Nello scorso articolo abbiamo accennato al presente etnografico di Argonauti del Pacifico Occidentale. L’utilizzo di un tempo verbale che finisce per fotografare le popolazioni attraverso uno sguardo che le riconosce estranee, naturalmente destinate a scomparire nell’abbraccio del progresso ma meritevoli di essere preservate in un qualche ricordo, quasi fossero oggetti di un museo. Per contro la presenza dei bianchi nel testo è appena accennata, riflessa solo nei cambiamenti che la cultura melanesiana ha subito.
I sagali, le condivisioni cerimoniali di cibo, sono ormai molto più contenuti. È diminuito il numero di mogli per ciascun capo e non si costruiscono più le Nagega, le grandi canoe utilizzate un tempo. Tutti fenomeni che accennano a come il sistema coloniale abbia impoverito i trobriandesi, ridimensionando la loro cultura. Il wasi, la pesca del pesce, viene soppiantata dalla pesca delle perle coralline il cui commercio è stato portato dagli occidentali. Malinowski testimonia quanto persino i rituali magici si siano adattati alle nuove abitudini ma vede in questo cambiamento solo una perversione dello status originale, non il ripensarsi attivo di una cultura nel confronto con un’altra. La presenza dei colonialisti occidentali rimane per lui un elemento ingovernabile che la gente delle Trobriand è costretta a subire.
I figiani e i maori disegnati da Pratt invece con l’uomo bianco negoziano. Non solo; anche ben consci di ciò che hanno perso sono comunque all’opera nel meticciato con gli ammutinati inglesi. Capaci all’occorrenza di vestire un’uniforme o un abito da suora e persino intenti a perorare cause nazionaliste alle orecchie disincantate di Corto Maltese. Mi fa sempre sorridere ogni volta che la rileggo, la scelta di far parlare i Senik in dialetto veneto: ma quando ho provato a comprenderla alla luce della svolta interpretativa battezzata dall’antropologo americano Clifford Geertz; allora quel sorriso si è trasformato in stupore.
Senza attaccarvi un pippa su Gadamer o Heidegger, ed evitando di farvi la storia a ritroso fino a Dilthey e Schleiermacher, l’approccio ermeneutico mutuato da Geertz si risolve nell’idea che la cultura sia una grande ragnatela di significati da interpretare. E quindi rimanda al problema: come facciamo a interpretarli? Pensiamo a un testo scritto in una lingua sconosciuta: per tradurlo non possiamo che partire da ciò che sappiamo della nostra lingua. Adattiamo alcune strutture e certi significati che essa veicola a qualcosa di alieno da lei. Cioè, applichiamo a ciò che incontriamo una categoria derivante da ciò che già conosciamo: quelli bravi la chiamano pre-comprensione. È questo meccanismo che ci permette di rendere il testo comprensibile. Ma ciò che capiamo del testo, le morfologie e i sintagmi della nuova lingua, cambieranno la comprensione della nostra lingua, della linguistica in generale e, in definitiva, ci riveleranno come siamo costruiti noi. Sempre quelli bravi hanno un nome anche per questo gioco circolare che ridefinisce noi e le nostre categorie tanto quanto definisce l’altro: è il circolo ermeneutico.
Ecco, Pratt usa il dialetto veneto come pre-comprensione del mondo dei Senik. Così facendo, per quanto involontariamente, iscrive colonizzati e colonizzatori dentro un circolo ermeneutico. Un rapporto di comprensione circolare in cui occidentali e nativi si costruiscono reciprocamente: tutta la Ballata è totalmente permeata da questo approccio.
Malinowski invece ne ha un altro, per lui ci sono i trobriandesi, i massim, i dobuani, i boyowani che sono come gli inglesi, i francesi e i tedeschi. Entità definite, chiuse, oggettive. Nonostante abbia coniato lui l’espressione osservazione partecipante ignora ancora quanto quella partecipazione implichi una ridefinizione, non solo di ciò che si osserva ma anche di colui che sta osservando. Ciò che vede con il suo approccio è al massimo un oggetto, il progresso occidentale, destinato a scalzarne un altro, la cultura trobriandese. E in questo modo finisce di fatto per legittimare l’operato di ciò che letteralmente non vede: il colonialismo.
Invece Una Ballata del Mare Salato riesce a farci vedere quanto il sistema di dominio coloniale abbia cambiato chi l’ha subito ma anche chi l’ha esercitato. Perché, a ben pensarci, Slütter, il Monaco e tutti gli ammiragli inglesi appaiono incastrati e tormentati dai ruoli che la situazione coloniale gli chiede di ricoprire molto più di quanto non lo siano i nativi. E nel rapporto con loro, poi, il personaggio di Corto Maltese continua a farci notare quanto il colonialismo sia parte integrante dell’incanto occidentale, in grado di incantare tutti: colonizzatori e colonizzati. Come quando Sbrindolin gli riconosce di essere più simile agli indigeni che agli europei, non fosse per il colore della pelle. E lui, di rimando: «Ti stai fregando Sbrindolin, cominci a parlare come un bianco!».
è scrittore di mezza tacca, disegnatore a tempo perso e suonatore di citofoni (in cui fa le pernacchie prima di scappare) ma nella sua carriera vanta anche esperienze teatrali e cinematografiche poco riuscite, alcune brevi incursioni nel mimo e nel porno ne fanno un artista completo.
In preda ad una crisi di mezza età, senza i soldi per comprarsi la spider e troppo apatico per intraprendere la classica relazione con una ventenne, sceglie di prendersi una laurea in antropologia. Ma siccome a lezione si annoia infila le graphic novel dentro le sovracopertine dei libri di testo e alla fine, facendo confusione tra gli argomenti delle lezioni e quello che legge, inizia a scrivere cose strane che ancor più stranamente vengono pubblicate.