tra le mie letture nè Blake e Mortimer né Tex, spesso è più quello che guardo che quello che leggo) senza aspettarne l’edizione italiana.
Sono così snob che, te lo dico subito – e in questo modo rispondo alla prima obiezione che potresti muovere alla nostra decisione di definire La parte meravigliosa – volume 2: gli occhi di Juliette di Ruppert e Mulot, miglior fumetto straniero dello scorso anno, e cioè che forse sarebbe meglio aspettarne la conclusione – io l’ultimo volume, La tête de Melek, quello che chiude la trilogia, l’ho già letto nell’edizione Dargaud a settembre. Ovvio, conoscere l’opera nella sua interezza mi rafforza in questa convinzione, ma anche se non avessi saputo come va a finire, avrei comunque considerato Gli occhi di Juliette la migliore cosa straniera – tradotta (male) in italiano, che mi sia capitato di leggere nel 2023 (in realtà io però, sono snob, te l’ho detto, l’ho letto nel 2022!).
Certo. C’è un’altra obiezione, e questa molto più problematica. Ruppert e Mulot erano una coppia di autori che non esiste più. Jérôme Mulot ha rotto il sodalizio con il suo socio, in seguito a un’inchiesta di Mediapart in cui Florent Ruppert è stato accusato di violenza sessuale da diverse donne. Intendiamoci, non è il fatto che la coppia non esista più a rendere problematica l’attribuzione di un premio a quel volume. Per dire: se la coppia autoriale non esistesse più per i più svariati motivi, dal decesso di uno dei due a un litigio per questioni di soldi (lo so, avessi scritto: di diritti, sarei stato più elegante, ma la questione è quella: sempre i soldi), il volume sarebbe comunque lì, pronto per essere letto da chiunque ne avesse voglia. Il problema è che Ruppert è accusato di essere uno stupratore seriale e questa accusa problematizza – in alcuni casi impedendola – la lettura dell’opera, estendendo a essa il marchio d’infamia del suo autore.
Credo che nessunə si chieda se gli oggetti d’uso di cui si serve quotidianamente (chennessò: la Mug a cui è tanto affezionatə, la stilografica a stantuffo, l’accendino vintage, l’elegante portamonete di cuoio- sono solo esempi stupidi, vale tutto) siano stati prodotti e gli siano stati venduti da una persona integerrima o da una persona che abbia avuto o abbia comportamenti tali da valergli quel boicottaggio pubblico che va sotto il nome di cancel culture.
Invece quando si tratta di oggetti estetici – canzoni, film, romanzi, fumetti ecc.- il giudizio etico sul comportamento di chi li ha prodotti, diventa automaticamente parametro critico per stabilirne non solo la validità, quanto addirittura il diritto di esistere.
Mentre, a causa di un retaggio idealistico che ci viene inculcato da una struttura vecchia e autoreferenziale come la scuola (sarebbe ora di abolirla, ma questo è un altro discorso), consideriamo gli oggetti d’uso come cose separate, se non contrapposte al soggetto produttore (anche perché della biografia di quel soggetto non sappiamo, ne ci importa di sapere praticamente nulla), percepiamo gli oggetti estetici come realtà inscindibili dal soggetto che li ha prodotti (e della biografia di quel soggetto, spesso, conosciamo molto, e – nella malattia capitalista del nostro esserne fan, vorremmo sapere tutto).
Sulla scorta di un hegelismo dottrinario, gli idealisti d’accatto che infestano scuole e redazioni, nonostante ci sia stato in mezzo tutto il Novecento, ancora la fanno da padroni nel discettare di bello e di giusto, sono convinti che la produzione artistica sia un movimento dello spirito in cui avviene la fusione tra oggetto e soggetto: l’opera d’arte sarebbe una totalità. Convinzione aggravata da un altro concetto fuorviante, che neutralizzato nel secolo scorso, sta ritornando in auge (forse quale disperata risposta alla crisi del concetto di creazione artistica messa in atto dalle AI): quello romantico del genio creativo, dell’intervento umano e individuale che solo ci consente l’accesso alla vertigine del sublime.
Insomma. Nonostante Jean-François Lyotard ci abbia dimostrato, cercando un rimedio (post)kantiano a questi concetti vetusti e fuorvianti, che l’oggetto estetico lo è sempre solo in potenza finché il destinatario non lo elabora attraverso procedure deliberative e dialogiche; siamo ancora lì, a considerare l’opera come un’appendice del soggetto ideatore, che di questo soggetto condivide tutti i vizi e le virtù.
