Anche io: il senso di un premio discutibile, o (Quasi)

Paolo Interdonato | (Quasi) un premio 2024, Pantomime del Calisota |

Eccoti un’altra didascalia: “(Quasi) un premio” ha uno scopo evidente e uno più nascosto.

Quello evidente (e un tantino egoriferito) è lì a enfatizzare il fatto che Boris e io vogliamo capire se sia possibile istituire un premio di qualità che passi attraverso la cassetta degli attrezzi – fallibile e in continua ridefinizione – di una critica che ha lavorato molto sul senso di quello che fa. Volevamo assegnare un premio (o (Quasi)) che non assecondasse, in modo pedissequo, le regole dell’industria, le leggi del mercato e i vincoli sociali e che, al contempo, fosse consapevole che i parametri estetici sono frutto della cultura e della società. Per farlo, abbiamo deciso di giocare con le motivazioni, che nei premi istituzionali sono spesso taciute o stiracchiate in una mezza cartella – un migliaio di battute – tanto puntualmente riferita all’opera quanto lo è a te il tuo oroscopo su quel settimanale. Di fronte a questa evidenza, abbiamo deciso di assegnare un premio militante e assoluto (senza vincoli che non fossero ascrivibili ai nostri personalissimi amori, disamori, noie e pentimenti) che non consegnasse nulla nelle mani degli autori. Anzi, abbiamo deciso di provare a essere indifferente agli autori. Un premio specificamente rivolto alle opere che producesse – in luogo «del salame e della medaglietta d’oro», data in premio ai poeti in una canzone di Pierangelo Bertoli – analisi, critica e pensiero. “(Quasi) un premio” è la motivazione, specificata come meglio possiamo. Pagine di analisi del fumetto premiato e intorno a quel fumetto. Già: un premio per il quale non fare la fila fuori dal teatro in cui si consumerà uno spettacolino sceneggiato male, ascoltare imbonitori che fanno rimpiangere il mercato rionale e enumerano sponsor snocciolando banalità, annoiarsi mentre i presentatori si inerpicano su  scalette imbarazzanti, e poi, come dice Bacilieri, vedere gente «salire sorridenti su un palco, stringere mani, ringraziare la giuria eccetera», e, infine, una statuetta a imbruttire una mensola. Già: un premio che sia di critica, prima di essere della critica.

Il secondo scopo, quello nascosto, è mettere in luce paradossi che ci permettano di fare analisi di alcuni fenomeni, di mettere in crisi la prospettiva da cui guardiamo il mondo, di cambiare idea.

Proprio per assecondare questo scopo, non abbiamo dato ascolto alla voce interiore che ci gridava che dare “(Quasi) un premio” a La parte meravigliosa volume 2: gli occhi di Juliette di Ruppert e Mulot, da un certo punto di vista (che ci è difficile non reputare giusto), può essere decisamente inopportuno, se non addirittura sbagliato.

I fatti sono noti. In questo momento, uno dei due autori del volume, Florent Ruppert, è al centro di un’indagine con l’accusa, da parte di diverse donne, di violenza. Il sodalizio con Jérôme Mulot, che durava da vent’anni, si è bruscamente interrotto. Il terzo – e conclusivo – volume de La parte meravigliosa sarà, con ogni probabilità, l’ultimo a riportare in copertina i due nomi affiancati.

Fin dall’esordio, i due fumettisti – che realizzano ogni pagina senza evidente distinzione dei ruoli – hanno giocato con i vincoli e le forme del fumetto, muovendosi nel metatesto, senza rinunciare a essere intelligenti e divertenti. Boris e io abbiamo amato molti loro fumetti. Anche Gli occhi di Juliette. Lo abbiamo amato più di tutti gli altri fumetti stranieri che abbiamo letto nel corso dell’anno. Non li abbiamo letti tutti, è chiaro, ma ne abbiamo guardati tantissimi. Di molti di questi parliamo in chat, al telefono o la sera, davanti a calici di quel vino acidulo con le bolle che gli piace tanto. Di alcuni abbiamo detto anche su queste pagine. Per i motivi che dice benissimo Boris, quello di Ruppert e Mulot è quello che ci è piaciuto di più.
Però non è opportuno premiarlo.

Quando abbiamo presentato la lista dei vincitori – a nostro insindacabile giudizio – alla redazione, siamo stati ripresi sonoramente da più persone. Ce lo aspettavamo, anche perché le ragioni per cui lo hanno fatto sono ottime.
Riassumo male e come posso la più chiara: pur non avendo ancora alcuna certezza sulla colpevolezza di Ruppert, premiare un suo lavoro significa dargli visibilità, e la visibilità è potere.

La questione ha degli aspetti paradossali. Le persone che la sollevano, nella gran parte dei casi, sono garantiste, hanno una scarsa fiducia in qualsiasi governo (e nel sistema giuridico da esso prodotto), schifano la censura, esattamente come noi. Le persone che la sollevano, nella totalità dei casi, solidarizzano con le vittime e trovano la violenza di genere non solo criminale, ma addirittura repellente, esattamente come noi. Dare visibilità con un premio a un criminale schifoso (benché ancora solo presunto), a scapito delle vittime e del loro dolore, è da reputarsi sconveniente. Anzi, proprio schifoso. Perché quella visibilità è, appunto, potere.

Nessuna persona di buon senso cercherebbe di rimuovere dalla storia dell’arte e delle lettere le opere di individui che hanno operato comportamenti violenti e criminali (chessò… Pieter Mulier, Benvenuto Cellini, Caravaggio, fino a Pablo Picasso), ma è lecito aspettarsi che la specifica di quei comportamenti sia riportata con chiarezza nelle biografie di quegli artisti quando li si studia, così come accade per l’adesione al nazismo di Martin Heidegger o di Louis Ferdinand Céline.

Il problema diventa più difficile da gestire se si parla di criminali viventi. Roman Polanski è uno stupratore impunito. Continuiamo ad amare i film che ha realizzato approfittando del suo potere e raccontandosi come un rifugiato perseguitato da una legge ingiusta per una storia lontana. Amiamo i suoi film e sappiamo che è un porco schifoso con cui non condivideremmo il tavolo dell’osteria.

Ora ti dico una cosa. Penso proprio che – almeno fino a quando non sarà fatta chiarezza – i fumetti con la firma di Ruppert non dovrebbero essere premiati da nessuno.
E allora – mi dirai – perché, faccia da culo, lo avete premiato?
Perché facciamo una rivista che si chiama (Quasi). Non la legge nessunə ed è veramente improbabile che muova il venduto di quel libro anche solo di una decina di copie. E soprattutto per il primo scopo per cui abbiamo deciso di dare “(Quasi) un premio”. Un qualsiasi altro salame o medaglietta d’oro sarebbe stato accompagnato da una dichiarazione sporadica del tipo: «per il valore narrativo nell’uso del linguaggio del fumetto da parte di due autori che hanno scelto di sceneggiare e disegnare insieme tutte le loro opere» (o un’altra cazzata simile). Stiamo dando un premio di critica. Ne approfittiamo per analizzare quel fumetto, per problematizzare il nostro rapporto con esso, eventualmente per cambiare idea.

O per farla cambiare a te.

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(Quasi)