Dopo questa incursione su Chalky torniamo a Rusty, o meglio, a Woody: il punto di vista di queste pagine è ancora il suo, anche se con qualche differenza rispetto a prima (ad esempio: qui scompaiono del tutto i balloon di pensiero). Nelle pagine precedenti avevamo visto padre e figlio salire in macchina: nell’ultima vignetta, Woody cantava nella mente la canzone di Paul Simon e guardava lo specchio appeso al muro del garage. Nelle prime vignette della tavola successiva vediamo, da dentro il garage, la macchina già in giardino e il portellone che si chiude, lasciando il lettore al buio, e in silenzio.
Non vediamo Woody che si mette la cintura di sicurezza, o che accende la macchina, non vediamo che fa manovra, e non continuiamo a sentirlo cantare; queste attività vengono lasciate all’immaginazione del lettore che le integra senza problemi. Ware preferisce far vedere il garage che si chiude rumorosamente, con una sequenza identica (ma invertita) a quella di pagina 14. Sembra una scelta singolare, dovuta più a un’esigenza di simmetria che non a una necessità narrativa; eppure questa sequenza permette a Ware di fare due cose ben precise: la prima è allontanare il lettore da Woody, che è stato sempre in scena nelle ultime tre pagine, preparandolo quindi a rientrare nel punto di vista di Rusty; la seconda è creare le condizioni per trasformare il pensiero “pensato” in pensiero “visivo”. La vignetta completamente nera è uno stacco netto, ci trasporta da uno spazio fisico a uno mentale.
La seconda striscia è infatti una fantasia di Woody, che sogna di scappare via, da solo, da una famiglia alla quale non sente di appartenere. È buio, le luci alle finestre sono tutte spente, Woody non ha il cappello, e neppure la giacca, Rusty non è con lui.
Le tre vignette dentro al garage, tuttavia, creano uno stacco sufficiente a lasciare nell’ambiguità anche il lettore, che non capisce subito di trovarsi di fronte a una fuga (dalla realtà). In tutta questa tavola Woody appare tre volte in tre vignette piccole, al centro di questa seconda striscia. Fa manovra, guarda indietro nello specchietto (un ultimo ripensamento prima di partire?) e poi via. Anche qui, come in altre tavole, non c’è movimento: le persone e gli oggetti sono rappresentati in diversi attimi, e questi attimi, tendenzialmente statici, messi in sequenza (quindi con un prima e con un dopo) ci danno il senso del movimento. E così noi vediamo, nella prima vignetta, la macchina parcheggiata, poi vediamo i segni della macchina sulla neve (e dei gas di scarico, in una vignetta piccola perfettamente sovrapponibile all’equivalente porzione in basso a sinistra della prima vignetta grande (sì, lo so, si fa più fatica a scriverlo che a vederlo)); e infine, nella terza vignetta, la macchina, con i fanali accesi, in mezzo a una strada deserta: quest’ultima vignetta, in particolare, non ha alcun elemento grafico che indichi movimento, ma noi percepiamo comunque la macchina in viaggio grazie alla sequenza che abbiamo appena visto.
Tra le altre cose, ha pubblicato “Un diario pressappoco” (con lo pseudonimo brèkane, RGB, 2007), e, insieme con Alberto Talami, i volumi a fumetti “Quasi quasi mi sbattezzo” (Beccogiallo, 2009), Morte ai cavalli di Bladder Town (Autoproduzione, 2010, premio Nuove Strade al Comicon di Napoli, 2011), “Il futuro è un morbo oscuro, dottor Zurich!” (BeccoGiallo, 2018, premio Miglior Sceneggiatura al Comicon di Napoli, 2019) e Jungle Justice (Coconino Press, 2022).