A scanso di equivoci.
Sostenere che questo sia un errore, non significa separare l’opera dall’artista e dalla sua vita. L’opera è il prodotto di un artista (sostenere il contrario ci obbligherebbe a rimettere in discussione i processi di formazione del sé e dell’identità individuale) che è esattamente quella persona lì. Ma ammettere questo non ci porta conseguentemente a sostenere che l’opera sia la manifestazione dello spirito dell’artista, anzi, ci porta a considerare l’opera come un manufatto, un oggetto di cui possiamo o meno fare uso. Esattamente come di una tazza, di una bottiglia di vino, di un paio di scarpe.
Qui si colloca, data per scontata la natura dell’opera d’arte non come prodotto dello spirito e del genio, ma come manufatto costituito dall’unione della tecnica e delle sovrastrutture (sono un anarchico ma benedico Carletto ogni giorno!) culturali, il vero motivo (l’unico per me comprensibile) della cancel culture. Se promuovi, per qualsiasi motivo, l’opera di una persona che ha fatto del male a altre persone, dai visibilità a quella persona. Nella nostra contemporaneità quella visibilità significa potere, e questo contribuisce a costruire la sua intoccabilità. È come se ti schierassi dalla parte del carnefice.
Questo è vero se promuovo o celebro l’opera in questione, senza problematizzarla. Ma non può mai esaurirsi in questo, il fine di un discorso critico.
Dirai, quanto cazzo la stai facendo lunga! Piantala e parlaci di Gli occhi di Juliette! Il punto è che non ho fatto altro fino ad adesso, perché – e questo è il vero problema che questo fumetto si porta addosso rispetto al comportamento criminale di Ruppert – sotto il pretesto di una storia di fantascienza, è esattamente di questo che tratta La parte meravigliosa.
Va bene, adesso ne parliamo.
Strani esseri sono comparsi sulla Terra. C’è chi sostiene che siano degli alieni, altri dicono che sono animali mutanti, qualcuno che siano spiriti. Nessuno si spiega la loro comparsa, ma sono pacifici e gli umani si sono presto abituati alla loro presenza. Si muovono indolenti per le vie delle città e per le strade di provincia, causando – come unico inconveniente – il rallentamento del traffico. Sono bellissimi, colorati e caleidoscopici. Sorta di sculture minimaliste e postminimaliste viventi. Sembrano opere uscite dalle mani di scultrici come Eva Hesse o Lynda Benglis o di uno scultore come Claes Oldenburg, e tutto quello che sembrano chiedere è di essere contemplate. Il primo volume si apre infatti con la mamma malata del protagonista che desidera soltanto guardare un “Toute” prima di dormire.
Nella versione Coconino (per questo ti dicevo che la trilogia è tradotta male), la traduzione di Emanuelle Caillat ha un problema interpretativo gravissimo. Quando rende il termine “Toute” con l’anodina e insignificante onomatopea “Ttut”. Questa scelta traduttiva cancella la chiave interpretativa dell’opera. Queste strane creature, queste sculture sono opere totali, e nella totalità trovano la propria ragione ontologica. Insomma, fuor di metafora: i “Toute” sono opere d’arte – hai posto attenzione al fatto che il protagonista si chiama Orsay? Come il museo? (ti risparmio la spiegazione del perché il protagonista che si trova a dover affrontare questioni postminimaliste, porti il nome di un museo dedicato all’impressionismo, andremmo troppo lunghi e se vuoi ,o facciamo la prima volta che ci incontriamo al bar) – in cerca di un’interpretazione.
C’è un problema però. Quando vengono interpretati, quando cioè, nella strategia narrativa dell’opera, entrano in contatto con gli umani, cedendo a essi parte della loro totalità, i “Toute” diventano aggressivi e pericolosi.
Opere d’arte esteticamente gradevoli e socialmente innocue, la cui origine non ci è dato conoscere, diventano pericolose nel momento che qualcuno cerca di entrare in contatto con loro. A questo punto l’opinione pubblica si divide in tre correnti di pensiero: chi (per motivi diversi, economici o ideologici) vorrebbe distruggere tutti i “Toute” – e scopriranno il modo in cui farlo nel terzo volume (non l’hai letto e non ti faccio spoiler)- chi vuole salvarli, come Melek e Vincenzo – e chi è interessato solo a usarli per aumentare il proprio potere, come la madre con il bambino che nel secondo volume (e vedrai poi nel terzo come va a finire) si scontra più volte con Orsay e Juliette.
Il secondo volume racconta il percorso di crescita intellettuale di Orsay e Juliette verso la consapevolezza del potere interpretativo del “fruitore” nei confronti delle opere d’arte, fino all’esplicitazione di un concetto che io trovo evidente (e al quale, nel terzo volume, Ruppert e Mulot danno struttura teorica – ma non ti svelo come): è quello di chi guarda il lavoro più difficile e l’unico che dà senso all’opera.
Quando si trova dentro al “Toute” Juliette usa il proprio sguardo – attraverso la stessa metafora di uno scultore come Tony Tasset – per assumere il controllo sull’opera.
Ovviamente ogni volta che Juliette fa questo, non esce indenne dal rapporto con il o la “Toute”. Qualcosa di lei, come di chiunque abbia a che fare con quegli starni esseri, viene mutato.
È il destino di ogni spettatrice e di ogni spettatore, di ogni ascoltatrice e di ogni ascoltatore, di ogni lettrice e di ogni lettore ricevere senso mentre lo da all’opera con cui interagisce.
A questo punto, dopo aver chiarito (almeno credo) perché Gli occhi di Juliette, unendo a una narrazione fantascientifica una riflessione teorica non comune tra gli autori di fumetto, è una delle tre cose migliori che ho letto l’anno scorso, potrei chiuderla qui.
Invece c’è un problema che, lo trascurassi, commetterei un falso intellettuale. Uno dei due autori di questo fumetto è, con ogni probabilità, uno stupratore seriale, e questo getta un’ombra su tutta la riflessione teorica che il duo Ruppert/Mulot porta avanti dal 2005. Non è questione di valore etico, che bellezza ed etica non camminano insieme, mi è chiaro da tempo. La questione è proprio teorica. Come posso credere a uno che mi dice che il valore ideologico di qualsiasi opera dipende dalla lettura e non dalla sua costruzione, se proprio lui che l’ha costruita è un criminale?
Come si trattasse di un paradosso (ma in fondo tutto il fumetto è un paradosso), la soluzione è all’interno della stessa Parte Meravigliosa. Ed è un personaggio. Anzi una personaggia: Basma, l’unica che – pur immergendosi nelle profondità dei “Toute”, gestisce con assoluta consapevolezza il proprio sguardo, restando sempre illesa dagli attacchi dell’opera.
Da quando compare nel primo volume, Basma lo dichiara subito, non crede all’idea romantico/idealista dell’amore e del genio creatore. Fa l’amore e contempla l’arte, ma come fa tutto il resto che le serve a restare in vita: mangiare, bere, respirare. Per Basma (e se avrai voglia di leggerti il terzo volume, scoprirai come sia lei la vera protagonista che troverà la soluzione al problema della gestione dei “Toute”) l’amore e il piacere estetico sono pratiche per la gestione di oggetti d’uso. Niente di più.
Certo, ti parlavo di paradossi e in fondo questa soluzione non è una vera soluzione. Quanto ti ho detto fino ad adesso è in realtà una lunga problematizzazione. Basma potrebbe solo essere uno schermo di Ruppert per separare le proprie responsabilità di uomo di merda dalla propria creazione artistica. Un ennesimo tentativo se non di separazione, di dichiarazione di indipendenza tra la vita dell’artista e la sua opera, almeno una volta che l’opera è stata portata nel mondo. Vero. Ma tutto quello che ti ho detto fin qui potrebbe anche solo essere un mio delirio interpretativo di un fumetto che, in fondo, prova a chiedere in giro, non conosce nessuno, fatto da due fumettisti di cui nessuno, tra quelli che frequenti, ha mai sentito parlare.
E allora? E allora è questo il punto. A prescindere dalle intenzioni di Ruppert e Mulot, e a prescindere dalle mie, ha (probabilmente) ragione Basma.
Solo il fatto di porre la questione in questi termini, fa di questo trittico un’opera di cui vale la pena discutere. Non capita molto spesso, no?
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.